Piccola etnografia dell’arte contemporanea

 Yves Michaud

 [Questo testo è la traduzione dal francese del primo capitolo del nuovo libro di Yves Michaud, dal titolo “L’art à l’état gazeux, essai sur le triomphe de l’esthétique”, che uscirà presso l’editore Stock nel febbraio 2003.]

  

 Una descrizione etnologica  o, per essere ancora più empiristi e mostrare meno pretese, un approccio etnografico dell’arte contemporanea può essere trattato da diversi punti di vista e sotto luci diverse: con simpatia o antipatia, da un indigeno o da un esploratore, da uno scienziato o da un naif più o meno naif, da un professionista remunerato per portare a termine questo lavoro e interessato ad esso ( in tutti i sensi dell’interesse) o da un dilettante. Questo elenco non esaustivo lascia, si dovrà convenire, un margine di apprezzamento sufficiente per sapere dove collocare chi si pretendesse soltanto etnologo o etnografo patentato. Non è una difficoltà insormontabile. L’etnologia come disciplina accademica prima balbuziente e incipiente, poi assestata, ha conosciuto le stesse ambiguità e incertezze, senza troppo cercare del resto di vederle sbandierate sulla pubblica piazza. Il primo etnologo fu un missionario, un amministratore coloniale, un avventuriero, un commerciante di derrate esotiche, un trafficante di opere rubate, un puritano in vena di esotismo, un apprendista-professore impegnato nella carriera accademica, un informatore locale, un traditore, oppure solo una guida turistica? E’ stato ora l’uno, ora l’altro e a volte molti insieme. Marcel Griaule, etnologo repubblicano integerrimo, attraversa l’Africa marzialmente vestito da ufficiale coloniale e raccoglie con la più grande sapiente attenzione le credenze di indigeni in stato di palese denutrizione. Oggi, egli sarebbe funzionario dell’ONG in 4/4. Malinowsky elaborò la teoria dell’osservazione imparziale sul terreno, ma scrive la sera il diario delle sue fantasie erotiche di puritano represso sui corpi delle trobriandesi1. Margaret Mead mente da professionista alle sue informatrici che le rendono la pariglia centuplicata e da ciò nasce una delle bibbie della disciplina2. Come se un etnologo travestito da turista conducesse la sua ricerca sul terreno marsigliese al banco di un bar del Porto Vecchio.

  Tutto ciò per dire che l’etnografia dei mondi dell’arte è tanto impura quanto l’etnografia tout court- ma non fondamentalmente di più. Si fa sotto differenti berretti e con interessi diversi. C’è l’autore di successo che, come Yasmina Reza3, descrive gli usi e gli scambi del mondo dell’arte su Art, prima di cercare l’ispirazione teatrale in un altro aspetto della commedia umana. C’è il critico d’arte che impreca alla Domecq4 e alla Céna5 che lamenta in lunghe cronache di denuncia e disinganno il dominio degli artisti senz’arte o lo spettacolo del niente nelle vetrine alla moda. C’è il disegnatore umoristico-moralista alla Delhome6 o alla Sempè che descrive per filo e per segno e senza ridere il “dramma dell’arte decorativa”, la “diluizione dell’artista” o questo territorio bizzarro che ha nome “arte contemporanea”. C’è il consumatore di novità. e entomologo bulimico del gruppo alternativo integrato alla Paul Ardenne, storico del presente e archivista dei micro-eventi7. C’è il sociologo che studia le prescrizioni del mercato e il ruolo dei prescrittori alla Quemin8 o alla Raymonde Moulin9. Perfino gli apparatchiks cool e al corrente della cultura che si riuniscono annualmente per la sessione plenaria del congresso del partito dell’arte e dei partiti fratelli contribuiscono a modo loro, anche involontario, a questa etnologia: si sentono sindacati e corporazioni microcosmiche, dalle sigle e logos cabalistici, difendere chi l’azione artistica (AFAA), chi i centri d’arte (DCA), chi le scuole superiori (ADEA), chi i consmilitanti di novità-e in tutto ciò non c’è arte, e nemmeno artista, se non forse l’artista-funzionario di servizio quale un alabardiere d’opera, ma solo persone che fanno professione di gestire l’immaterialità e le sue eteree condizioni di produzione e di promozione burocratica.

  La policromia dei berretti è divertente ma non riesce a ingannare: non impedisce per niente un consenso molto ampio sui tratti principali della situazione. Solo variano in fondo le emozioni: là dove alcuni piangono, pestano i piedi e lanciano anatemi, altri sorridono, si annoiano o fanno semplicemente il loro mestiere e i loro affari perché è dopotutto la loro professione e non ci sono stupidi mestieri.

  Quali sono dunque quei tratti che in fondo non sollevano alcuna divergenza nelle diagnosi per ciò che hanno di più fattuale? Li elencherò senza cercare di articolarli tra di loro né di gerarchizzarli, per non imporre prematuramente una spiegazione.

 Prima costatazione dunque, visto che bisogna pur cominciare da qualche parete, quella della sparizione o quasi-sparizione della pittura. Cosa che alimenta di colpo ad nauseam   considerazioni tanto sicure sulla morte definitiva di questa forma d’arte irrimediabilmente superata quanto luoghi comuni ossessivi a proposito della sua resurrezione o della sua riscoperta sotto nuove forme: E se la pittura ridiventasse urgente? E se fosse pittura del dopo catastrofe? E se facesse ritorno come pittura post-pittorica? Quando c’è nonostante tutto pittura, quando i quadri sono proposti allo sguardo, visto che restano degli smarriti, l’attività si vede difesa, se si può dire, sia in nome di scelte passatiste e nostalgiche assunte sia nei termini di una pittura condotta e fatta “malgrado tutto”, con un eroismo incosciente dei rischi assunti oppure disperato nella più pura tradizione del “fino alla fine”. Gli ultimi pittori non hanno i batter d’occhio dell’ultimo uomo: sono immersi nella cattiva coscienza. E’ del tutto giusto se non si scusano di essere nel ripetuto, nel diletto, nel passato di un’arte passata.

  Cosa che fa opportunamente ritornare a galla due clichés consumati, l’uno molto “belle arti”, l’altro molto “romantico”. Il cliché “belle arti” è quello della stupidità pittorica, con qualcosa del “perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Perché i pittori sono stupidi e intendono proprio rimanerlo. Non capiscono niente né della storia dell’arte né dello spirito del loro tempo; obnubilati dal colore, percorrono la loro avventura solitaria, Il cliché “romantico” è parimenti conosciuto: è quello del pittore maledetto e incompreso, misconosciuto dalla sua epoca. Solo che qui il pubblico che non capisce niente non è il pubblico borghese volgare del XIX° secolo innamorato dell’accademia enfatico, ma il pubblico borghese aggiornato del XX ° secolo, quello che ama il video, la musica tecno, il “fooding mix” e il design.

  Sui muri delle gallerie, centri d’arte e musei d’arte contemporanea, la fotografia per la maggior parte del tempo rimpiazza la pittura.

  Questa fotografia è praticata e accettata in tutte le forme: documentaria, pittorica, di rivista, di reportage, di moda, pornografica, erotica e paesaggista, semi-amatoriale e professionale, di posa, premeditata e costruita o spontanea e presa dal vivo, fatta con il medium chimico tradizionale o fabbricata e ritoccata dal computer, stampata a mano o con procedimento industriale, presentata con la stessa solennità della pittura oppure appesa in fretta o ancora proiettata in dia, esplosa in vignette multiple o ingrandita in dimensioni monumentali o enfatiche.

  Per queste fotografie anche ogni soggetto è buono: l’autoritratto, il corpo intimo celebrato, accettato, malato, sfigurato o mutilato, il sesso sordido o glorioso, l’architettura, la città, la folla, i luoghi pubblici, l’iconografia religiosa, la biografia, il fotoromanzo, l’auto-fiction, il documento, il sociale, ecc., ecc.

  In rapporto alla pittura che richiedeva tempo e concentrazione visiva, che poneva la contemplazione in una parentesi di tempo sospeso, questa fotografia è leggera, discreta; pesa poco, anche quando i formati sono immensi, o il contenuto sensazionale o choccante. Sono immagini sulle quali si passa rapidamente, sulle quali si scivola via e che si rivolgono a una attenzione incerta. Per riprendere una espressione inventata all’inizio da un pittore, Bill de Kooning: con essa, content is a glimpse, il contenuto è un lampo, una visione fuggitiva, uno sguardo di sfuggita.10

  Le fotografie, dunque, hanno rimpiazzato le pitture sui muri. Esse vestono di un medium contemporaneo un accademismo rassicurante e il borghese dinamico affrettato accetta in foto ciò che non può più vedere in pittura. Ma non ci sono solo muri. La produzione contemporanea ha, ancora più spesso, lasciato le cimase per invadere lo spazio. E’ allora fatta di installazioni, dispositivi, macchine e ambiti calcolati per produrre effetti visivi, sonori e d’ambiente. Questi montaggi complessi possono essere fatti di elementi prelevati nell’universo quotidiano: frammenti di oggetti e oggetti scartati o gettati, detriti, imballaggi, segnali fuori corso, manifesti, materiali industriali, elementi di decorazione e arredamento, prodotti di consumo correnti, elementi della cultura popolare o della cultura di lusso “grandi consumi”, suoni, musiche, illuminazioni, macchine fotografiche, televisioni e monitor video. Con qualche volta elementi tecnologici avanzati: informazioni provenienti da siti internet consultati in tempo reale o programmi informatici per guidare i dispositivi. Intervengono anche immagini fisse o mobili, montate quale dispositivo percettivo, proiettate sugli oggetti. La configurazione assomiglia allora al panorama, alla fantasmagoria, alla proiezione cinematografica o al condizionamento sensoriale del parco di divertimenti.

  Il termine consacrato per designare in modo generico questa specie di dispositivo è “installazione”. Si vede spesso affibbiato, se ce n’era bisogno, il termine “multimediale”: quando le opere contemporanee non sono fotografie, sono “installazioni multimediali” dette anche “tecniche miste”.

  Se l’installazione è animata in diretta o in differita dall’artista o da attori che si integrano al dispositivo o ne costituiscono il centro, l’installazione diventa allora “performance” o “action”; essa si avvicina all’atto teatrale, alla coreografia o al rituale religioso.

  Che si tratti di installazione, di performance o d’azione, il dispositivo operativo è complesso (ocorrono istruzioni per l’uso e assistenti), definito solo a grandi linee e in modo molto poco costrittivo perché si deve poterlo presentare in altri luoghi e circostanze con nuove costrizioni. Ciò che conta meno, è dunque la materialità di questo oggetto complesso che è il dispositivo che fa in modo che possa produrre una certa gamma di effetti-un’esperienza di un certo tipo: divertimento, perplessità, spaesamento, fascinazione, rifiuto, disgusto, orrore, sentimentalità e, perché no, noia, cioè anestesia.

  Dire così che il dispositivo deve produrre un’esperienza, sposta l’accento dell’opera verso il suo effetto e verso l’interazione con lo spettatore che guarda: fondamentalmente questa specie di dispositivo è “interattivo”.

  Non è pertanto indispensabile che il dispositivo sia facilmente identificabile come “arte”: ciò che è arte è l’effetto prodotto. C’è cancellazione dell’opera in favore dell’esperienza, cancellazione dell’oggetto in favore di una qualità estetica volatile, vaporosa, o diffusa, con a volte una sproporzione ridicola o, al contrario, una quasi equivalenza tautologica tra i modi esibiti e l’effetto ricercato: un pandemonio di oggetti può dare un unico effetto comico definitivo o magari un bazar delirante suggerire un effetto di disordine come di fatto è. Anche nell’arte più classicamente definita, ciò non è stato mai granché differente e non c’è nel principio una grande novità, Una pittura doveva “fare il suo effetto” per essere la grande opera che pretendeva il suo autore. Solo che l’identificazione rapida dell’oggetto permetteva all’osservatore di fare facilmente la prima metà del cammino, quella che lo aggancia alla fonte dell’esperienza. Qui questa prima parte del cammino è a carico dell’osservatore che deve identificare il dispositivo come fonte pertinente di stimolazione, o rapportarsi al contesto per sapere che ha a che fare con un dispositivo artistico e non con i resti appassiti di un cocktail di inaugurazione lasciati lì perché gli uomini di servizio pachistani li mettano nell’immondezzaio l’indomani mattina.

  Cosa che porta diritto ad un altro aspetto della situazione: occorrono dei “modi d’impiego” per percepire quando e dove c’è arte; occorrono in qualche modo dei pannelli che indichino “attenzione Arte”. Negli anni 1970 ciò è stato regolarmente una fonte di ironia, ma questa condizione fa ormai parte delle regole del gioco correntemente accettate e anche triviali.

  Nel 1972, il saggista americano Tom Wolfe aveva ironizzato in un libro intitolato La parola dipinta11 sul fatto che una buona pittura moderna doveva ormai essere accompagnata da una teoria estetica convincente, senza la quale essa non valeva niente. Un quadro espressionista astratto aveva bisogno per essere identificabile come tale di un testo teorico formalista, preferibilmente firmato Greenberg, che vantasse la sua piattezza, o di una analisi del procedere gestuale, preferibilmente firmato Rosenberg, che vantasse l’espressività dell’azione pittorica. Senza di che, era solo uno scarabocchio. Si è subito compreso che l’onere dell’apprezzamento non spettava solamente a testi più o meno ermetici di prefattori più o meno celebri, o a cartelli del genere “senza titolo, tecnica mista”. Perché le opere fossero riconosciute come tali, occorreva infatti tutta una messa in scena d’esposizione e segnatamente quella del “cubo immacolato” della galleria d’avanguardia12. Occorre che un insieme di indicazioni visive, linguistiche e comportamentali delimiti e definisca la zona  d’operazione e d’esperienza artistica. I membri della tribù degli amatori d’arte contemporanea dominano abbastanza bene questo codice che permette l’identificazione dei luoghi d’esposizione come galleria piuttosto che come deposito o spazio da affittare, l’identificazione delle opere come installazioni artistiche piuttosto che dispositivi di formazione al codice della strada o resti di un salotto professionale alla sera di chiusura. Come dice la didascalia di un disegno di Jean-Philippe Delhomme nella sezione “gallerie” del suo Arte contemporanea: “alla fine di un giro nelle gallerie, presi all’inizio le lacrime della mia amica per una reazione di ipersensibilità di fronte a troppa ironia e di secondo grado, ma ella mi confessò qualche settimana dopo in occasione della nostra rottura che si trattava di pianti di rabbia per dover passare un sabato pomeriggio così tipico”13.

 Se c’è una tendenza generale da notare fra queste condizioni di contesto, è quella della cancellazione della dimensione dello sguardo concentrato (guardare qualche cosa in una relazione a due poli: guardante - guardato) a favore di una percezione dell’ambiente o dell’ambito che avvolge il visitatore stesso nell’insieme del dispositivo percettivo e percettibile. Spesso, la presenza di un sistema video, che riprende l’immagine dello spettatore per reinserirla nel dispositivo, realizza nel vero senso questa operazione di avvolgimento. L’”interattività” diventa allora “relazionale” o “transazionale”.

  Questi fattori relazionali, transazionali, di implicazione interattiva, l’arte contemporanea li condivide con la pubblicità ed è effettivamente un altro aspetto della situazione di prossimità, di connivenza e proprio di quasi confusione tra arte contemporanea e pubblicità. La complicità è tanto di contenuto che di forma e di procedimento.

  Riguardo ai contenuti, invano si rifletterebbe oggi sulla direzione dell’influenza: l’arte copia la pubblicità o la pubblicità l’arte? Il fatto è che l’arte contemporanea riprende senza discontinuità temi, motivi e immagini pubblicitarie: logos, types, clips, marchi, icone del consumo, immagini standardizzate dei prodotti correnti, immagini stereotipate di vedettes, di figure dei media e del show-biz. Duchamp fu il primo a inserire sistematicamente questa iconografia pubblicitaria nella sua arte. La Pop art ne fece il suo marchio di fabbrica. Non ha neppure più senso parlare di secondo grado, di citazione ironica o di mise en abyme: si tratta in realtà di uno scambio e di un riciclaggio senza fine degli stessi temi in un mondo diventato indissociabile dai media che lo rappresentano e in realtà lo costituiscono. La nostra cultura è una cultura della copia; il medium è il messaggio e il messaggio è il medium.

  L’identità è altrettanto reale in materia di procedimenti. Le produzioni artistiche utilizzano tutti i modi e metodi della pubblicità: piccoli annunci, cartelli, manifesti di tutti i formati, pannelli pubblicitari urbani, grafismo pubblicitario, montaggi e ritmi di clips televisive, opuscoli, volantini, sondaggi telefonici, campionari, marionette, personaggi virtuali, logos. Alcuni artisti distribuiscono opuscoli all’uscita del métro, affittano o si vedono offrire spazi pubblicitari sull’arredo urbano, iscrivono slogan ermetici su pannelli d’affissione luminosi, comprano spazi pubblicitari sui giornali, lasciano messaggi sulle segreterie telefoniche o messaggerie, si trasformano in uomini sandwich per promuovere la loro produzione, incollano e depongono volantini nelle cabine telefoniche, inviano spam  elettronici, redigono veri o falsi comunicati stampa, si promuovono come detersivi, promuovono conferenze stampa.

  Tutte queste transazioni sono tanto arte quanto pubblicità, e tanto pubblicità quanto arte. C’è poco da sorprendersi allora che una quantità rispettabile di artisti siano stati o siano del resto dei pubblicitari: designers grafici, ideatori, direttori d’agenzia, agenti. L’anello si chiude quando l’organizzatore di avvenimenti artistici è lui stesso redattore pubblicitario, animatore di uno studio grafico. Il curatore o ........ e l’agente pubblicitario non sono che una persona se conducono una doppia vita.

  Nella continuità di questo diventare-pubblicità dell’arte contemporanea, si noterà un’altra trasformazione, dalla parte questa volta delle affinità fra le arti.

  Ci sono sempre state delle parentele fra le arti, anche sotto la forma di rivalità e di competizioni. L’Ut Pictura Poesis e il paragone14 costituiscono il paradigma di questa relazione fra due forme d’arte sistematicamente messe in mostra, confrontate e giudicate. L’arte moderna ha visto svilupparsi delle parentele forti tra scrittura e pittura: Manet, Zola e Mallarmé, Aurier e i simbolisti, Stein e Picasso, Haussmann e la poesia fonetica, Breton e i pittori, gli espressionisti americani e John O’Hara, Warhol e il cinema sperimentale, per non citare che qualche esempio ben conosciuto. C’è stata una esposizione interessante e pertinente sull’arte del XX° secolo con il titolo Poéture et peintrie.

  Si constatano oggi tutt’altre connessioni e connivenze. Gli artisti contemporanei non guardano affatto ai poeti, ai cineasti o agli architetti, ma ai musicisti, ai creatori di moda e ai designers. I designers in ragione, suppongo, della preoccupazione condivisa per il modo di vita, lo spazio vissuto, gli ambienti, cosa che si iscrive appunto nel processo di passaggio dell’arte allo stato gassoso di cui parlo all’inizio. L’associazione con la moda va nello stesso senso: è questione di stile in continuo rinnovamento, di immersione nel flusso del tempo conservando l’illusione di un presente che non passa mai a forza di rinnovarsi. L’affinità con la musica è tanto riconosciuta e dichiarata quanto strana. Non si tratta di una musica qualsiasi, ma della musica techno e di DJ, la musica di sampling e di mixage. Il carattere avanguardista, la costruzione formale non contano, a differenza di ciò che è successo all’epoca dell’arte moderna. Ciò che conta è la bolla musicale, la spiaggia di spazio-tempo musicale, una specie di design sonoro che occupa lo spazio e colora la relazione sociale a scapito di tutte le altre forme di interazione.

  Più che queste affinità, ciò che dovrebbe colpire è l’indifferenza quasi completa degli artisti contemporanei per la letteratura, il cinema, la poesia e, in realtà, una forma di chiusura su se stessi che è coerente con un modo di vivere tribale iniziatico. In un giusto contraccambio d’altra parte, i poeti, i romanzieri e i cineasti ostentano in generale una bella indifferenza per l’arte contemporanea, quando non sono in testa alla crociata contro di essa. Le arti della narrazione, della metafora e del mito sono ormai tagliate fuori dall’ambiente, dal beat e dalla Stimmung esistenziale.

  L’arte si è sempre sviluppata in seno a gruppi e comunità: comunità di apprendistato o di formazione, di produzione, di apprezzamento, comunità di pari e di compagni, ma anche comunità di ricettori, cioè le differenti forme del pubblico, con dimensioni variabili per queste comunità, dopo il cerchio ristretto dei collezionisti o committenti principeschi fino al grande pubblico che una volta faceva la fila per sfilare nelle retrospettive impressioniste o si strappava gli t-shirts-pop. L’arte contemporanea non sfugge a questo fenomeno della comunità ma in un modo qui ben più particolare. Funziona come un gruppo o una tribù di iniziati. Ciò che vuol dire negativamente che non c’è ancoraggio nel grande pubblico. Non c’è soprattutto la militanza verso il grande pubblico dell’arte moderna del XX° secolo. Non interessano le folle che non ci capiscono niente e preferiscono consumare i prodotti della cultura popolare commerciale, ma tantomeno essi si interessano ad esse, eccetto nella forma politicamente corretta della categoria di soggetti assistiti per impegno misurato: esclusi, senza fissa dimora, immigrati, malati, minoranze sessuali, ecc. A essere interamente onesto, gli artisti contemporanei non si preoccupano per niente del pubblico, anche quando tutta la loro arte tende al relazionale e al transazionale. Passata la sera dell’inaugurazione, le istallazioni relazionali e transazionali diventano degli sportelli chiusi o dei giochi abbandonati: lo studio televisivo non avrà funzionato che una sera di ufficialità, il pasto per i poveri non è più servito e l’artista è ripartito verso altre (buone) opere. L’elogio dell’apostolato della cultura popolare avanguardista è confinato in un piccolo numero di discorsi ufficiali pii e ipocriti che si sforzano in modo tanto ritualizzato quanto sprovvisto di convinzione di giustificare l’impiego di fondi pubblici, del resto molto modesti, per sostenere, cioè pensionare la creazione. Per il resto, gli alunni degli istituti scolastici formano, per la fortuna dei centri d’arte, un pubblico prigioniero e obbligato che fa fare bella figura a statistiche di frequenza per altri versi disastrose.

  In linea di principio in ciò non c’è niente di scandaloso. Non si vede in che cosa una strategia di creazione ermetica sarebbe a priori condannabile. Ci sono sempre stati poeti per happy fews e, secondo un’espressione consacrata dei pittori per pittori. Un’arte non ha per forza vocazione a diffondersi democraticamente come servizio pubblico.

  Ma ciò che è invece bizzaro e costituisce un paradosso istruttivo, è il constatare che l’ermetismo e il carattere confidenziale dei rituali intorno ai quali si riunisce e si riconosce la tribù dell’arte contemporanea porta a un tipo di produzione che, per altro, in forme appena differenti oppure perfettamente simili, sono correntemente consumate dal pubblico della cultura  popolare commerciale. Le stesse foto, suppergiù, possono essere mostrate su Paris Match o in una galleria d’avanguardia, e le foto di Paris Match o di Gala possono essere integrate a una installazione da un artista critico. Questo artista “trainante” o praticante riconosciuto della “estetica relazionale” distribuisce all’uscita del metro dei volantini cercando di stabilire o rivitalizzare la comunicazione nel flusso umano anonimo della grande città, ma egli officia accanto a un Africano che distribuisce, lui, dei volantini per consultare uno stregone o antistregone e acquistare amore, ricchezza o poteri magici. L’installazione video in circuito della galleria di punta è visibile, a conti fatti, presso Zara o Armani. La riproduzione monumentale delle foto di un uomo anonimo sulla facciata di un centro d’arte non è veramente differente da quella utilizzata per l’autopromozione nel metro da un’agenzia pubblicitaria che abbia deciso di farsi conoscere “vendendo” l’immagine di uno sconosciuto. La scena di trasgressione di un performer che inzacchera il santuario della galleria di ketchup è fedelmente replicata da un provocatore della personalità. La stessa famosa interattività dell’arte diventa anch’essa, mi si perdoni lo scherzo, una torta alla crema in un mondo dove tutto è interattivo, dalla televisione e dall’assistenza al consumatore fino agli spettacoli pornografici.

  In altri termini, si ha l’impressione strana che l’arte contemporanea lavori senza tregua ma sottilmente per rendere ermetico l’accesso a esperienze tutto sommato banali e tanto comuni, come stringere la mano a qualcuno, fare l’elemosina a un mendicante, scambiare uno sguardo con una bella donna, guardare nel vuoto, annoiarsi o essere presi da un riso comunicativo perché nervoso. Se c’è un caso dove il meccanismo burdivista (con buona pace di Bourdieu e della sua anima materialista collerica!) della distinzione opera pienamente, è quello dell’arte contemporanea: esperienze molto vicine vengono differenziate per ragioni di distinzione. Ci sono gli iniziati e poi gli altri. Tutta la sottigliezza della faccenda consiste nel fatto che il segreto della rassomiglianza sia ben custodito, che il pubblico comune resti nel comune e il pubblico iniziato nell’iniziazione. Si finirebbe quasi per capire come sia di colpo inutile cercare di stabilire una relazione con il grande pubblico: ciò equivarrebbe a confessare che il re è nudo o che i soggetti sono vestiti con ornamenti regali, che la relazione in effetti  esiste già perfettamente, ma che l’essenziale è soprattutto di non saperlo.

  Più prosaicamente, l’effetto tribù o l’effetto iniziazione si traduce nella moda delle comunità artistiche e dei collettivi. Diversamente da quello che succedeva nel XX° secolo moderno, non si tratta qui né di movimenti né di gruppi costituiti attorno a una ricerca, a un manifesto o a una linea teorica, ma di gruppi informali, di raggruppamenti di vita e d’usanze che permettono pratiche differenti, che coesistono pacificamente senza alcuna unità teorica o concettuale. I numerosi capannoni industriali dei paesi ricchi favoriscono questi raggruppamenti, che possono eventualmente trasformarsi in ghetto, e, prolungandosi, i centri d’arte e gallerie associative espongono insieme senza discriminazione delle produzioni eterogenee e estremamente diverse, ma che, per un titolo o per un altro, hanno passato il test del mondo iniziatico. Non è eventualmente una questione di tolleranza o di apertura di spirito postmoderna. E’ piuttosto che il criterio discriminante non è la natura formale delle produzioni o il loro progetto intellettuale, ma il fatto che siano state accolte nel mondo dell’arte contemporanea.

  Un altro aspetto della situazione “arte contemporanea”, che non è oggetto di alcun disaccordo fra i differenti osservatori, riguarda l’impegno sociale e politico limitato degli artisti e delle opere.

  L’arte moderna dopo Courbet e dopo gli anni 1850 fu un arte militante, le cui rivoluzioni e i cui cambiamenti dovevano riflettere o prefigurare le rivoluzioni politiche, che fossero rivoluzioni di sinistra (più spesso) o di destra (a volte). Abbiamo invece a che fare con un’arte contemporanea politicamente neutra, largamente spoliticizzata o, almeno, con la coscienza critica e con gli impegni “deboli”, nel senso che l’aggettivo debole significa nell’espressione italiana pensiero debole. Non c’è più un grande progetto politico e la coscienza critica è limitata. Nessuno, certamente, la rivendica alto e forte: tutti gli artisti continuano, ben inteso, a essere “di sinistra” , ma ciò non li impegna a granché. Segno dei tempi, di questa depoliticizzazione e forse anche della relativa perdita di influenza sociale, nel momento delle campagne in favore della regolarizzazione dei “sans papiers” in Francia, furono i cineasti, la gente del mondo dello spettacolo e dei media a essere alla testa del movimento, ma invano si sarebberero cercati dei plastici contemporanei.

  A ben guardare, questa depoliticizzazione corrisponde alla passività politica delle democrazie individualiste, dove non si trova più alcun progetto rivoluzionario. Non si vede per quale ragione i profeti si dovrebbero rifugiare tra gli artisti, né perché si dovrebbe rimproverare la sparizione di questi profeti romantici più agli artisti che non ai sindacalisti amministratori e agli ultimi militanti politici in rianimazione. Piuttosto che parlare di depoliticizzazione o di ritirata nell’avventura dell’arte, bisognerebbe, a dire il vero, parlare più di una politicizzazione limitata e debole. Perché gli artisti contribuiscono, come ognuno, alla riflessività sociale, cioè all’apprendimento che la società fa di ciò che succede in essa attraverso tutti gli osservatori e punti d’osservazione di cui dispone. Essi non possono in ogni caso fare diversamente. Ma misurano così come chiunque a che punto la loro parte di riflessione è limitata e ridotta. Ciò che induce strategie d’intervento sociale limitate e consciamente deboli accanto e riguardo a minoranze come i lavoratori immigrati, gli esclusi, i senza fissa dimora, gli handicappati, ecc. Se c’è una politicizzazione, è, si potrebbe dire, una politicizzazione dell’impotenza o per la forma: con la coscienza che l’arte può poco. Ciò che gli artisti traducono in azioni anch’esse limitate, discrete, deboli, poco invadenti. Un artista  ha significativamente nominato le sue azioni nella strada “azioni poco”. Su questo terreno, bisogna riconoscere che l’inventività dell’artista è, in ogni modo, sottoposta alla concorrenza feroce della creatività dei pubblicitari, dei produttori di tecnoesibizioni o gay prides, dei manifestanti sindacali e degli organizzatori di manifestazioni di ogni genere: una volta lasciato il cerchio protettore del centro d’arte o della galleria, ognuno è da solo nella giungla della città.

  Da distante e dall’alto in rapporto a tutti questi elementi di descrizione, si vede bene che una caratteristica principale struttura l’insieme della situazione: la polarizzazione e la volgarizzazione delle procedure duchampiane di produzione di readymades.

  Il genio di Marcel Duchamp fu di introdurre con i readymades, questi oggetti già fatti, finiti o pronti all’impiego, delle strategie di produzione che operano su tutti i fattori costitutivi dell’arte (l’autore, il modo di esporre, il pubblico, l’oggetto), per trasformare sul filo di una serie di operazioni e di avvenimenti una cosa qualsiasi, ma fondatamente scelta in un’opera che è anche insieme una non-opera. Le pratiche minuziose di Duchamp, riflettute, premeditate fino a integrare gli effetti che provocano, hanno come effetto malizioso e provocante quello di trasformare in un’opera un “non importa cosa”, che all’arrivo non è più un non importa cosa e non rivela a posteriori neppure l’essere stata quel non importa cosa che si credeva. Di queste opere in fondo solo le procedure di costituzione (e non solo di produzione perché ci sono degli aspetti solo intellettuali e concettuali in questo processo di ritardamento) ne fa delle opere. Marcel Duchamp ha così messo in piedi fin dagli anni 1910 una concezione puramente procedurale dell’arte, nel senso in cui i filosofi parlano della teoria procedurale della giustizia di John Rawls o della concezione procedurale della comunicazione politica secondo Habermas. Con Marcel Duchamp, l’arte non è più sostanziale ma procedurale, non dipende più da un’essenza ma dalle procedure che la definiscono. Una palla di neve di legno e metallo può diventare a certe condizioni, un’opera d’arte che si chiama In advance of the broken arm.

  Si tratta qui di molto di più di un nominalismo pittorico, nel senso che l’artista deciderebbe il modo regale che “questa è arte”. C’è certamente un nominalismo nel senso che l’opera è finalmente sempre riconosciuta sulla base di un gioco di convenzioni simboliche ma la produzione di queste convenzioni è eminentemente complessa e suppone la realizzazione di tutta una serie di operazioni. Essa richiede un’insieme di procedure complicate e regolate per le quali l’artista deve ottenere la collaborazione di altri attori indispensabili alla convalida del processo. Fontana di Marcel Duchamp non è esattamente un orinatoio ribattezzato Fontana, così come noi crediamo di poterlo recepire oggi, vedendo nei musei le copie che pretendono di ricostituire l’originale sparito, di cui non conosciamo che delle fotografie e che pochissime persone videro davvero al momento della sua fuggitiva apparizione. Fontana è un oggetto particolare scelto per passare (e sfidare) il test della partecipazione a una esposizione della Society of Independent Artists. Questa società, fondata nel 1916 da artisti americani moderni alla ricerca di una rispettabilità per l’avanguardia, istituita contro il conservatorismo della National Academy, aveva gli stessi principi di legittimazione dell’artista, per la libera partecipazione alla suddetta società, della Società degli artisti indipendenti di Parigi che fondava la sua legittimità sul mandato di cui la investivano i suoi membri e non sulla tradizione. Questa Society of Independent Artists, il cui principio era la non selezione delle opere proposte (“no jury, no prizes”), che per principio doveva ammettere nelle sue esposizioni tutto ciò che proponevano i suoi membri, aveva coinvolto nel suo comitato fondatore Marcel Duchamp per la sua notorietà avanguardista, specie dopo lo straordinario successo di scandalo del Nudo che scende le scale all’Armory Show nel 1913. Questo Nudo, che l’aveva reso celebre, era stato, anch’esso, rifiutato prima al Salon des Independants di Parigi nel 1912. Col nome di R.Mutt, Duchamp sfida il principio stesso di non selezione della Society of Independent Artists come eco del rifiuto subito anteriormente da un’altra delle sue opere. Fontana sarà effettivamente rifiutata in un’esposizione dove non si rifiuta nessuno, come già lo era stato Il nudo che scende le scale a Parigi. Nello stesso tempo però Duchamp si dà da fare affinché Fontana diventi l’oggetto di una fotografia del famoso Alfred Stieglitz, promotore dell’avanguardia americana e fotografo di fama nei locali della sua galleria 291. Interrompo qui il racconto delle macchinazioni di Duchamp e della complessità delle procedure: esse sono state magistralmente descritte dagli esegeti di Duchamp e notoriamente Thierry de Duve nel suo libro Resonances du Readymade.16

  Volevo soltanto mettere bene in evidenza che la scoperta, l’iscrizione, la precisione di un readymade, tutti termini che Duchamp impiega lui stesso in modo definito e ragionato, non derivano affatto da un grezzo arbitrio ma da un gioco di procedure premeditate e dominate dal principio alla fine.

  E’ ben evidente che la popolarizzazione e la volgarizzazione di questa pratica l’hanno considerevolmente impoverita e semplificata, se non altro per la banalizzazione del procedere una volta passato il tempo dell’invenzione, quando si entra in quello della ripetizione e anche della ridondanza. Ciò che nonostante tutto rimane, è il fatto che tutti i tipi di pratiche, assolutamente tutti, possono in un certo momento e a certe condizioni far parte dell’arte contemporanea. E rimane anche il fatto che hanno ormai altrettanta importanza nel procedere tutti i fattori che lo condizionano, non soltanto l’oggetto e l’artista ma anche le gallerie, l’agente, l’osservatore, il critico, il collezionista, l’agente-organizzatore, le istituzioni di convalida. “Sono quelli che guardano che fanno i quadri” diceva Marchel Duchamp, la cui altra opera famosa, Il grande vetro, nasconde

 “testimoni oculisti” e il cui ultimo grande pezzo Etant donné... si presenta dall’esterno come una semplice porta di legno forata dallo spioncino. Effettivamnete, ci sono ormai readymades dappertutto e di tutto. Come dice Jean Philippe Delhomme “Badile da neve/in previsione del braccio rotto”: se veramente si vuole esercitare la mente ripetendo frequentemente questo piccolo esercizio, anche per strada, soli o tra la folla, ci si trova nella condizione di capire il 60 o il 65% delle opere d’arte contemporanee. Nella maggior parte dei cervelli moderni, questo programma è generalmente prestabilito, e non è pertanto necessario ripetere l’esercizio “17.

  Questa invasione del readymade può essere denunciata come il regno del non importa cosa nell’arte, il trionfo della soperchieria e dell’arte a buon mercato: chiunque si può mettere a fare altrettanto. E’ probabilmente vero se, secondo l’espressione appena citata, “il programma è prestabilito”. Non era certo il caso delle macchinazioni di Duchamp, la cui intera vita è girata intorno all’invenzione delle procedure di artialisation. Queste considerazioni intorno al qualsiasi cosa sono pertanto aneddotiche perché esse si scontrano con un altro rovesciamento altrimenti più temibile. La possibilità che tutto il non importa cosa sia arte è anche precisamente la possibilità del trionfo dell’estetico. Se tutto può essere arte a condizione che si seguano procedure di artialisation che sono, in fin dei conti, convenzionali, allora tutto può essere visto esteticamente e l’arte può scivolare liberamente al di fuori del mondo dell’arte la cui difesa ansiosa e ossessiva è tanto indispensabile quanto platonica e votata all’insuccesso. Se i readymade sono dappertutto, basta guardarli ovunque dove sono. Il mondo dell’arte non è più limitato a quello che è convenzionalmente riconosciuto come tale: esso può sciamare dappertutto. Si può anche inventare una difesa realista e non più nominalista di questo diventare arte di qualsiasi cosa suonando l’adunata della vecchia e degna teoria dell’atteggiamento estetico sorpassando le procedure duchampiane di atteggiamento o di intenzionalità che finalmente contano molto di più delle procedure stesse. Basta uno “sguardo artista” perché qualsiasi cosa si estetizzi.

  Di fatto dunque, la popolarizzazione e volgarizzazione del readymade, ciò che si potrebbe chiamare la sua democratizzazione - dei readymade per tutti e dappertutto - sono responsabili della sparizione del mondo dell’arte per travaso o vaporizzazione della sua sostanza. L’invenzione del readymade aveva desostanzializzato l’arte rendendola procedurale. La generalizzazione di questa natura procedurale la trasforma in vapore o in gas che si diffonde dappertutto. Il mondo è invaso da una atmosfera estetica. Simultaneamente, il mondo dell’arte ritualizzata, sacralizzata, aggrappata alla sua preziosa rarità teatralizzata, si svuota poco a poco non soltanto di opere ma anche di partecipanti. Solo alcuni iniziati ostinati, fanatici o completamente conservatori se non francamente reazionari si ostinano a perpetuare il rito. Fuori, gioiosamente e incoscientemente, tutti sono artisti e sono immersi nell’arte. Ciò che è effettivamente folle è che il mondo è ora diventato totalmente bello. Tale è effettivamente il trionfo dell’estetico. I critici nostalgici dell’arte contemporanea si ingannano dunque due volte: l’arte, che rimpiangono tanto, è già dappertutto senza che bizzarramente se ne siano accorti e, secondo, questo mondo dell’arte contemporanea che tanto vituperano già non esiste più - senza che nemmeno di ciò si siano accorti. Molto più perspicaci sono i giovani eleganti che vanno a bere acque di prestigio nel sottosuolo di chez Colette prima di andare ad assistere a una soirée cuir fétichiste di Poupée mécanique.

  In questa descrizione del mondo dell’arte contemporanea, non si è detto niente delle istituzioni che lo generano. E’ perfettamente volontario.

  Trattandosi di istituzioni come i centri d’arte, le biennali, le riviste d’arte, le associazioni di artisti che si incaricano delle esposizioni dei loro membri, il loro funzionamento si integra all’insieme delle procedure che contribuiscono a definire l’arte contemporanea, a farla vivere ma anche a isolarla e a proteggerla contro i principi di dissoluzione che sono impliciti nella sua definizione procedurale. In questo senso, queste istituzioni, per importanti che siano, non giocano un ruolo diverso da quello degli altri attori del mondo dell’arte: compratori, galleristi, critici, periti estimatori. Si potrebbe spingere il paradosso fino a sostenere che certi attori invisibili o assenti sono altrettanto importanti e anche di più di quelli che sono visibili e statutariamente definiti. Così sarebbe di “colui che non c’è”, questo “spettatore assente”, questo “osservatore invisibile”, colui che non venendo fa la disperazione del mediatore culturale incaricato della democratizzazione della Grande Arte. Egli è infatti ugualmente anche più prezioso per questa Grande Arte del perito o del critico in quanto contribuisce al mantenimento dell’illusione e del carattere confidenziale ed iniziatico dell’arte contemporanea. Una galleria non può conoscere l’affluenza che la sera dell’inaugurazione, nel momento della celebrazione rituale che ripete e rinnova come una messa la solidarietà della tribù. Fuori da queste poche ore, l’affluenza la farebbe confondere con un posto alla moda, con un minimarket o con una lavanderia automatica.

  Se per converso, nel termine di istituzioni, si pensa all’aiuto statale rumoroso ma in fondo quantitativamente modesto che, in Francia serve da stampella a un’arte contemporanea anemica, non vale la pena di soffermarcisi troppo. Si tratta infatti di una particolarità francese, una forma tra le altre della eccezione culturale nazionale, che la dice più lunga sull’organizzazione dello Stato e sulla domanda di Stato in Francia che sull’arte contemporanea.

  L’arte contemporanea conosce in Francia, come d’altra parte dappertutto, la stessa economia del readymade democratizzato e banalizzato e lo stesso processo di passaggio dell’arte allo stato gassoso, - con anzitutto, è il caso di dirlo, la decorazione del marchio di Stato e a volte della decorazione tout court. Questo marchio di Stato (“riconosciuto dallo Stato”, “commissionato dallo Stato”, “acquistato dallo Stato”, “mostrato dallo Stato”) è a volte molto ricercato dal mondo dell’arte (e non soltanto per ragioni finanziarie, piuttosto per ragioni di vanità e di riconoscimento ufficiale) e generosamente elargito da istituzioni che non sanno come giustificare la loro esistenza. A nome della democratizzazione della cultura, esse dispensano dunque rispettabilità a certi rappresentanti dell’arte contemporanea. Cosa che assoggetta tutti gli attori a un double binde pericoloso. Se procedessero fino alla fine della loro missione, queste istituzioni porterebbero a compimento il processo di volatilizzazione dell’arte: i readymade sarebbero veramente per tutti e l’avanguardia di oggi invaderebbe le capanne. Fallendo, esse contribuiscono in modo addirittura positivo alla ghettizzazione di un’arte che così si protegge e sopravvive. Che il centro d’arte sia senza visitatori è l’ultimo modo di affermare il suo carattere sacro e iniziatico: ciò merita proprio una sovvenzione.

  Di tutto ciò, esiste una illustrazione esemplare, meravigliosa, incantatrice: il nuovo sito dell’arte del Palazzo di Tokyo.

  Costruito in occasione dell’esposizione universale del 1937, avendo ospitato il museo d’Arte moderna prima che questo venisse traslocato al Centro Georges Pompidou, questo luogo ha conosciuto dalla fine degli anni 1870 destinazioni varie e incerte. Si decise, alcuni anni fa, di farne un centro di arte contemporanea. E’ vero che i luoghi consacrati all’arte a Parigi erano o templi della grande Arte Classica come il Louvre o Orsay, oppure templi dell’arte moderna come il Museo d’arte moderna al Centro Geoges Pompidou, il museo d’arte moderna della città di Parigi o la Galleria Nazionale di Jeu de Paume. Si riconoscerà di sfuggita in tutte queste denominazioni la presenza poco discreta del sigillo ufficiale “nazionale”. Per dirigere questo nuovo istituto, furono scelti due giovani attori del mondo dell’arte contemporanea che avevano il merito di non appartenere al mondo dei funzionari della creazione. Il primo è il critico free lance organizzatore di esposizioni in Francia e all’estero che si potrebbe definire come un go-between dinamico dell’arte, poco interessato alle questioni teoriche. Il secondo, professionista della pubblicità, anche lui critico free lance, manifesta un certo piacere per la teorizzazione e ha sviluppato sotto il nome di estetica relazionale una filosofia dell’arte contemporanea come esperienza della relazione sociale18. Questa filosofia, che è di fatto, per parlare come Marx, l’ideologia di una pratica comunicativa e relazionale, è essa stessa fatta, per l’essenziale, del collage e del riciclaggio, per non dire del pout-pourri, dei filosofi alla moda venticinque anni fa, alla fine del XX° secolo intellettuale. In questo senso, costituisce la trasposizione “teorica” di una pratica del comunicare eclettico, a mezza strada tra il concetto pubblicitario e il concetto tout court.

  L’intervento architettonico considerato dal progetto è consistito semplicemente nel rimettere a posto l’edificio sistemando la sicurezza  e portando gli scorrimenti nei locali. In altre parole, si è svestito l’edificio di tutto ciò che costituiva il suo arredo precedente portandolo allo stato di una specie di capannone industriale sconsacrato ormai reso polivalente. Un poco come se si costruisse ex-novo un capannone nel mezzo di un quartiere residenziale e di ambasciate. Siamo abituati dopo l’architettura postmoderna degli anni 1970 al kitsch ornamentale e al pastiche del passato rivisitato. Qui il pastiche è “sul serio”, ma all’interno: scavando l’architettura grezza, si è arrivati a costruire qualcosa come uno stile industriale abbandonato nuovo.

  Non è in se stesso condannabile. Si può infatti sostenere che l’arte di innovazione non può essere accolta in locali a programmazione rigida, neppure forse in locali a uso programmato tout court. Certi storici dell’architettura hanno stabilito che molte scoperte e innovazioni furono realizzate in edifici provvisori, abbandonati o condannati alla distruzione. Da questo punto di vista la disposizione degli spazi nel Palazzo di Tokyo è perfettamente funzionale: si trovano solo spazi vasti e percorsi senza particolare destinazione e gli stessi muri, che sono nello stato della rimessa a nudo durante i lavori, non sono per nulla destinati ad appendere arte. La politica di questo nuovo centro è fatta di esposizioni rapide e simultanee, di concerti di musica techno, di dibattiti e di interventi-performances. La cosa più interessante è che le manifestazioni che si svolgono in questi spazi non differenziati, sono molto difficili da identificare come arte, e ancora di più come oggetti d’arte.

  Non si possono riconoscere dei graffiti su un muro “in corso d’opera” da una pittura grezza o da manifesti pitturati maldestramente incollati. Non si possono distinguere i materiali di un’installazione “povera” dalle macerie del “rinnovamento”. Non si può distinguere il materiale elettronico di un concerto in preparazione dai depositi di materiali degli elettricisti incaricati dell’arrivo dei fluidi. Solo la stessa performance segnala un’attività, anche se l’assembramento di individui attorno a uno scopo poco definito o poco decifrabile non differisce molto dall’assembramento momentaneo di individui che si assembrano intorno a un assembramento. Nei tre giorni dall’apertura-inaugurazione, folle di gente di tutte le età percorsero con curiosità e un piacere bonario i luoghi in un’atmosfera distesa cercando senza grande successo cosa c’era da vedere in una tale indeterminazione. L’atmosfera distesa era dovuta, sembra, all’assenza di angoscia di fronte a proposte che non incutevano alcuna riverenza particolare allo spettatore e a volte erano così poco identificabili da non essere neppure più delle proposte. Niente dunque dell’atmosfera un poco ansiogena del centro d’arte moderna-contemporanea, dove gli oggetti sembrano tendere una trappola o presentare un enigma a spettatori intimiditi o inquieti d’avere eventualmente un’aria stupida di fronte ad essi. Gli stessi uomini politici, particolarmente timorosi in tali circostanze, per paura di non sapere che aria avere di fronte a un readymade particolarmente assurdo, potevano deambulare in modo pressappoco disteso in questo spazio: si poteva circolare perché non c’era niente da vedere. La cosa che più colpiva era indiscutibilmente il carattere felice o perlomeno placido del pubblico in questa situazione: a prima vista, l’estetica era relazionale. A dire il vero, si aveva la sensazione che ciò che era proposto era l’esperienza pura di una relazione estetica, l’esperienza di uno stato di distensione senza obiettivo e “disinteressata”. Se secondo la definizione trita di Kant, il bello è “ciò che piace universalmente senza concetto”, qui si era serviti in bellezza. Essa era effettivamente dappertutto, ma allo stato diffuso e gassoso, allo stato di vapore o di bolle che si depositano su tutti i visitatori.

  Una simile situazione mi sembrava esemplare di tutto ciò che viene descritto nelle pagine precedenti: tutto era readymade in questo luogo, dove i readymade sono effettivamente accessibili a tutti. Gli oggetti, per non parlare di opere d’arte, non esistono più oppure sono là solo per provocare un’esperienza che, in se stessa, nella sua indefinitezza, indeterminatezza e nella sua accessibilità, è fondamentalmente estetica: si sente e si comunica - cosa è un’altra faccenda, e forse non è neppure il problema.

  Ci sono state molto poche critiche a questo spazio: a che cosa si sarebbero potute riferire? Alcuni artisti si stupirono che ci si mettesse a costruisse un capannone industriale ex nihilo in pieno XVI° arrondissement residenziale snob, con entrata a pagamento, quando i resti del mondo industriale naufragato non mancano nelle periferie intorno a Parigi. Questi critici non avevano capito niente dell’arte contemporanea. Un capannone nella periferia anche se con qualche artista ghettizzato, è la realtà della vita e ciò non ha alcun interesse. Qui si tratta di altro: di un capannone esemplare indicato come luogo dell’arte per l’incongruità della sua situazione e per la contraddizione fra un aspetto architettonico esteriore ordinario e spazi interni smontati. Tutto il problema dell’arte contemporanea è che solo queste frontiere “oltremodo sottili” come avrebbe detto Marcel Duchamp, conservano ancora il suo territorio e gli assicurano una definizione, anche se straordinariamente precaria.

  Fra le opere di Duchamp c’è un’ampolla sigillata contenente...l’aria di Parigi. Si chiama evidentemente Aria di Parigi (1919) ed è stata oggetto di molte copie e imitazioni, perfino nella forma di opere come una celebre scatola di “merda d’artista” degli anni 1960. Nella versione francese burocratica, per essere appunto arte, quest’ampolla dovrebbe essere normalmente accompagnata da un sigillo ufficiale. Solo che l’ampolla si è rotta, e l’aria se n’è andata, e non resta più che il sigillo... Al Palazzo di Tokyo, si è cercato di rimettere l’aria di Parigi in resti di ampolla a misura di un centro d’arte contemporanea. E si è fatta evidentemente questa eroica azione con il sigillo dello Stato....

  

  


 1. Malinowsky B., Les argonautes du Pacifique occidental (1922), trad. franc., Paris, Gallimard, 1963, Journal d’un etnographe (journaux des années 1914 à 1918), trad. franc.,Paris, Seuil, 1967.

 2. Mead M., Moeurs et sexualité en Océanie (1928-1935), trad. franc., Paris, Plon, 1963. Voir le livre de Derek Freeman, The Fateful Hoaxing of Margaret Mead, A Historical Analysis of her Samoan Research, Boulder, Westview Press, 1999 (Comment Margaret Mead s’est laissée raconter des histoires par les informatrices qu’elle même avait trompées...)

 3. Reza Y., Art, Arles, Actes Sud, 1994

 4. Domecq J. P.., Misére de l’art, essais sur le demi-siècle de création, Pris, Calmnn-levy, 1999

 5. Dans  ses chroniques de l’hebdomadaire Telerama

 6. DelhommeJ. P., Art contemporain, Pris, Denoël, 2001; Le drame de la déco, Pris, Denoël, 2000

 7. Ardenn P., L’art dans son moment politique, Bruxelles, La lettre volée, 2000

 8. Quemin A., L’art contemporain international: entre les institutons et le marché (le rapport disparu), Nimes, editions Jacquelin Chambon, collection Rayon Art, 2002

 9. Moulin R., Le marché de l’art, Paris, Flammarion, collection Dominos, 2001

 10. de Kooning W., Ecrits et propos, Paris, éditions de l’ensb-a, collection écrits d’artistes, 1992, pp. 90 sg

 11. Wolf T., Le mot peint (1974), trad. franc., Paris, gallimard, collection les Essais, 1978

 12. O’Doherty B., (Ireland P.), Inside the White Cube: the Ideology of the  Gallery Space, Santa onica, Lapis Press, 1986

 13. Dehomme j-P., Art contemporain, ouvr. cit., p. 18

 14. Le Paragon désigne la discussion sur la rivalité et a compétition des arts, en particulier de la peinture et de la sculpture à partir du XVI° siécle.

 15. Poésure et peintrie, catalogue d’exposition, Marseille, editions de la RMN, 1993

 16. Duve Th. De, Résonances du readymade, Nimes, editions Jacqueline Chambon,1989

 17. Delhomme J-P., Art contemporain, ouvr. cit., p. 8

 18, Bourriaud N., Esthétique relationelle, Dijon, Les presses du réel, 1998; Formes de vie, l’art moderne et linvention de soi, Paris, Dënoel, 2999