Procedimenti tradizionalista e modernista

Renato Calligaro

[Pittore e scrittore, grafico, fumettista e vignettista di satira politica. Ha collaborato a vari periodici fra cui Linus, ABC, l'Espresso, Panorama, Reporter, La Repubblica, Il Manifesto, Tango, Cuore, Le Monde. Ha pubblicato, tra gli altri, i libri "Rosso e no", "Cambia, non cambia", "Ridateci il nemico" (Feltrinelli) e "Il meglio di Donna Celeste" (Rizzoli); i poemi illustrati "Montagne", "Henriette/Casanova", "Oltreporto", "Deserto", "Lirica 4", "Zeppelin", "Poema Barocco"; i video "Deserto" e "Le streghe di Germania". Ha collaborato con articoli e saggi, tra gli altri, a Alfabeta, Linus, Grafica e Disegno, Les cahiers de la bande dessinée".]

Non è vero che “é arte ciò che gli uomini chiamano arte”.

Senza le arti la psiche umana rimarrebbe nuda davanti alla propria estinzione. ....In questo senso immensamente significante, le arti sono ancora più indispensabili agli esseri umani della scienza e della tecnologia più eccelse (di cui innumerevoli società hanno fatto a meno per lungo tempo”). (1)

Si intende qui per “procedimento” il modo di produrre dell’Autore, direttamente determinato dalla funzione prima che egli, consciamente o inconsciamente, riconosce alla operazione tradizionalmente definita “arte”: in altre parole dal suo atteggiamento come persona nei suoi confronti.

In verità, durante i circa 40.000 anni di storia della operazione arte, dalle origini fino alla metà dell’800, c’è stato un unico procedimento, quello che qui si definisce procedimento tradizionalista, e che pertanto coincide con il sistema antropologico dell’arte. Solo dalla seconda metà dell’800 si sono inventate procedure differenti, come risposta a una crisi epocale della cultura occidentale, come risposta a interrogativi radicali sul perché e sul come della operazione arte.

Sono nuovi il procedimento modernista, il procedimento avanguardista, e, dal secondo dopoguerra, il procedimento postmodernista.

I procedimenti sono dunque quattro:

1. Il procedimento tradizionalista è quello dell’arte storica da circa 40.000 anni. La funzione prima di questa operazione è quella di donare all’uomo una esperienza esistenziale (che noi oggi chiamiamo della compiutezza, della riuscita artistica dell’opera) che è il soddisfacimento di un suo bisogno fondamentale (referente antropologico), e che è quindi costitutiva dell’homo sapiens sapiens. Il procedimento tradizionalista opera pertanto all’interno del sistema antropologico dell’arte (e coincide di fatto con esso), dove il protagonista della operazione è la riuscita artistica dell’opera. L’Autore è strumento di questa riuscita. Il nuovo è dato solo dalla originalità dell’Autore, ed è quindi, anche se non voluto o cercato, ineluttabile nonostante le resistenze opposte dalle ideologie storiche tradizionaliste.

2. Il procedimento modernista appartiene anch’esso al sistema antropologico dell’arte, in quanto anche qui la funzione prima della operazione è la riuscita artistica dell’opera. Ma qui il nuovo è invece voluto e cercato, e investe, come innovazione del Linguaggio, i differenti modi di formare. Il protagonista della operazione rimane comunque la riuscita artistica dell’opera. Il marchio di questo procedimento è la proposizione di Baudelaire del 1860: “La modernità è il transitorio, il fuggitivo, il contingente, la metà dell’arte, di cui l’altra metà è l’eterno e l’immutabile”.2

3. Il procedimento avanguardista propriamente detto trascina invece l’operazione arte del tutto fuori dalla “immutabilità” e “eternità” del sistema antropologico dell’arte, e invece all’interno della dialettica razionalista e sociologica del progresso. Infatti qui la funzione prima dell’operazione non è più quella di procurare all’uomo l’esperienza esistenziale della artisticità, ma, come strumento privilegiato per la sua emancipazione, quella di indurlo alla rivoluzione estetico/sociale. Il protagonista della operazione non è allora più la riuscita artistica dell’opera, ma la riuscita estetica dell’Autore (società). Nel suo progredire l’arte deve tendere a coincidere con la vita (Autore/società), annullando ogni distanza originaria tra arte e vita. Come strumento della rivoluzione, l’operazione arte deve dunque progredire (e quindi in extremis negarsi, in quanto ogni progresso ha una fine, anche quello della scienza), essere sempre all’”avanguardia” per quel fine (a prescindere dalla qualità artistica dell’opera). Il nuovo diventa un valore per se stesso: il valore di novità subentra al valore di artisticità.

4. L'identificazione, all'interno della Postmodernità, che già per se stessa è difficile da definire, di un procedimento postmodernista dell'arte è possibile, ma solo tenendo presenti le approssimazioni inevitabili nella sistemazione di un fenomeno in corso. Molto sinteticamente, si può dire che esso pretende di conciliare la "dialettica del nuovo" con il consumismo di massa (il "nuovo per il sempreuguale" del mercato). Mentre i procedimenti tradizionalista e modernista pretendono di produrre oggetti artistici (opere d'arte) e il procedimento avanguardista pretende di abolire tali oggetti (in quanto irrimediabilmente oggetti del mercato) in una estetizzazione della società, il procedimento postmodernista recupera la produzione di oggetti, ma non si preoccupa che essi siano artistici, in quanto lo stesso concetto di artisticità è ormai irrilevante. Potrebbero anche essere artistici, ma ciò è ininfluente rispetto alla produzione di oggetti che devono essere anzitutto oggetti estetici testimoniali della esteticità dell'autore, diffusi nella società proprio attraverso il mercato, inteso ora come mezzo privilegiato della comunicazione di esteticità.

 

1. Il procedimento tradizionalista

Il procedimento tradizionalista non è dunque altro che il modo unico in cui il sistema antropologico dell’arte si è oggettivato nella storia (unico fino quasi alla fine dell’800). Per cui, prima di passare ad analizzare le caratteristiche che lo differenziano dal procedimento modernista, è opportuno riassumere cosa si intenda qui per arte come qualità di artisticità dell’opera (arte del sistema antropologico, in opposizione all’arte come istituzione), tema svolto nel primo numero di questa rivista, nel testo “Tempo fermo”.

Da quel testo si possono ricavare sinteticamente, fra altre, alcune proposizioni:

1. L’opera d’arte è sempre una narrazione, non può non essere una narrazione, in quanto è prodotta partendo dalla “intenzione di dire” qualcosa, un significato, da parte dell’Autore (anche l’antico concetto di mimesis si risolve in quello di narrazione).

2. Ogni narrazione qualsiasi (nei linguaggi specifici fin’ora usati dall’uomo: parola detta e cantata, il mimo, la musica, la danza, la pittura, la scultura, l’architettura, la letteratura, il teatro, il cinema, il fumetto, gli ibridi contemporanei, ecc.), se l’Autore pretende di farne un’opera d’arte, deve essere sottoposta a un processo di formazione, che, se è riuscito, la fa diventare una narrazione opera d’arte.

3. L’opera d’arte è una narrazione dove il significato coincide con la forma = il significato è la forma (definizione strutturale).

4. L’opera d’arte è “tempo fermo”: se nella psiche il significato è sentito come tempo (che va), e la forma è sentita come spazio/eternità (che sta), la riuscita artistica è tempo = spazio/eternità: tempo fermo (definizione psicologica).

5. L’opera d’arte concilia dunque nel pensiero simbolico, come simbolo sintetico produttivo, la contraddizione inconciliabile nel pensiero razionale fra il tempo (che va) e il suo contrario eternità (che sta) (definizione antropologica).

6. L’artistico appartiene al pensiero simbolico, e non al pensiero razionale, e pertanto non si può spiegare. Se si potesse spiegare, apparterrebbe al pensiero razionale, e allora non esisterebbe, essendo stato inventato appunto per produrre una esperienza che la ragione non può produrre.

7. Un Autore è artista solo quando riesce a creare un suo stile, che è il suo personale, unico, irripetibile, inconfondibile, modo di formare: il “suo mondo”.

8. Un’opera è opera d’arte solo quando, in quello stile, è artisticamente riuscita.

9. L’esperienza esistenziale della artisticità dell’opera non è contemplazione passiva, con perdita della personalità da parte del soggetto fruitore (Schopenhauer), ma contemplazione attiva (che esalta l’identità del soggetto): cioè e-stasi attiva (greco: ek-sistemi): stare fuori di sé nell’artisticità dell’opera. La fruizione dell’opera é composita (R. Ingarden) in quanto dopo l’”estasi” (in cui il soggetto accoglie in sé l’oggetto) c’é l’interpretazione (in cui il soggetto è co-produttore dell’oggetto).

10. Il bisogno della forma “bella” e il bisogno della forma “artistica” (che sono due cose diverse) sono bisogni inconsci, innati e universali, che diventano operativi quando diventano consci. In questa coscienza l’uomo cerca e produce il “bello” e l’“artistico”.

11. Tutti possono imparare a fare l’esperienza estatica dell’artisticità (e questo riconoscimento della artisticità dell’opera avviene anche fra differenti culture e differenti epoche), ma solo se o quando il bisogno di forma artistica è conscio.

12. L’arte non ha progresso, è sempre “contemporanea” per l’interlocutore, anche se appartiene a epoche e culture differenti: infatti la sua funzione genetica prima è produrre (comunicare) una emozione (“estasi”), che è sempre la stessa e non progredisce, anche se progrediscono le tecniche per produrla. Invece la funzione genetica prima della scienza moderna è produrre (comunicare) una conoscenza (che progredisce). L’opera d’arte ha valore in quanto costitutivamente conchiusa (unica e compiuta per se stessa) nel pensiero simbolico; l’opera scientifica ha valore in quanto costitutivamente non-conchiusa, ma invece “aperta”, progressiva (e progredisce in altre opere successive) nel pensiero razionale. Giotto non è meglio (più progredito) di Prassitele in quanto più “nuovo” in un progresso nel tempo dell’arte, mentre Einstein è meglio (più progredito) di Newton in quanto più “nuovo” nel progresso nel tempo della scienza moderna.3

13. L’estetizzazione della vita (esteticità diffusa) è una operazione differente dalla operazione arte. E’ pertanto scorretto comprenderla nel concetto di arte e definirla con la parola “arte”, solo perché conserva (ancora per poco) un carisma che permette di sfruttarla per scopi di lucro, potere, successo, politica ecc.

14. L’arte è anche una risposta al bisogno di identità. La creazione artistica instaura una forte identità per differenza. Il processo di formazione (e conseguente riuscita dell’oggetto artistico) è un processo di differenziazione dell’Autore che instaura una sua forte individuazione (il suo “nuovo”, il suo “originale”) nella differenza dagli altri oggetti artistici. Inoltre l’opera d’arte è un fortissimo Altro che esalta l’ientità dell’inerlocutore.4

15. La “morte dell’arte” non è un problema di cui possa occuparsi la metafisica filosofica. La “morte dell’arte” concerne l’antropologia, implica una mutazione dell’homo sapiens sapiens in un altro ominide. Se la mutazione antropologica in atto, determinata dalla Tecnica, muterà il rapporto dell’uomo con la morte, il bisogno della esperienza dell’arte (inventata per conciliare come simbolo sintetico, come “tempo fermo”, la contraddizione vita/morte) verrà meno e l’artisticità si dissolverà definitivamente nella esteticità diffusa.

Parlando del sistema antropologico dell’arte, il problema primo che ci si pone non è quello di come si crea un’opera d’arte, di quando un’opera sia un’opera d’arte, e anche quindi se un’opera sia un’opera d’arte in una cultura e non lo sia in un’altra (relativismo culturale). Il problema primo è capire perché l’umanità ha bisogno della esperienza esistenziale della qualità di artisticità, e quindi di produrre opere d’arte. Che una persona senta l’artisticità di un’opera, e un’altra persona non la senta, e la senta invece in un’altra opera, è un problema enorme, ma secondo, che può essere risolto (e deve essere risolto, pena la scomparsa stessa della operazione arte) solo dopo aver risolto il primo. Che è assolutamente antropologico e psicologico, e non storico o filosofico.

Bisogna anzitutto cercare di capire cosa sia l’esperienza della artisticità che gli uomini (coloro che ne hanno bisogno) perseguono. E dunque perché sia stata inventata l’operazione arte che quella esperienza provoca (e il cui bisogno soddisfa).

1. 1. Il bello. La forma. La cura della forma.

O Beauté monstre énorme, effrayant, ingènu... (Baudelaire)

Tutti gli uomini usano la categoria bello/brutto. Vuol dire che tutti gli uomini hanno bisogno della esperienza esistenziale del bello. Si tratterà poi di sapere se tutti gli uomini hanno anche bisogno della esperienza esistenziale dell’artistico, essendo l’artistico altra cosa dal bello (dice Herbert Reed che “l’identificazione di arte e bello sta alla radice di tutte le nostre difficoltà nella valutazione della prima: questo non si ripeterà mai troppo spesso, né troppo forte”).

L’uomo usa indifferentemente la parola “bello” nel linguaggio comune per l’esperienza di tre oggetti differenti: l’oggetto naturale (un bel tramonto, una bella donna, un bel paesaggio); l’oggetto artificiale artigianale (un bel vaso); l’oggetto artificiale artistico (un bel quadro, una bella sinfonia).

Gli oggetti vengono definiti belli quando hanno una forma bella. La percezione della forma bella, a prescindere da altre funzioni che possa avere la forma, è bisogno e prerogativa dell’homo sapiens sapiens (che è la definizione dell’ultima presente fase dello sviluppo della coscienza dell’Io).

L’uomo ha dunque un bisogno fondamentale, costitutivo della forma bella: per semplificare, ha bisogno di forma. Questo bisogno può essere conscio, o solo inconscio. Quando il bisogno è conscio, egli si trova nel situazione esistenziale di bisogno di forma, di predisposizione alla forma, e quindi di consapevole ricerca della forma: egli è allora interlocutore della forma.

Il bisogno di forma ha origini nel mondo animale. Gli animali sono sensibili a certe organizzazioni formali (ottiche, olfattive, tattili, mobili, acustiche) che funzionano come segnali. Sono state definite da K. Lorenz “dispositivi di scatto”, in quanto determinano movimenti automatici di risposta, istintivi e innati. Così, per esempio, certi movimenti ritmici e certe molto regolari organizzazioni di colori forti, sono dispositivi di scatto ottici. La loro proprietà generale è l’improbabilità”: in una natura che si presenta all’occhio molto irregolare, la loro regolarità è visibile appunto perché improbabile. Se la natura fosse tutta più regolare, la quantità di informazione del segnale svanirebbe.

La regolarità dei dispositivi di scatto è affine a quella degli archetipi fomali4a della psiche umana, e annuncia la sensazione estetica del bello nell’uomo (dal bello della simmetria, proporzione e ordine di Aristotile fino al bello decorativo (senza narrazione) dell’artigianato).

Nell’uomo, che è povero di istinti (“carenza istintuale”, A. Gehlen) ma ricco di prestazioni intellettuali, il dispositivo di risposta automatica al segnale è venuto meno, per cui fra il bisogno indotto dal segnale e il suo adempimento si è aperto uno spazio (uno “iato”) disponibile all’intelletto per un uso differente, non più automatico, del segnale. E’ in questo “deficit di adempimento” (il piacere dell’adempimento è differito) che si fissano le pulsioni umane, che sono altra cosa dagli istinti animali.

In questa sospensione del piacere, il segnale sessuale (per esempio) “labbra dipinte” diventa ora solo un riferimento al piacere sessuale, che viene differito. Queste “labbra dipinte” piacciono a X, perché si riferiscono al piacere sessuale. Per questo le dice “belle”. Questo bello è qui un attributo che X conferisce loro: sono belle perché gli piacciono (sessualmente), le desidera.

Non sono ancora un “bello come contemplazione”, sono ancora un “bello” come desiderio.

E qui si apre, non risolta, la questione del paesaggio dal “è bello perché mi piace” (bello come attributo che si conferisce all’oggetto) al “mi piace perché è bello” (bello come proprietà nell’oggetto naturale e come qualità nell’oggetto artificiale, artigianale e artistico).

Come può il bello soggettivo e relativo (“per me è bello perché mi piace”, invece “per me non è bello perché non mi piace”) diventare un bello oggettivo (che deve per forza piacere a tutti perché oggettivamente bello)?

Si può supporre che è nel “deficit di adempimento” che quelle labbra, perdendo la prerogativa di segnale sessuale, diventano belle per se stesse, da contemplare. Ma, a questo punto, perché (e quando) dovrebbero essere considerate belle, e non magari brutte? Infatti alcune labbra sono considerate belle, e altre brutte, ma in base a quale criterio? Cosa fa “bello” un oggetto, quando non è più un oggetto del desiderio (sessuale)? Anzi, quando ridiventa oggetto del desiderio (ma estetico), appunto perché è bello?

C’è in questo passaggio certamente uno scatto nella evoluzione della coscienza dell’Io, che inventa le categorie di “bello e brutto”. Certamente, per rientrare in queste categorie, l’oggetto deve possedere ora sue intrinseche caratteristiche “disinteressate di bellezza”, e non caratteristiche di interesse estrinseco (desiderio sessuale e altro). Già i dispositivi di scatto hanno caratteristiche intrinseche, secondo archetipi formali (simmetria, ordine, iterazione, ritmo, ecc.), e questi archetipi formali incidono senz’altro sull’essere oggettivamente bello dell’oggetto, anche se non esauriscono certo la sua bellezza.

Ma a questo punto bisogna fare una distinzione fra gli oggetti: quelli naturali e quelli artificiali. I dispositivi di scatto sono oggetti naturali. Gli oggetti dell’artigianato e dell’arte sono oggetti artificiali. Negli oggetti artificiali gli archetipi formali della psiche hanno una grande importanza, di più in quelli artigianali (senza narrazione), meno in quelli artistici (con narrazione) (vedi capitolo 1. 2.). Ma le difficoltà si presentano già negli oggetti naturali. Forse un “bel tramonto” o “il fuoco, sempre bello da guardare” obbediscono ad archetipi formali? E che dire della “bellezza” di quell’oggetto naturale (naturale anche se visto in video) che è l’impatto degli aerei e il crollo delle Twin Towers?4a

E’ difficile questo discorso sul bello, ma non si può eluderlo. Tanto più oggi, quando la Tecnica interferisce ormai con tanta rapidità sul processo della crisi dell’Umanesimo, da interromperne bruscamente ogni possibilità di riflessione autocritica, incalzata dalla mutazione antropologica in atto. C’è infatti chi vede in questa mutazione un ripresentarsi del bello come desiderio. Nell’epoca della comunicazione digitale e dei new media, si ipotizza la bellezza “come energia espressiva capace di sottrarsi elusivamente ai poteri e alle istituzioni della scrittura e di radicarsi profondamente nella corporeità illetterata e desiderante dei consumatori dei media. Da quando esiste la tradizione del pensiero estetico, la bellezza, come l’essere aristotelico, si dice ed è stata detta in infiniti modi. I media, in particolare i nuovi media, non fanno altro che dare corpo a una qualità della bellezza che, sia pure in forma sotterranea, gli uomini hanno da sempre somaticamente percepito e vissuto, ovvero la sua originaria tangenza con gli abissi inauditi del desiderio”.4b “Forse nelle forme rassicuranti e asettiche della bellezza tradizionale si sono inesorabilmente sviluppati gli embrioni di una nuova civiltà, di un nuovo modo che i soggetti hanno maturato di intrattenersi con gli oggetti e con gli altri soggetti”. 4c Il pensiero di Abruzzese “è nella convinzione che nei fluidi ed espansivi territori sociali determinati dall’incessante innovazione tecnologica del sistema della comunicazione si coaguli un insieme di pulsioni individuali e collettive del tutto spontanee e imprevedibili, nonché storicamente del tutto inedite perché finalmente non più contaminate dalle culture e dalle ideologie dell’Occidente; insomma, un campo di energie allo stato puro- che sbrigativamente mi permetto di sintetizzare simbolicamente nella figura archetipa del “nuovo barbaro analfabeta”-, che per ora si offre come naturale terreno di sfruttamento alla destra berlusconiana, ma su cui una politica realmente capace di usare tutte le potenzialità del linguaggio cibernetico può far leva per attuare non so quale rivoluzione della moltitudine dei consumatori desideranti”. 4d

Si tratta insomma di un ritorno al “è bello perché mi piace”, alla identificazione del “bello” con il desiderio. La categoria bello/brutto disinteressata, sarebbe in fondo una imposizione culturale, una prigione. Il punto cruciale del passaggio evolutivo dal “è bello perché mi piace” al “mi piace perché è bello” non viene risolto, capito, ma eluso e superato dalla mutazione antropologica incombente, che ne cancella la stessa esistenza. Eppure quel passaggio sembra essere un gradino irrinunciabile nel processo di evoluzione della coscienza dell’Io. Si tratta allora certamente di una involuzione, di una regressione, di un’altra perdita di “sapere”4e: senza il quale sapere l’arte non sarebbe neppure esistita. Anche da queste brevi considerazioni, che sfiorano appena il grande argomento attuale della “cultura cibernetica”, emerge la profonda contraddizione fra Tecnica e arte (vedi cap. 2. 4).

Ma ritorniamo al passaggio dal “è bello perché mi piace” al “mi piace perché è bello”. Ci stiamo occupando di come un oggetto perde ogni riferimento al desiderio e la sua forma viene apprezzata per se stessa secondo le categorie “bello/brutto” (e da qui, infine, secondo le categorie “artistico/non artistico”). E di come dunque a quel desiderio subentra tutt’altro desiderio, quello della contemplazione della sua forma.

Ora, se questo avviene, è perché l’uomo ha bisogno di sentire la bellezza della forma: ha, sinteticamente, bisogno di forma. E questo bisogno di forma (bella) è disinteressata, non ha più niente a che vedere col bello come desiderio (=è bello perché mi piace, lo desidero”). Questo bisogno di forma non solo produce oggetti la cui funzione prima è quella di esibire la propria forma, ma fa anche riconoscere negli oggetti naturali prerogative per cui sono oggettivamente belli. E non importa se per alcuni sono belli, e per altri meno, o per niente, secondo il gusto. Ciò che conta è l’esistenza comunque del bisogno, universale, antropologico, della contemplazione di una forma oggettivamente bella: l’universale antropologico bisogno di forma.

Allora la domanda più pertinente è: perché l’uomo ha un così forte bisogno di forma (visiva, sonora, testuale, olfattiva, tattile ecc.)?

Perché sente che la forma bella è immodificabile. E’ perfetta così com’è (se si modifica, si perde la sua perfezione, la sua bellezza). E questa sensazione è ineffabile e desta meraviglia. E anche sicurezza. E’ la Grande Madre.

L’uomo inventa il bello, la bellezza, come sfida alla morte. Alla angoscia del divenire.

Infatti ciò che modifica le cose è il tempo.

Se il tempo modifica la forma bella, la sua bellezza si perde.

La forma bella è bella in quanto si sottrae al tempo.

La psiche sente il bello fuori dal tempo.

La psiche sente il bello come “eternità”.

Essere in presenza del bello è un’estasi (dal greco ek-sistemi, essere, stare fuori di sé): è stare fuori di sé in una bella forma. Cioè nella eternità.5 Assolutamente uno stare: non un mutare (essere modificati) nel tempo.

Se sentire il bello è dunque un bisogno fondamentale costitutivo dell’uomo, anche produrre il bello, per poterlo sentire, in un oggetto artificiale (artigianale e artistico) è un suo bisogno fondamentale costitutivo.6

Così nel produrre certi oggetti, l’uomo rincorre la forma bella: che in questo caso si chiama forma riuscita, risultato di un processo di formazione riuscito. Egli ha un tale bisogno della forma riuscita (nel linguaggio comune: “bella”, “ben fatta”) da interferire nella forma funzionale, d’uso degli oggetti, addirittura a volte deformandoli fino a vanificare la loro normale funzione, per conferire loro la funzione, che genericamente si dice estetica, di esibire la propria forma.

Quando l’uomo produce l’oggetto, può cercare di ottenere una forma “ben fatta”, nel senso di funzionale al buon funzionamento dell’oggetto. Oppure può cercare di ottenere, con la cura della forma, una “forma bella”, che può anche contrastare il buon funzionamento dell’oggetto8

Ma allora appunto l’oggetto cambia funzione, che ora è quella di anzitutto esibire la propria forma.

Allora il bello è ora una qualità, esibita nell’artigianato e nell’arte, risultato di un processo di formazione riuscito, opera dell’uomo.

E la parola chiave di questo processo è: eternità.

La contraddizione prima costitutiva dell’homo sapiens sapiens è quella di vivere sapendo di dover morire, per cui il superamento di questa contraddizione è stato da sempre la sua principale preoccupazione, sia nel pensiero razionale (filosofia, scienza), sia nel pensiero simbolico (religione, artigianato, arte).

La cura di una forma bella (“riuscita” nell’artigianato e nell’arte) è l’artificio per eccellenza del pensiero simbolico profano, non sacro, contro questa “angoscia del divenire”, per far sentire l’uomo partecipe della eternità. 7

Partendo dalla potenza della forma nei dispositivi di scatto degli animali, l’uomo ha trasferito così questa intensità emotiva della forma nella dimensione del tempo, come spazio anti-tempo.

Nella dimensione euclidea della psiche la forma viene dunque sentita come spazio “che sta”, che è fermo perché è dappertutto, è pervasivo, infinito; e quindi immobile, e quindi immodificabile, e quindi perfezione, e quindi eternità. “Sta” in opposizione al tempo che “va”, che è continuo inesorabile mutamento e divenire.

Produrre un oggetto con cura della forma vuol dunque dire cercare di “eternizzare” l’oggetto.

Fra innumerevoli tipi di oggetti, con differenti funzioni, l'uomo ha prodotto oggetti artigianali e artistici, la cui funzione prima è quella di esibire la propria forma, per cui sono stati prodotti con cura della forma (ciò non succede per altri oggetti prodotti dall'uomo, che hanno anzitutto altre funzioni, pur ovviamente avendo una qualche forma). Negli oggetti artigianali e artistici, la funzione prima per cui sono stati prodotti è assolta anzitutto dalla forma.

Ci sono altri oggetti prodotti con una certa cura della forma, ma la cui funzione genetica prima non è esibire la propria forma, in quanto in essi il significato (il contenuto) si impone comunque sulla forma. Sono gli oggetti estetici e estetici testimoniali.9

Dunque la funzione prima di un oggetto artigianale o artistico è quella di esibire la riuscita delle rispettive forme artigianale o artistica. Un oggetto si riconosce come oggetto che pretende di essere riuscito, quando mostra con tutta evidenza la cura della forma con cui è stato prodotto.

Colui che in presenza di un oggetto è nella situazione esistenziale di bisogno di forma, percepisce immediatamente se l’oggetto preso in considerazione è stato prodotto con la cura della forma. Allora egli si fa immediatamente “interlocutore” della forma dell’oggetto, e può imparare a riconoscere la riuscita della forma (o la sua non riuscita), sia come oggetto artigianale che come oggetto artistico. Infatti, percepita la cura della forma, colui che ha bisogno di forma si pone automaticamente dal punto di vista dell’Autore (che, con lo stesso bisogno di forma, ha formato l’oggetto). Egli si rende conto che la cura della forma (la formazione dell’oggetto) è stata la preoccupazione prima dell’Autore in quell’oggetto: e quindi che la funzione prima dell’oggetto è quella di mostrare all’interlocutore questa forma artigianale o artistica (mentre tutte le altre compresenti possibili funzioni sono secondarie).

E’ della massima importanza questo riuscire a porsi dal punto di vista dell’Autore. E’ in fondo il semplicissimo segreto di una corretta fruizione delle opere.

 

1.2. Artigianato e arte.

Sia l’artigianato che l’arte formano oggetti che inducono alla esperienza della forma riuscita. Ma c’è tra loro una profonda differenza. Descrivere qui, anche se brevemente, questa differenza, serve a meglio definire ancora una volta l’arte storica (del procedimento tradizionalista).

Nell’artigianato l’uomo cerca l’eternità nel mondo. Nell’arte l’uomo cerca l’eternità in se stesso.

Più precisamente, l’opera riuscita artigianale è il risultato di un processo di formazione di qualcosa che è per se stessa, nel mondo, fuori dall’uomo.

L’opera riuscita artistica è il risultato di un processo di formazione di qualcosa che l’uomo dice, è sua espressione; che è dentro l’uomo, fa parte dell’uomo (un suo esprimersi, dire qualcosa, narrare): più propriamente una immagine mentale (una narrazione, una significazione).

Allora, nell’artigianato cercare l’eternità nel mondo vuol dire creare forme belle in un processo di “distillazione di essenze” formali dall’apparente caos della natura. Ci si affida, pur trasgredendoli, agli archetipi formali che affiorano dalle profondità della psiche, dall’inconscio individuale e collettivo, cioè a quelle costanti dove l’uomo ritrova la comunione con l’”eternità” della natura. Che sono l’organicità, l’unità, la compiutezza, la simmetria, l’equilibrio, la proporzione, la sintesi, la ortogonalità, le parallele, il centro, il cerchio, il ritmo, l’iterazione, ecc., ecc. (vedi anche le figure della Gestalt). Questi archetipi formali sono ciò che “sta”: appartengono alla dominante psichica “il femminile” (“il femminile sta, il maschile diviene”). Appartengono alla Grande Madre protettiva, pur nella sua ambiguità di Madre creatrice e distruttrice (distruttrice in quanto essere “divorati dagli archetipi” vuol dire distruggere ogni forma nel virtuosismo nevrotico).

Nell’arte cercare l’eternità in se stesso vuol dire intraprendere un processo di formazione di un’immagine mentale della realtà.

Il processo di formazione di un’opera d’arte parte infatti sempre da una immagine mentale della realtà, realtà che può essere la realtà esterna “vera” quanto un sentimento o una immaginazione, insomma tutto il vissuto. Tutto il vissuto, che è all’origine dell’opera d’arte, è filtrato da una immagine mentale di esso, che si pone all’inizio de processo di formazione (se ne farà un esempio più avanti parlando di Van Gogh).

Conclude queste brevi note sulla differenza fra artigianato e arte un testo pubblicato sul quotidiano “Il Messaggero Veneto” di Udine/8 marzo 2003: “L’artigianato cos’é? Non certo la disciplina che produce a mano, o comunque in modo non industriale e seriale, oggetti d’uso. Se così fosse, un oggetto artigianale “riuscito” sarebbe quello che assolve meglio la sua funzione d’uso. Ma ciò appartiene alla categoria del funzionale, mentre gli oggetti artigianali vengono giudicati secondo la categoria del “bello/brutto”. Occorre allora una definizione più corretta, partendo dalle origini.

Nel neolitico l’uomo inventa oggetti che sono strumenti d’uso, ma non si limita a “formarli” secondo la funzione. Li pretende anche “belli”. Li decora, li deforma, al punto che questa loro nuova forma può addirittura disturbare o far perdere del tutto la loro funzionalità. In altre parole, li produce con una “cura della forma” tale che la loro funzione prima, che era quella di essere strumenti funzionali d’uso, è ora diventata quella di anzitutto esibire la propria forma “bella”. Un vaso può diventare un oggetto bellissimo, e inadeguato alla funzione originale.

Ma questa di esibire la propria forma, non è la funzione prima dell’oggetto artistico? Certamente. E si parla infatti di artigianato artistico. Ma ancora una volta è una definizione impropria, addirittura un ossimoro. Perché l’artigianato, anche inteso ora come produzione di “oggetti inutili e belli”, è tutt’altra cosa dall’arte.

Se affrontiamo la questione da un punto di vista psicologico e antropologico, ci vengono subito incontro le categorie del “maschile” e del “femminile”. Qui i due termini non indicano un carattere sessuale, ma una dominante psichica. ”Maschile” e “femminile” sono simboli di una condizione psichica, stanno in commistione nella psiche di ogni individuo, donna e uomo. E diciamo subito che l’arte appartiene più al “maschile”, e l’artigianato più al “femminile”.

Al di là di ogni gerarchia di valori (questo è meglio di quello), propria degli schemi mentali della cultura patriarcale, si tratta di riconoscere le “differenze”, che spiegano la necessità antropologica (il soddisfacimento di bisogni fondamentali) dei differenti oggetti artigianali, estetici e artistici.

Si sa che all’origine dell’opera d’arte sta sempre un’urgenza umana di “dire” qualcosa, di comunicare un significato. Anche nell’astratta musica, o nella scultura e pittura non rappresentative, si riconosce la narrazione che scorre nelle vene dell’opera. Le opere d’arte sono sempre narrazioni, ma narrazioni prodotte con una “cura della forma” tale per cui la funzione di “dire” si è trasformata anche qui nella funzione di esibire la propria forma. E così in esse il significato coincide con la forma. Ora, poiché nella psiche il significato è sentito come vita, tempo che scorre e va, inesorabile mutamento, “divenire”; e la forma è sentita invece come spazio che sta, che è dappertutto, è pervasivo e infinito, e perciò immobile e fermo e immodificabile, cioè perfezione, “eternità”; ecco allora che la coincidenza nell’opera d’arte di significato e forma fa che il tempo (il significato) sia anche eternità (la forma). Ma questa è una contraddizione inconciliabile nel pensiero razionale, in quanto in esso una cosa (il tempo) non può essere anche il suo contrario (eternità). Ma è appunto quella contraddizione fondamentale che viene conciliata nel pensiero simbolico dal simbolo sintetico che è l’opera d’arte (tempo fermo).

Dunque, fondamentalmente, l’opera d’arte è anzitutto un “dire”: un “grido” di rivolta, di non accettazione della contraddizione fondamentale di vivere per morire, da parte della coscienza dell’Io (“maschile”), ad un certo punto della sua evoluzione. Un “grido” che si placa nella forma riuscita dell’opera, “trova pace nel suo compimento” (Bachtin).

L’opera dell’artigianato invece non “grida”. Si mostra soltanto, perché viene prima del “dire”. Il “femminile” artigiano non è ancora condannato al “dire”. Il “femminile” è l’origine, e si appaga della sua compiutezza, che è la bellezza in sé. Solo nella nostra cultura patriarcale la parola (il Verbo) è l’origine, e per questo in essa la bellezza, la forma non sono una condizione umana, ma solo un ornamento. Invece la forma, nel suo accettarsi così com’è, in quanto spazio infinito, immobile, “eterno”, è condizione del “femminile”, che accoglie e contiene in sé ogni parola detta o da dire: il “femminile” “sa” già.

L’operare artigiano appartiene dunque al “femminile”, nel suo sottrarsi al richiamo potente del “maschile” (parole, narrazione, Mythos, Spirito, padre). L’operare artigiano, ancora incontaminato da ogni necessità di un senso, si compie tutto nella sua libera innocente virginale bellezza.

Il femminile artigiano è l’inconscio che disegna libero le forme, è il corpo che si compiace della proria forma. Non “dice”: si manifesta nella silente pura forma della bellezza. Ed è forse concesso all’uomo qualcosa che “dica” di più del silenzio della bellezza?

Bisogna allora fermarsi, e ritrovare nelle opere artigiane, come in un mirabile specchio, il nostro “femminile”, la coscienza matriarcale: “...se si tien conto delle debolezze e dei pericoli psicologici della cultura patriarcale, la cui forma estrema ha portato nel moderno occidente a una crisi che minaccia l’intera umanità, si potrà evitare l’errore di considerare la `coscienza matriarcale´ solo come una eredità arcaica e il femminile come `relativamente non sviluppato´” (E. Neumann). Fermiamoci dunque a specchiarci, e rientriamo in noi stessi”.

 

1.3  Narrazione, stile, riconoscimento, “tempo fermo”.

Nell’arte l’umanità, nella sua dominante psichica “maschile”, cerca dunque l’eternità in se stessa. “Eternizza” una propria espressione, l’immagine mentale della realtà che dice nell’opera. L’immagine mentale ha un significato, è una narrazione: L’opera d’arte è sempre una narrazione, non può non essere una narrazione.

Questo è fondamentale: l’arte è narrazione di un mondo unico inventato dall’Autore. Sempre. 10

Le narrazioni possono essere: 1. narrazioni qualsiasi, di comunicazione. 2. narrazioni estetizzate, prodotte con una certa cura della forma, ma dove, essendo il significato ancora separato e prevalente sulla forma, si possono avere differenti forme senza che il significato cambi 11. 3. narrazioni artisticizzate/opere d’arte, prodotte con una cura della forma tale, per cui il significato coincide con la forma.

Dunque nell’uso dei linguaggi specifici (letteratura, pittura. musica, cinema, danza, teatro, fumetto ecc.) avviene la trasformazione di una narrazione con una forma qualsiasi, che è solo comunicazione di qualcosa, in una narrazione con una certa forma, che esibisce se stessa. Una narrazione qualsiasi (bisogno di dire) la cui funzione prima è comunicare qualcosa si trasforma in una narrazione la cui funzione prima è esibire la propria forma, a colui che ha bisogno di forma.

Una narrazione può tendere ad avere la funzione prima di esibire la propria forma solo quando la cura della forma tende a inventare uno stile. Non c’è cura della forma riuscita senza uno stile.

Lo stile è il modo di formare di ogni Autore/artista.

Dice Pareyson: “In questo modo di formare è presente tutta la spiritualità dell’artista, nel senso che questa, una volta che si è posta sotto il segno della formatività, esige il suo modo di formare, anzi si fa, essa stessa, quel determinato modo di formare. E’ dunque il modo di formare, cioè lo “stile”, quello che tascina nell’arte l’intera vita spirituale dell’artista, perché questi nel suo formare segue un modo singolarissimo e inconfondibile, ch’é unicamente suo e non d’altri, ch’é il suo modo di formare, il modo che non può esser che suo, e ch’è la sua stessa spiritualità fattasi tutta, modo di formare: stile”.12

Non si dà opera d’arte senza uno stile.

La riuscita di un processo di formazione presuppone sempre uno stile.

Lo stile è il modo di formare originale, personale, irripetibile, unico, il “suo mondo” di ogni Autore/Artista.

Ma se tutte le opere d’arte hanno per forza uno stile, non tutte le opere che pure hanno uno stile, sono opere artisticamente riuscite, cioè opere d’arte.

Allora diciamo:

1. Un Autore è Artista solo quando riesce a inventare il suo stile “unico” (l’unico originale riconoscibile “suo mondo”).

2. L’opera d’arte è tale solo quando in quello stile è artisticamente riuscita.

Dunque, tutto ciò avviene se l’Autore ha inventato una narrazione con uno stile che è il “suo mondo” (una realtà altra, originale, unica). Poiché questo “mondo” esiste solo in quanto forma, la funzione prima di questa narrazione è esibire la propria forma. Forma che riesce veramente a essere un “mondo” solo se artisticamente riuscita.

Per cui è assolutamente primaria nella ricezione di un’opera d’arte l’esperienza della sua riuscita (il riconoscimento), rispetto a tutte le conseguenti infinite interpretazioni possibili della ermeneutica.

Il riconoscimento è l’esperienza esistenziale immediata (non mediata dalla ragione) della riuscita della forma dell’opera (della riuscita di tutto l’insieme di forme di cui è composta l’opera), riuscita per cui quella forma non deve in nessun modo essere modificata, essendo sentita “perfetta” così come si presenta. Il riconoscimento o “esperienza esistenziale” della artisticità è dunque un sentire immediatamente la qualità artistica dell’opera in una intuizione prerazionale del pensiero simbolico. L’esperienza della artisticità è uno “star fuori” (dal greco: ek-sistemi) dalla razionalità, in un incantamento che non è un’estasi (ek-stasis) passiva, bensì un’estasi attiva, attenta: uno stare del sé fuori di sé nell’opera. Così intensa da essere una massima presenza del sé nell’opera: un essere se stessi al massimo grado. Una fortissima costituzione di identità.13

Dunque il riconoscimento, o “esperienza esistenziale” della qualità di artisticità nel pensiero simbolico, non esaurisce l’esperienza dell’opera, ma è la conditio sine qua non di ogni ulteriore corretta ragionata interpretazione con conseguente soggettivo giudizio di valore di essa (in una razionale ermeneutica formale e contenutistica). Il riconoscimento è infatti quella parte della esperienza dell’opera in cui si sente ciò che fa la differenza fra un’opera qualsiasi (comunque sempre oggetto di possibile interpretazione) e un’opera artisticamente riuscita (che è invece l’unica a permettere l’esperienza della artisticità).

Il riconoscimento della qualità di artisticità è transtorico e transculturale, si può solo sentire (nel pensiero simbolico) e si manifesta al di là e nonostante i condizionamenti culturali e di gusto, mentre l’interpretazione (esperienza ermeneutica e giudizio di valore) è in gran parte soggettiva, condizionata dalle variazioni di gusto nel tempo, nelle culture e negli individui, non essendo i “valori” valori universali, ma solo valori di una certa cultura. L’interpretazione, che appartiene al pensiero razionale, è dunque storica e culturale e relativa. Il riconoscimento, che appartiene al pensiero simbolico, è transtorico e transculturale.

L’esperienza esistenziale (riconoscimento) dell’artisticità non è affatto una esperienza elitaria: può essere di tutti coloro che ne sentono il bisogno e la vogliono fare (vogliono imparare a farla). Si impara a farla nella frequentazione assidua e reiterata delle opere. L’”esperienza ermeneutica” (l’interpretazione dei significati e il ragionato giudizio di valore) è invece solo di coloro che per la situazione sociale e culturale la possono fare.

Distinguere fra riconoscimento dell’artisticità e interpretazione dei significati è essenziale per l’interlocutore dell’opera.

La Capria: “Quando dico che per il senso comune Les Demoiselles d’Avignon è un brutto quadro, non parlo solo del bello e del brutto (soggetti a mutamenti nel tempo e alle oscillazioni del gusto), e non parlo solo de Les demoiselles d’Avignon.

Parlo di tutte quelle opere d’arte che non mi comunicano un’emozione artistica paragonabile allo stupore e alla meraviglia. Capire i motivi per cui è stata creata un’opera d’arte, e capire i significati che contiene, non dovrebbe aver nulla a che fare col coup de foudre che l’assoluta bellezza suscita in noi. Se ho visto la bellezza non desidero altro, la bellezza mi basta. Così fu quando vidi i Bronzi di Riace. Chi mai si sarebbe sognato di domandarsi, quando numinosi essi ci apparvero sorgendo dal mare, cosa significavano?” 14

Dunque può imparare a riconoscere l’artisticità solo chi ne ha coscientemente bisogno. Per questo moltissimi, che ne hanno solo un bisogno inconscio, sono sordi alla artisticità. “Non vedrà mai il sole l’occhio che non sia divenuto solare e nessun’anima vede il bello prima che essa stessa non sia divenuta bella “ 15

Dunque, rispetto alle narrazioni qualsiasi e alle narrazioni estetizzate, avviene nell’opera d’arte una rivoluzione, un capovolgimento. Se nelle narrazioni qualsiasi e in quelle estetizzate si impone il significato sulla forma, qui è la forma che si impone sul significato, tanto da diventare essa stessa un nuovo, fondamentale significato. Per cui significato e forma coincidono. Nella narrazione/opera d’arte il significato è la sua forma.

Si tratta della stupefacente invenzione di una operazione nuova, molto differente dalle altre narrazioni, che ha certamente richiesto un percorso di migliaia di anni per consolidarsi, ma che ogni Autore, nel suo proprio modo, ripercorre ogni qualvolta produce un’opera d’arte. L’immagine mentale che sta alla base del processo di formazione, viene tras-formata in questo processo in una forma definitiva e necessaria, l’unica possibile e “giusta” per quella immagine mentale.

Ogni opera d’arte è il risultato di un processo di formazione riuscito: ed è in questa riuscita che avviene la sintesi (simbolo sintetico) di significato e forma.

Qui viene riproposta, per completare il discorso sul procedimento tradizionalista, una parte del testo dal titolo “Tempo fermo” pubblicato sul primo numero di questa rivista.

“ Tutto ciò richiede la massima attenzione. Partiamo da un esempio tratto dai linguaggi visivi, perché più semplice. Si prenda una normale fotografia “documentaria” ma “ben fatta” di una casa, e un quadro riuscito di Van Gogh con la stessa casa, dallo stesso punto di vista. La prima è l’illustrazione documentaria di una casa, è un significato (narrazione) “casa” con una forma “ben fatta”. In essa il significato si impone sulla forma. Infatti la forma può anche essere modificata senza che si modifichi il significato “casa”. A meno che non si lavori sulla foto fino a snaturarne la consistenza di documento (fino a distruggere la visibilità del significato “casa”), il significato (documento) si impone comunque sulla forma. Si tratta di una narrazione “ben fatta”, cioè estetizzata, quindi di un oggetto estetico.16

La casa dipinta nel quadro di Van Gogh invece non è un significato “casa” ben dipinto, un significato “casa” con una forma ”ben fatta”. Ma è anzitutto una forma formata nello stile di Van Gogh e in modo tale da essere per se stessa un nuovo, forte significato, che si impone sul significato originario “casa”. E’ l’invenzione di un mondo “altro”.

Succede che, mentre nella fotografia si impone la casa reale, troppo vera nel mondo vero, cioè il significato (originario), e la forma può anche essere modificata senza che il significato cambi, nel quadro si impone invece una forma, che è la invenzione di una forma di casa nello stile di Van Gogh, cioè nel mondo “altro” inventato da Van Gogh, che è così “forte” come invenzione originale di un mondo da imporsi esso come il nuovo vero significato. Il significato che ora si impone non è più la casa vera (che è stata il modello per Van Gogh): questa casa vera viene “cancellata”, “fatta dimenticare”, da questa nuova forma/casa inventata da Van Gogh.

Questa forma/casa inventata da Van Gogh è anzitutto una forma, ed è una forma così assolutamente unica, da essere essa stessa un nuovo significato, un nuovo mondo. E’ dunque una forma che è un significato, nel suo essere forma.

Allora la differenza fra una narrazione normale o anche estetizzata, e la narrazione artistica (opera d’arte) sta in ciò, che nelle prime il significato si impone sulla forma, nell’altra invece la forma si impone sul significato, in quanto è essa stessa il fondamentale significato.

Per meglio capire riprendiamo il discorso partendo dal processo di formazione.

Van Gogh vede una casa, decide di fare un quadro con quella casa. Accingendosi a dipingere, si forma automaticamente nella sua mente una immagine mentale, cioè una narrazione mentale nel suo stile, della casa. Da questa immagine mentale parte il processo di formazione dell’opera. Il processo di formazione viene inventando la forma/casa di Van Gogh, di pennellata in pennellata. Il processo continua finché l’Autore sente che esso è compiuto, e qui si ferma.

L’immagine mentale è narrazione che viene tras-formata in un’altra narrazione: in questa metamorfosi si forma, quando riuscita, la qualità di artisticità.

Dunque Van Gogh inventa nel suo stile la forma del suo mondo, una sua narrazione di casa che nella realtà non esiste, che è quindi un nuovo significato. Un significato che è anzitutto una forma.

Questa forma si è venuta formando, nel processo di formazione, fino a essere quella giusta, unica, riuscita per quel quadro: e perciò compiuta, immutabile, immodificabile.

Dunque la forma che Van Gogh viene inventando nel processo di formazione non è una forma qualsiasi, o anche “ben fatta” o “bella”. E’ invece una forma unica, imposta, obbligata, costretta dal suo stile: quella unica forma riuscita possibile imposta a Van Gogh dal suo stile per quella iniziale immagine mentale.

Lo stile di Van Gogh si è realizzato al massimo delle sue possibilità per quell’opera. Si è compiuto. Lo stile c’è anche nell’opera non riuscita, ma incompiuto: nella riuscita dell’opera c’è lo stile nella sua massima compiutezza.

Il processo di formazione si ferma dunque in quella forma compiuta, unica, giusta, definitiva, perfetta: “riuscita”. Riuscita e pertanto non più modificabile, perché modificandola se ne distruggerebbe la riuscita.17 Van Gogh, e gli interlocutori dell’opera, la sentono immodificabile, intoccabile, immutabile, perfetta. La sentono cioè come spazio/”eternità”.

L’immodificabilità della forma riuscita è ciò che anzitutto si impone perentorio all’interlocutore: questa immodificabilità corrisponde nella psiche al senso dello spazio pervasivo, immobile, infinito: spazio/“eternità”.

E’ in questa perfezione, in questa riuscita della forma che si “eternizza” l’invenzione del mondo di Van Gogh, che è nel suo stile nella massima compiutezza, e quindi è un nuovo intenso significato. Ma, se è significato, è tempo.

Ma allora succede che questo intenso significato, questo massimo di significazione = di tempo, è anche massimo di forma = di “eternità”. Questo è l’evento psichico che accade nella esperienza dell’opera d’arte: un tempo che si ferma in una forma immodificabile, quindi perfetta, “eterna”, pur conservandosi come tempo (in quanto significato).

Dunque: il processo di formazione si ferma in un limite, oltre il quale non si deve andare, perché, come si dice nel linguaggio comune, “va bene così, non si deve assolutamente più toccare”. In questo limite il significato (narrazione), che è tempo, quindi movimento, mutamento, divenire, si ferma in una forma ormai immodificabile, perché riuscita: è il limite dove il significato (narrazione/tempo) coincide con la forma, è esso stesso forma, pur conservandosi come significato (narrazione/tempo). E’ anzi in questo suo fermarsi “giusto”, in questa compiutezza (immutabilità, e quindi unicità), che acquista il nuovo significato/forma.

Per cui:

Il tempo si ferma, pur rimanendo tempo.

Più è fermo, più è tempo/significato. Più è tempo/significato, più è fermo.

Questo è l’evento, ciò che accade nell’opera d’arte: il tempo è fermato.

Ora, un tempo fermo è una contraddizione inconciliabile nel pensiero razionale, dove il tempo mutevole è il contrario dello spazio fermo (eternità).

E’ invece il prodigio del simbolo sintetico (opera d’arte), che concilia le contraddizioni nel pensiero simbolico.

Dunque:

“L’opera d’arte è tempo fermo”.

Il riconoscimento, l’esperienza della artisticità è l’esperienza esistenziale del tempo che si ferma in un “tempo fermo”.

Riprendendo: un significato, che è tempo, è ora anche una forma, che essendo unica, immutabile, perché perfetta così, è spazio/”eternità”. Il tempo è insieme spazio/”eternità”. Ma ciò non è concepibile nel pensiero razionale, per il principio di non contraddizione. Non è possibile nel pensiero razionale che una cosa sia anche il suo contrario, che il tempo mutevole sia insieme il suo contrario, spazio immutabile e “eternità”. E’ invece possibile nel pensiero simbolico, nella sintesi del simbolo sintetico, che è l’opera d’arte.

Il simbolo sintetico è quella entità che concilia nel pensiero simbolico le contraddizioni che il pensiero razionale non riesce a “capire”. Il simbolo sintetico (opera d’arte) concilia la contraddizione principe, costitutiva dell’uomo: la contraddizione di vita e morte, desiderio del vivere e consapevolezza del morire, la contraddizione fra il tempo che passa e va, e il desiderio di eternità. Fra il divenire del significato (il maschile), e l’“eternità” della forma (il femminile).

Van Gogh ha inventato una forma di casa dipinta che è insieme una forma e un nuovo significato. Mentre normalmente il significato e la forma sono separati, e dunque il tempo e lo spazio/”eternità” sono separati, opposti e contradditori, qui è invece avvenuta una rivoluzione, per cui significato e forma sono un tutt’uno, il tempo e lo spazio/”eternità” sono un tutt’uno. E’ la sfida della mente dell’homo sapiens sapiens al suo destino, alla sua contraddizione costitutiva di vivere per morire.

Ma attenzione: se il tempo tende a consumare, rendere mutevole modificandolo, mobilizzandolo, ciò che ha una forma nello spazio, la forma tende a annientare immobilizzandolo ciò che è nel tempo, il significato. Nel curare troppo la forma trascurando il significato, la narrazione può essere dissolta e annullata come significato. L’operazione arte si dissolve allora in operazione artigianale o in virtuosismo nevrotico. Non c’è niente di più distruttivo per l’arte del confondere l’artisticità con il formalismo. Per questo si insiste sul fatto che il tempo si ferma in una forma, pur rimanendo tempo, cioè significazione. E’ la peculiarità dell’opera d’arte quelle di essere comunque sempre narrazione-significazione, cioè tempo. Appunto per poter essere, in modo stupefacente, tempo e insieme forma (compiuta, immodificabile perché riuscita: cioè spazio/”eternità”).

Ci sono allora tre momenti determinanti nel rapporto della psiche con la forma: l’evento psichico della forma “ben fatta”, forma “bella” per se stessa (oggetto artigianale), l’evento psichico della narrazione con cura della forma, ma dove la forma è separata dal significato/narrazione (oggetto estetico) e l’evento psichico della narrazione con cura della forma in cui la forma coincide col significato (oggetto artistico). Sono tutti momenti cruciali del confronto fra l’Io e l’angoscia del divenire. Fra la capacità di astrazione (formazione) e l’accadimento (materia). Fra il bisogno di forma e la pulsione di morte e autodistruzione. Fra lo spazio/forma che sta e il tempo che va. Tra il “femminile” e il “maschile”.

L’homo sapiens sapiens non fa che creare, nell’opera d’arte, un suo tempo da fermare.

“Possiamo adesso avanzare un postulato centrale. Due sole esperienze permettono agli essere umani di partecipare alla finzione-verità, alla metafora pragmatica dell’eternità, della liberazione dai decreti di annientamento del tempo storico-biologico, vale a dire dalla morte. La prima è quella della fede religiosa autentica, per coloro che sono aperti a essa. La seconda è quella estetica. E’ la produzione e ricezione di opere d’arte, nel senso più lato, a permetterci di condividere la durata, il tempo senza confini. Senza le arti la psiche umana rimarrebbe nuda davanti alla propria estinzione”18

 

1.4 Il paradosso

Tutto ciò appartiene alla psiche, si sente nella psiche. Secondo la razionalità non c’è niente, a rigore, di perfetto, ma noi viviamo l’arte anzitutto secondo i sensi e non secondo ragionamenti. Come viviamo un sole che sorge e tramonta, e gira intorno alla terra, e non una terra che gira intorno al sole. 18a

Ciò che conta è allora la “tendenza alla perfezione” implicita nell’operazione. Ogni Autore sente l’opera tendere alla sua compiutezza, come se egli fosse “condotto per mano” verso di essa da una forza che lo trascende. Ogni Autore ha fatto l’esperienza della compiutezza di un’opera. Può succedere che dopo un certo tempo egli non senta più quella compiutezza nell’opera, e sia indotto, sempre da quella pulsione, a intervenire ancora sull’opera, per correggerla. Oppure che pensi che avrebbe potuto finire l’opera in altro modo. Per questo conserva le annotazioni e i progetti di altre soluzioni, magari per usarle in un’altra opera.19. Ma è la compiutezza, la perfezione del “tempo fermo”, ciò che l’Autore e l’interlocutore hanno bisogno di sentire e sentono nelle opere d’arte. Per questo sentire l’umanità si è prodigata con una dedizione stupefacente ovunque da sempre.

 

1.5 L’unità di stile

La caratteristica principe del modo di formare del procedimento tradizionalista (cioè dell’arte storica) è l’unità di stile. E’ il modo di narrare una realtà forte, un altro da sé forte, che è sempre, nella sostanza, uguale a se stesso, e di cui pertanto ci si può fidare. Un altro da sé che è la realtà del “senso comune”.20 L'unità di stile risponde a una esigenza profonda di fiducia in questa realtà, è garanzia della conservazione di un rapporto stabile con essa, stabilità di rapporto che è a sua volta garanzia di identità.

L'unità di stile è la prerogativa del modo di formare storico che si può definire in senso molto lato "classico"21. Si tratta di un modo di sentire e di produrre molto influenzato dagli archetipi formali della perfezione e della compiutezza: l'oggetto deve essere generalmente ben finito, anche nel dettaglio. Nel ben finito viene soddisfatto il bisogno di sicurezza, di stabilità, di identità dell'Autore e dell'interlocutore tradizionalisti. Questa compiutezza é prerogativa di tutta l"arte storica in generale, ma in particolare di quella classica (nel senso di opposta a romantica), ed è il risultato di un progetto forte (che vuol dire molto definito): quanto più il progetto è forte, tanto più l'oggetto è ben finito. Quanto più il progetto è invece debole (o addirittura assente) e prevale l'improvvisazione, tanto più l'oggetto può rimanere non finito, volutamente incompiuto o frammentario o disarmonico o disorganico, perché non c'è un progetto forte che a priori imponga quando e come debba essere ben finito.

Il procedimento tradizionalista, che fa parte di una cultura della sicurezza e della stabilità, tende ad avere un progetto forte, mentre i procedimenti modernista e avanguardista (e ovviamente anche quello postmodernista), che fanno parte di una cultura problematica o nihilista, tendono ad un progetto debole e alla improvvisazione, proprio perché in questa improvvisazione c'è più possibilità di inventare forme totalmente nuove (procedimento modernista).

Le prerogative fondamentali del procedimento tradizionalista (la narratività costitutiva dell’arte e l’unità di stile, categorie universali pur nelle loro differentissime manifestazioni), si evidenziano proprio nella loro messa in discussione da parte dei procedimenti modernista e avanguardista, in cui è influente l’ideologia sociologica del progresso.

 

1.6 Altre considerazioni.

Ma l'ideologia del progresso non ha cancellato il procedimento tradizionalista. Sono mutate in esso alcune funzioni sociali, come la committenza, il pubblico, le tecniche, gli stili, ecc., ma il procedimento rimane sostanzialmente lo stesso, finché dura la fiducia del senso comune nella stabilità delle cose del mondo, nel reale esistente per sé stesso, nel suo essere un altro da sé forte (come nella cultura di massa).

Nella società di massa del Capitalismo, l'arte del procedimento tradizionalista resiste in quella parte che non è ridotta del tutto a merce, poggiando principalmente su funzioni sociali estranee al mercato, e in quella parte di società non nihilista, che vive di solidi valori tradizionali cristiani o umanistici.

Per l'arte storica contemporanea del procedimento tradizionalista è improponibile, a rigore, il problema del nihilismo e del valore di scambio, perché, nonostante la mercificazione capitalistica la assalga da ogni parte e nonostante la maggior parte dei suoi prodotti sia anche "per le masse", tali prodotti non sono ancora "della massa": sono cioè opere d'arte tradizionali prodotte da élites per le masse, e non ancora prodotte dalle élites delle masse (del marketing), come nel procedimento postmodernista. Sono infatti pur sempre un prodotto di minoranze che, sul piano psicologico/antropologico "scelgono di essere infelici nelle grandi cose piuttosto che essere felici nelle cose piccole", che è invece ciò che sembrano volere le élites sui generis del procedimento postmodernista.

L'arte tradizionale storica è senz'altro il prodotto della élite “maschile” di una cultura patriarcale, che si è sempre sentita "accessorio" rispetto alla donna/madre/natura. Questa coscienza infelice l’ha indotta a fare la "storia" e le "grandi" cose (dalle piramidi alle guerre, dai capolavori ai lager), anche sacrificando, oltre a se stessa, popoli interi la cui cultura popolare chiedeva invece non di essere infelici nelle "grandi" cose, ma di essere felici nelle cose "piccole".

L'arte storica è stata ed è una di quelle "grandi" cose. Raccontava il “maschile” che si uccideva, i maschi che "morivano per non morire", per essere eternizzati nella Kléos (gloria) e nell'arte.

Il procedimento tradizionalista, nonostante le più appariscenti manifestazioni dei procedimenti modernista e avanguardista, rappresenta pur sempre, nell’arte contemporanea, la normalità (qualitativamente) e la maggioranza (numericamente). E' normale in quanto erede diretto del procedimento di tutta l'arte storica, di contro alla anormalità dei procedimenti modernista e avanguardista (nel senso che questi ultimi procedimenti non sono affatto l'ultima tappa di uno sviluppo lineare (normale) dell'arte storica, bensì una devianza dalla norma). E' poi maggioritario come numero di opere, se si considera che appartengono ad esso non solo singoli "artisti" che si definiscono tradizionalisti, ma la maggior parte della letteratura, del cinema, del jazz e dintorni, del fumetto e della illustrazione editoriale e dei video e delle vignette e della pubblicità, ecc. ecc., insomma tutta quella parte della produzione che, pur appartenendo alle comunicazioni di massa, ha qualità di artisticità.

Infatti il termine "cultura di massa" è, rispetto ai problemi dell'arte, abbastanza improprio: si dovrebbe parlare semplicemente di "cultura tradizionalista", cioè di una cultura in cui, per il rapporto dei soggetti con una realtà che è ancora un altro da sé forte, vige il procedimento tradizionalista. Può infatti sembrare strano dire che il discendente diretto di Raffaello non è il modernista Picasso, ma un illustratore o un regista; ma lo è molto meno se si pensa che oggi Raffaello si sarebbe molto probabilmente dedicato alla regia filmica, ottenendo gli ottimi risultati di tantissime opere del cinema, che è il linguaggio specifico più significativo della nostra epoca come lo era la pittura nell'epoca di Raffaello.

La cultura di massa comprende ormai quasi tutta la cultura, ed è al suo interno che vengono prodotte, fra innumerevoli oggetti non artistici, anche tante opere d'arte, nel procedimento tradizionalista. Certamente queste opere risentono della pressione della cultura di massa, ma non altrimenti di come sempre tutte le opere risentivano della pressione del potere imperante.22

Se si prendesse per vera la proposizione sociologia dello storicismo relativistico per cui "l'arte è ciò che gli uomini chiamano arte", l'arte storica (del procedimento tradizionalista) sarebbe, in definitiva, solo una "impostura" di pochi potenti (una élite di committenti e Autori) sui popoli. Ma questa proposizione non è vera. Ciò che sorprende è che nel corso dei secoli le opere che piacevano ai potenti (élite di committenti e Autori) di una cultura, piacevano anche alla élite delle altre culture. Le differenze di giudizio sulle opere non esistono tanto fra culture diverse nello spazio e nel tempo, quanto fra competenti e non competenti all'interno di una stessa cultura. Vuol dire che esiste nella storia, a un certo livello di competenza, una costante dell'artistico, effetto di una qualità di artisticità dell'oggetto. L'opera d'arte attraversa il tempo e "...non si rivolge soltanto a una personalità determinata dallo stato momentaneo della società, bensì a ciò che nell'uomo è generalmente umano: una tale opera fornisce le prove del suo rapporto con l'essenza antropologica dell'uomo".23

Si dice che non esiste lo “sguardo innocente”, non condizionato dal proprio gusto e dalla propria cultura. Sembra, nel nostro mondo, una ovvietà. Eppure, imparare a riconoscere l’artisticità di un’opera, nella “esperienza estatica”, vuol dire sopratutto imparare a liberarsi da quei condizionamenti, “affidandosi” alle opere, le più differenti nel tempo e culturalmente, in un approccio “il più innocente possibile”. Semplicemente frequentandole assiduamente. Si tratterebbe comunque del “senso comune”24 di coloro che hanno coscientemente bisogno della forma artistica. Solo se si tien conto di ciò, si può anche ammettere che “Quando guardo Giotto o Masaccio, Piero o Leonardo sempre c’è una interferenza culturale tra me e il dipinto che sto guardando. Non può essere altrimenti, perché il puro sguardo, innocente e insieme conoscente, non esiste”.25. Ma di certi autori “santificati” si può anche giustamente affermare: “Come si leggono meglio se si finge di ignorare la concettualizzazione sommersa e il commento che si è quasi sostituito al testo originale! Che senso di liberazione si prova a stare in superficie! E come più abbagliante questa si rivela, tanto che essi stessi, quegli autori, sembrano liberati! E liberato il testo dal sottotesto soverchiante!”26

Si deve insistere su questa "unicità" dell'operazione arte nelle diverse culture e nel tempo, anche se appare "scandalosa" al relativismo storicistico e sociologico e alla Ermeneutica, discipline protese a studiare il fenomeno arte solo dal punto di vista del contenuto e dell'interlocutore. Perché l'Autore "sa" tutto ciò che di "eguale" c'è nel fare suo e in quello di un "primitivo" e di un egizio e di un Bach e di un Joyce.

Si sa che il nostro concetto di opera d'arte è recente, e il fatto di estendere questo nostro concetto a oggetti di altri tempi e altre culture è stato considerato una operazione di acculturazione, una forma di imperialismo culturale. Per esempio si sarebbe piegato lo statuto religioso cultuale di una scultura lignea primitiva a quello nostro, "prevaricante", di opera d'arte. Questo eurocentrismo sarebbe stato il frutto della ignoranza della vera funzione originale dell'oggetto, e sarebbe mistificante della sua vera identità. Non è così.

Le funzioni sociali (funzioni genetiche terze27 accompagnano la funzione genetica prima delle opere contemporanee nello stesso esatto modo che l’accompagnavano nelle opere antiche. La funzione "cultuale" oggi più diffusa è quella di intrattenimento, che accompagna la maggior parte della narratività (nei romanzi, film, fumetti ecc.), non altrimenti di come il culto magico o religioso accompagnava le opere d'un tempo (ciò è pacifico, a meno che non si voglia negare per principio, a priori, a tutte le opere di intrattenimento la qualità di artisticità; ma allora sì, si tratterebbe di imperialismo culturale). Invece ciò che conta è che la funzione genetica prima, di procurare l’esperienza della artisticità, è sempre la stessa.

Il fatto che altre culture non abbiano analizzato l'operazione produttiva dei loro oggetti come ha fatto il razionalismo occidentale, non vuol dire che quegli oggetti non abbiano la stessa qualità di artisticità dei nostri. Anzi, l'analisi di quegli oggetti dal punto di vista moderno dell'artisticità ha aiutato a comprenderli e decifrarli meglio, a sviluppare le nostre teorizzazioni sull'arte e finalmente ha influito sulla nostra arte stessa.

Tutte le culture hanno prodotto oggetti che la nostra cultura oggi considera artistici, anche senza che esse li considerassero tali, ma solo oggetti del culto o della celebrazione ecc.. Vuol dire semplicemente che l'attenzione per quegli oggetti da parte degli "interessati" (addetti ai lavori) di quelle culture si è limitata alle loro funzioni genetiche terze (sociali), esattamente come fanno oggi tutti gli addetti ai lavori della sociologia, che sono la maggioranza, perché, come allora, come sempre, si occupano solo degli interessi della committenza e del pubblico. Se per ipotesi fra qualche millennio qualcuno dovesse basarsi su ciò che dice la maggior parte degli addetti ai lavori attuali, non riuscirebbe a capire nulla della situazione dell’arte contemporanea.

Alcune culture hanno prodotto oggetti artistici senza nemmeno destinarli alla fruizione: per esempio le opere degli egizi contenute nei sepolcri. Molto probabilmente quelle opere, nella loro funzione sociale (genetica terza), dovevano essere "fruite" dagli dei o dal morto. Ma anche se ciò non fosse vero, non cambierebbe nulla. La formazione di quegli oggetti è da sempre, e per tutte le culture, la stessa operazione. Gli oggetti sono differenti, ma l'operazione è la stessa, e quindi anche il modo corretto di sentirli e di giudicarli è lo stesso.

Per rendersi conto che quegli oggetti non differiscono nella loro qualità di artisticità dalle nostre opere d'arte, basta calarsi nei panni dell'Autore. I problemi linguistici che un Autore deve affrontare e risolvere oggi sono gli stessi che ha dovuto affrontare sempre. Le soluzioni sono diverse (come lo sono anche fra contemporanei) per le differenze del Myhtos, ma "imparentate" nella Poiesis. E succede spessissimo che una soluzione dell’arte storica antica sia riproposta da un contemporaneo del procedimento modernista, anche senza che egli conosca quella antica.

E si dice anche di opere antiche che sono attuali: ciò, dal punto di vista strettamente artistico, é tremendamente ovvio: l'opera d'arte è sempre attuale, per il semplice fatto che non ha progresso. Le opere d’arte sono tutte sempre contemporanee.

Quindi non è vero che oggi "tutto" è cambiato, che l'arte si è liberata dalla funzione genetica seconda, quella per cui un artista è indotto a fare arte. Per l'arte del procedimento tradizionalista la funzione genetica seconda rimane sempre quella di narrare un altro da sé forte. Nell'ambito del procedimento tradizionalista (ma queste considerazioni valgono anche per il procedimento modernista e pertanto, di fatto, per tutta l'arte), nessun Autore si mette al lavoro veramente con l'intenzione: "ora faccio un opera d'arte". Lo fa sempre, anche inconsciamente, ma inesorabilmente, con l'intenzione: "ora "dico" questo o quello" (narrazione). E soltanto dopo, se è Autore28, subentra la consapevolezza di fare un'opera d'arte.

Nel saggio "La fine della Modernità" 29, Vattimo scrive: "...la morte dell'arte significa due cose: in senso forte, e utopico, la fine dell'arte come fatto specifico e separato dal resto della esperienza, in una esistenza riscattata e reintegrata; in senso debole o reale, l'estetizzazione come estensione del dominio dei mass-media". Questi due argomenti verranno trattati nel numero 3 di questa rivista, il primo punto nel capitolo sul procedimento avanguardista, il secondo nel capitolo sul procedimento postmodernista, facendo riferimento all'estetica filosofica del Pragmatismo americano e all'arte come "fatto estetico integrale". Ma rispetto al secondo punto va detto subito che l'estetizzazione come estensione del dominio dei mass-media, non comporta affatto automaticamente la morte dell'arte del procedimento tradizionalista. Neppure l'immensa quantità degli oggetti prodotti dal procedimento tradizionalista (che pure abbassa lo standard medio della produzione) annulla l'artisticità, che si perpetua e rinnova. Si tratta piuttosto di individuare, fra i diversi linguaggi specifici, quelli oggi più funzionali alla narratività tradizionalista, come il cinema, e quelli meno funzionali ad essa, e pertanto forse "moribondi", come la pittura. Ogni epoca e cultura ha avuto il suo linguaggio specifico privilegiato.

Dunque il procedimento tradizionalista non è ancora investito direttamente dalla problematica della morte dell'arte; presenta invece ben altri limiti. Anzitutto il suo essere tradizionale comporta la narrazione dell'esistente (sistema sociale ecc.), garantendone la durata. L'arte per se stessa non è mai stata immediatamente rivoluzionaria, ma solo mediatamente, come evoluzione dell’Io in una totale obbligata esposizione di sé. Anche quando assume funzioni critiche, per esempio di satira politica e di costume, il procedimento tradizionalista non è di fatto eversivo. L’eversione sta solo nel nuovo della forma, e ciò è senz'altro il grande merito dei procedimenti modernista e avanguardista. Inoltre il procedimento tradizionalista è molto esposto da un lato alla produzione del Kitsch, dall'altro alla salvaguardia della cultura accademica e di potere. Ma, a questo proposito, si deve dire che la maggior parte del pubblico "progressista" e "antitradizionale", che fa mostra di apprezzare le opere del Modernismo e dell'Avanguardismo, usa in verità quotidianamente in massima parte opere del procedimento tradizionalista, nel cinema e nei romanzi e nel teatro e nei concerti ecc., poiché è in queste opere che questo pubblico trova quella sicurezza e legittimazione, che poi gli permettono "il lusso" di farsi "progressista, antitradizionalista e rivoluzionario" nella fruizione degli altri procedimenti. In altre parole, c'è un pubblico che fa esperienza contemporaneamente di procedimenti diversi (così come ci sono Autori che producono contemporaneamente in procedimenti diversi), ma il cui punto di riferimento principale rimane pur sempre il procedimento tradizionalista.

Scrive ancora Vattimo:" Alla morte dell'arte per opera dei mass-media, gli artisti hanno risposto spesso con un comportamento, che si colloca anch'esso sotto la categoria della morte in quanto appare come una sorta di suicidio di protesta: contro il Kitsch e la cultura di massa manipolata, l'estetizzazione a livello basso, debole, dell'esistenza, l'arte autentica si è spesso rifugiata in posizioni programmaticamente aporetiche, rinnegando ogni elemento di fruibilità immediata delle opere- il loro aspetto "gastronomico" -, rifiutando la comunicazione, scegliendo il puro e semplice silenzio. E' questo il senso esemplare che, come è noto, Adorno vede nell'opera di Beckett, e che in gradi diversi ritrova in molta arte d'avanguardia." Quasi tutto vero, purtroppo. "Purtroppo" perché, anzitutto, solo una enorme presunzione pari ad altrettanta mediocrità e ignoranza ha permesso agli artisti autodefinitisi "autentici" di considerare tutta la produzione del procedimento tradizionalista della cultura di massa un enorme Kitsch, tale da indurli al "nobile" gesto del suicidio (totalmente fasullo nei fatti) per protesta. In verità, i grandi veri avanguardisti della "morte dell'arte" come Duchamp o Malevic non hanno "ucciso" l'opera d'arte solo per difenderla dal mercato della cultura di massa, come pretenderebbe la sociologia, ma per ben più profondi motivi linguistico-esistenziali personali.

Né la storia ha dato ragione alla "estetica negativa" di Adorno per cui "il criterio in base a cui si valuta la riuscita dell'opera d'arte è la sua maggiore o minore capacità di negarsi": la negazione dell'opera d'arte ha fatto parte soltanto del progetto, molto coerente, delle Avanguardie storiche, ma non del Modernismo (e meno ancora ovviamente del Tradizionalismo) che invece alla "riuscita" dell'opera d'arte ha sempre strenuamente tenuto.

Queste imprecisioni si devono alla perdurante confusione, in gran parte voluta e interessata, potremmo dire ideologica, fra i concetti di Modernismo e Avanguardia. Infatti Beckett non è un Autore del silenzio e della incomunicabilità nel senso avanguardista della morte dell'arte, ma un grande Artista modernista che ha "gridato il silenzio".

Dice ancora Vattimo 30: "...accanto a questi fatti, bisogna non dimenticarne altri, che anzi costituiscono la -per molti versi sorprendente - sopravvivenza dell'arte nel suo senso tradizionale, istituzionale. Ci sono ancora infatti, teatri, sale da concerto, gallerie; e artisti che producono opere che si lasciano collocare in modo non conflittuale entro queste cornici; ciò, sul piano teorico, significa però: opere la cui valutazione non può rifarsi sopratutto e esclusivamente alla loro capacità di autonegazione. Di fronte a fenomeni di morte dell'arte, cioè, si pone, come fenomeno alternativo e ad essi irriducibile, il fatto che si danno ancora "opere d"arte" nel senso istituzionale........A questo deve riflettere con accanita attenzione la teoria, per la quale il discorso della morte dell'arte può rappresentare anche una comoda scappatoia, comoda in quanto semplificante e tranquillizzante nella sua metafisica rotondità".

Se quello di Vattimo può considerarsi il riconoscimento della esistenza di un procedimento tradizionalista, deve tuttavia essere chiaro che fra queste opere d'arte che perdurano ci sono anche quelle del procedimento modernista, che rappresentano una strenua resistenza degli Autori alla morte dell'arte e che non si valutano affatto per la "maggiore o minore capacità di negarsi" di Adorno (che appartiene invece al procedimento avanguardista).

 

2. Il procedimento modernista.

"...un fare che, mentre fa, inventa il modo di fare." Pareyson.

Procedimento modernista e procedimento avanguardista, Modernismo e Avanguardismo, sono risposte differenti alla crisi della Modernità umanista. Ma l'origine comune comporta a volte affinità che rendono difficile definire esattamente se e quando un Autore sia modernista o avanguardista; a volte invece comporta differenze così sostanziali, per cui si rimane sbalorditi da come certi Autori possano essere stati accomunati in una confusa e generica categoria di Avanguardia. Pertanto le differenze saranno qui definite "in extremis", in modo da renderle più comprensibili.

Il procedimento modernista viene chiamato modernista, e non moderno, perché ripropone istanze della Modernità, ma in un'ottica assolutamente problematica. Non va confusa la Modernità, che é un concetto che definisce tutta una cultura, una visione del mondo, con il procedimento modernista di cui si parla, che è invece la più significativa testimonianza e denuncia, nell'arte, della crisi, forse definitiva, di quella Modernità.

Il procedimento modernista è l’avventura della “discesa agli inferi” nell’inconscio individuale e collettivo, come altro da sé forte, intrapresa da un certo numero di artisti, per reinventarsi una identità, senza la quale non si può creare l’opera d’arte.

Questa definizione illustra il punto di vista dell’Autore, in un’ottica antropologica e psicologia. Essa esige pertanto una digressione in due capitoli sul problema della identità: 1. L’identità. L’Altro. L’arte come Altro.

 

2.1. L’identità. L’Altro. L’arte come Altro.

“Il desiderio dell’uomo trova il suo senso nel desiderio dell’altro, non tanto perché l’altro detenga le chiavi dell’oggetto desiderato, quanto perché il suo primo oggetto è di essere riconosciuto dall’altro”. (Lacan) 31

L'identità, come identità personale dell'Io, o meglio come psicologica "prima consapevolezza del senso di essere" 32, è qualcosa che sembra non abbandonarci mai. E' invece a volte intensa e presente, a volte rarefatta. Paradossalmente, essendo in fondo l'identità la prima cosa che per l'homo sapiens sapiens veramente conti

Succede a tutti, "primitivi" e contemporanei, di perdere il senso di sé. Secondo De Martino 33 le pratiche magiche dei primitivi altro non sono se non terapie istituzionalizzate dalla comunità, gestite dagli sciamani, contro questa "crisi della presenza", questo rischio di dissoluzione dell'Io.

L’identità si sente sia nella uguaglianza con le cose e con gli altri (nella “partecipazione mistica” primitiva, nell’inconscio, nell’infanzia, nella fede ecc.: identità inconscia) sia nella differenza dalle cose e dagli altri (dove il riconoscimento della propria identità implica il riconoscimento dell’altro da sé, cosa o persona: identità conscia). Ciò accade nello stesso individuo, da sempre, secondo le occasioni. E da sempre artigiani e artisti (nonché sciamani, capi, sacerdoti, ecc.) hanno chiara la loro identità non solo per uguaglianza, ma anche per differenza. Quando fra i primitivi un artigiano o un artista inventa un nuovo modo di formare (anche se l’ideologia della tribù gli impone la continuità nella tradizione, anzi proprio a ragione di questo) è ben conscio della propria identità per differenza dal modo di formare degli altri (originalità di Autore).

L’identità per uguaglianza e l’identità per differenza si intrecciano.

Un individuo, fisicamente come corpo e psichicamente come Io e inconscio, è in continuo mutamento, ma conserva la memoria di sé, la propria identità come uguaglianza. Da un punto di vista fisiologico la memoria individuale è racchiusa nei miliardi di molecole di DNA, ricche di informazioni ereditarie che nella vita vengono utilizzate solo in minima parte, e sono informazioni che riguardano tutta la specie. 34 Da un punto di vista psicologico, la memoria di sé e della specie è racchiusa nell'inconscio individuale e collettivo.

Ma la memoria di sé si spegne in assenza dell'altro da sé. Mentre è rafforzata dal continuo incontro/scontro con gli infiniti altro da sé.

Un Io senza l'altro da sé non esiste. Sarebbe allo stato arcaico, indifferenziato. L'uomo non riesce a vivere, sentire se stesso se non in rapporto con un altro da sé, da lui oggettivato in oggetto. Se un uomo dice: "Io sono un uomo", questo essere "uomo" vuol dire veramente qualcosa come differenza da una “cosa” oggettivata in oggetto altro che egli non è: l’altro individuo, pianta, insetto, scimmia, casa, nuvola, idea, amore, morte, Dio, mistero, l'ignoto, ecc. ecc..

Un uomo solo in modo assoluto non è concepibile. Un uomo che si venisse a trovare in un'isola deserta dopo un certo tempo "esaurirebbe se stesso" con l'esaurirsi della memoria della persona, dell'Io che era. Solo un altro da sé fortissimo, resistentissimo nella memoria, come forse l'idea di Dio, potrebbe permettergli di conservarsi in memoria per l'intera vita. Non si sa cosa sarebbe stato di Robinson Crusoe, se non fosse apparso Venerdì. Si sa invece dell'indebolimento dell'identità in una situazione di prigionia o segregazione, dove non c'è l'esperienza del mutevole altro.

Dice Baudrillard 35: "Si parla di alienazione. Ma la peggior alienazione non è di essere spossessato dall'altro, ma spossessato dell'altro, di dover produrre l'altro in assenza dell'altro, e quindi di essere rinviato continuamente a se stesso e all'immagine di se stesso".

Dunque l’identità, se tende alla uguaglianza nella sicurezza della memoria di sé, tende anche a mutare in "tutti i possibili Io", in una autocreazione continua nel continuo differente rapporto con gli altro da sé sempre differenti.

L’identità è riconosciuta e mantenuta "costante" proprio nell'essere il soggetto continuamente "modificato" nell'incontro/scontro con le altre identità. La comprensione di del soggetto avviene proprio in queste variazioni, perché è nel percepire le variazioni di che il soggetto può percepire di più un costante e fisso, implicito, presupposto, "vero", sottostante le variazioni. E' come un nudo, che può essere vestito di differentissimi, infiniti panni che sono le sue variazioni, ma che sotto percepisce se stesso sempre come lo stesso nudo.

Esso riesce a percepirsi, a riconoscersi, appunto perché è vestito sempre con mutevoli differentissimi panni.

L'identità è un nudo/memoria che si veste continuamente di panni differenti.

Una condizione di fissità del "nudo", senza variazioni di panni, si chiama routine. La routine è il non succedere dell'incontro/scontro con l'altro da sè. L'incontro/scontro è una rottura della routine quotidiana. Essa produce anzitutto stupore, meraviglia. Ci si stupisce, e si esce dalla routine quotidiana, quando ciò avviene. E più l'altro da sè è "stupefacente", più esso rafforza l'identità del soggetto, con tutte le connotazioni date dagli infiniti altro da sé possibili.

L'identità dell'Io non si rafforza dunque nel “cogitare” l’uguaglianza "io sono io", ma nell'incontro/scontro con l'altro da sé che è sempre differente, e che mi fa sempre differente, e perciostesso più costantemente Io. La differenza che esiste fra le identità non le distrugge, anzi le rende più forti e identificabili.36 Anche il tempo, che modifica continuamente la vita, se vissuto come vita estetizzata37 e come narrazione estetizzata (retorica e riti), rafforza l'identità.

L'uomo sente se stesso come narrazione degli altri uomini. Egli ha un significato in quanto significato della narrazione degli altri uomini.

E c'è chi dice, fra gli scienziati38, che: "Il mondo è un enigma che Dio ha creato per difendersi dalla sua terribile solitudine e dalla paura della morte". Dio avrebbe creato un altro da sé, il mondo, per poter esistere. Per poter avere la sua identità di Dio. Neppure Dio (concepito dalla mente umana) può dire: "Io sono Io" (cioè Tutto), ma esiste solo in rapporto con un altro da sé che è il mondo.

Dunque l’Io soggetto si riconosce come identità nelle variazioni indotte dall'incontro/scontro con le altre identità. Ma l'Io non potrebbe mantenere l'identità se con le altre differenti identità che la determinano non avesse in comune una commisurabilità (una uguaglianza). Aristotele39: "...ciò che è differente da qualcosa è sempre differente per qualche cosa, tanto che necessariamente ci deve essere qualcosa di identico, per cui sono differenti". Gli uomini possono avere differenti identità, possono essere differenti, perché hanno fra loro una uguaglianza: sono uguali nell’essere uomini, formano un sistema.

Per poter incontrarsi/scontrarsi come altro da sé per rafforzare l’identità e riconoscersi come differenze, le differenti identità devono far parte di un sistema, che è la loro uguaglianza. Il “sistema” impedisce allora l'assurdo del relativismo estremo in cui le cose diventano "niente", perché non riconoscibili.

Reciprocamente, i sistemi (le uguaglianze, gli universali) possono essere riconosciuti soltanto nell'incontro/scontro delle differenze. E' ciò che intende Levi-Strauss quando afferma che le sottostanti costanti universali antropologiche (strutture) si individuano nelle relazioni delle differenze dei fatti sociali.

Anche l'arte (l'artisticità) è una costante universale antropologica (sistema antropologico dell'arte) sottostante alle differenze, che sono le opere. E’ proprio la molteplicità e differenza delle opere d’arte a fondare l’esistenza oggettiva della qualità di artisticità come loro denominatore comune.

Si può dire allora che l’identità per differenza è veramente “un processo di invenzione di identità”.

Si indica qui con il termine altro da sé (corsivo con la a minuscola) ogni “cosa” oggettivata in oggetto, e con il termine Altro (corsivo con la A maiuscola) l’altro dalla razionalità, intesa sia come strumento sia come razionale fondamento dell’essere nella metafisica occidentale.

Tutto può essere altro da sé che dà identità, se percepito in un certo modo. Ma quando lo si “possiede” nel “cerchio di luce della razionalità metafisica”, lo si può anche distruggere: quando è spiegato, misurato, calcolato, matematizzato, logicizzato, ecc. (e non è più allora stupefacente e meraviglioso). Quando insomma è consumato dalla routine quotidiana.

Questo non vuol dire che le “cose” non possano essere investite dalla ragione strumentale, che le riconosce senza distruggerle come altro da sé. “Significa ragione come metodo e non come sistema, uso dell’intelligenza critica”.40

L’Altro dalla razionalità è ciò che la razionalità non ha, non sa, non è: ciò che la razionalità desidera.

Questo desiderio dell’Altro è anch’esso un desiderio di identità, che si esprime in tutte le manifestazioni immediate possibili (dall'al di là della genesi dell'universo (nella fisica occidentale) alla Legge Mistica nel Buddismo, dall'Altro come "avventura" all'Altro come differenza sessuale, dall'inconscio senza spazio/tempo al tempo fermo che è l'opera d'arte.

Questo Altro è ovunque, nel presente come l'”altrove” (l'inconscio) da cui vengono le immagini della immaginazione, nel futuro come l'"avventura" e nel passato come l'"origine".

La scienza lo chiama l'evento, unico, irriducibile alla spiegazione: la "discontinuità tra natura inerte e biosfera", 41 cioè l'Altro definitivo, che non si può spiegare. La scienza è ben consapevole che tutto ciò che essa può spiegare è sempre "misurato" (matematizzato) all’interno della prigione della razionalità.

Si tratta allora di uscirne, e di recuperare la dimensione immaginifica (che ha poco a che fare col misticismo, ma è invece memoria 42), ma senza con questo buttare i doni acquisiti della razionalità e della scienza, come strumenti. Si tratta di recuperare l’inquietante, l’enigmatico, l’avventura, la differenza, la pluralità. E tutto ciò è nell’arte come artisticità.

Si intende per immagine della immaginazione la "presenza" di una “cosa” nella mente. Presenza non certo solo visiva, o tattile, o uditiva, ma pienamente mentale (immagine mentale).

C'è nella psiche un fluire di immagini, ma queste immagini della immaginazione sono soggettive solo dal punto di vista della logica razionale. Dal punto di vista psicologico sono consonanze del soggetto uomo con una più profonda consistenza delle “cose” del mondo, una consistenza antropica, in rapporto alla storia di tutta l'umanità. Queste immagini non sono arbitrariamente interpretabili in un modo o nell'altro per la mediazione del linguaggio concettuale relativo alle singole culture, ma sono immediatamente l'"immagine del mondo" dell'homo sapiens sapiens. 43

Per questo alcuni filosofi, di fronte alle insufficienze e alle aporie della ragione, che non può conoscere l’Essere, perché si morde la coda solo razionalmente interpretandolo, per sentire l'Essere si affidano all'Altro dalla ragione. Per esempio, appunto, all'arte, dove l'Essere si manifesterebbe attraverso quella apertura sull'Essere (l’Altro) che è l'opera d'arte.

L'arte è uno stupendo, nel senso che stupisce, altro da sé. Per quel tanto che sfugge a ogni spiegazione del pensiero razionale, è un Altro.

Si tratta di recuperare la consapevolezza che l'arte, l’artisticità, è anzitutto Altro: una esperienza dell'Altro.44

Questo luogo dove il pensiero razionale non può arrivare è il luogo che si definisce: il prerazionale, il sacro, il dio, la follia, l’inconscio, la Grande Madre, l’”Aperto”, il non senso, ecc.: cioè l’Altro dalla ragione. La riuscita artistica di un’opera non dipende tanto dalla volontà della ragione del singolo, quanto da questo Altro. Ciò è molto importante perché, nella produzione da parte dell’Autore e nella ricezione da parte dell’interlocutore della riuscita dell’opera, c’è la lucida coscienza della presenza dell’Altro, e di creare qualcosa insieme all’Altro.45 Da qui la dimensione trascendente il singolo (pertanto sacra e divina per gli antichi) di una operazione che la ragione da sola non può fare, e non può spiegare.

Allora ai filosofi dell’estetica si deve porre questa domanda: "perché guardi e non vedi?" In genere la filosofia, nella sua razionalità, interroga se stessa, "guarda" solo se stessa, non "vede" l'arte di cui si occupa.

Così fu la prima volta di Orfeo, quando si volse a guardare con l'occhio della curiosità razionale l'Arte/Euridice, perdendola. Eppure alle porte dell'Ade il cànide Cerbero l'aveva fermato, mostrandogli la contraddizione: se l'arte è Altro dalla razionalità, come può lo sguardo della ragione possederla senza farla morire?

Le forme della verità si vedono solo con la coda dell'occhio.

Se l'arte è un Altro, viene da altrove. Non si dice forse: "mi è venuta una idea", da questo altrove? Non è così che guardando una folla, o il cielo, o i treni, si può invece vedere con la coda dell'occhio una immagine di idea, e coglierla, e narrarla, prima che infedelissima ci sfugga? Non è per questo che Joyce e Sartre e Pessoa e Borges sedevano nei caffé di Trieste e Parigi e Lisbona e Buenos Aires a cogliere l'Altro che dall'altrove entrava e nell'altrove usciva, e imprevedibilmente se na stava, e poi di nuovo andava?

E' da questo altrove che l'Arte/Euridice si manifesta e ci parla.

C'è in giro il sospetto, da tempo, che sempre meno gli uomini riescano a innamorarsi dell’Arte/Euridice, sia come Autori, sia come interlocutori. Il disamore è implicito nella stessa proposizione: "l'arte è ciò che gli uomini chiamano arte". Se tutto può essere arte, l'arte non è niente. Niente di cui ci si possa innamorare. Ciò che noi facciamo, come mera espressione della razionalità della Tecnica, per noi ma da soli, senza rapporto con l’Altro, finisce per essere “niente” e distruggere la nostra identità.

Essere niente vuol dire: gli uomini non credono che l’arte possa ancora loro raccontare il mondo (la vita) da fuori. Il mondo (la vita) essendo ormai così complicato e confuso da non poter più essere raccontato da fuori della razionalità, cioè da quella parte di noi che trascende l’individuo, in quanto Altro come inconscio collettivo e memoria antropologica. Non un fuori metafisico o mistico, al di là del mondo (la vita), ma solo un fuori dalla razionalità, nel mondo (nella vita) di tutti.

Gli uomini non riconoscono più nell’arte l'Altro dalla propria coscienza individuale, e nell'opera d'arte l'immagine dell'Altro. Il loro Io si esaurisce tutto intero nel mondo individuale, nella mondanità del singolo. Per cui è solitudine. Senza identità.

Da decenni l'arte come Altro, la “cosa” nella distanza che dà identità, si perde. Come se i mortali non sapessere più amare Euridice, avere bisogno di lei.

 

2. 2. La perdita d’identità. La solitudine dell’Occidente.

“Da quando la scienza ha dimostrato che la terra è rotonda, e che non è vero che il sole gira intorno alla terra ma è vero il contrario, è come se tra i sensi e il mondo esterno si fosse rotto un patto secolare, e fosse subentrato il sospetto. Sì, è vero, i sensi mi dicono che la terra su cui cammino è piatta, ma in realtà non è così, essi mi ingannano. E se non è più vero quello che l’esperienza mi faceva apparire vero vuol dire che tra me e il mio corpo, tra me e me stesso, si è aperta una frattura incolmabile, e che a un io naturale, dotato di senso comune e di percezione immediata, è subentrato un io concettuale che continuamente lo contraddice e lo corregge. Resta comunque vero, però, che il primo è radicato dentro di noi sin dalla preistoria mentre il secondo è relativamente giovane, ha appena qualche secolo. E a volte mi pare che il millenario senso comune, soggiogato dall’appena secolare intelletto concettualizzatore, si ribelli in certe occasioni e lanci appelli e segnali disperati per affermare la sua verità evidente ma non riconosciuta contro quello che a torto o a ragione a lui sembra un sopruso, un’astratta e ingiusta sopraffazione.” (...)“Non c’è più nulla cui può appoggiarsi, nessun punto di riferimento sicuro: se dei sensi non ci si può più fidare si è obbligati, per arrivare a comprendere una verità, a seguire le vie complicate di concetti, che svolgono ragionamenti astratti, a volte difficili da seguire fino in fondo, e che non tutti sono in grado di fare. E dunque non solo tra me e me stesso si è creata quella frattura che gli psicanalisti hanno chiamato l’io-diviso (conseguenza di tale situazione), ma anche tra una categoria di persone, e anche tra gruppi di nazioni: quelli che hanno la possibilità di impadronirsi del sapere scientifico trasformandolo in tecnologia, e quelli che non sono in grado di farlo. Quando questo avviene vuol dire che l’uomo, l’uomo comune, non è più in grado di controllare le forze da cui è dominato, nemmeno con l’immaginazione. Tale è la situazione in cui ci troviamo oggi.” (R. La Capria, “La mosca nella bottiglia”, Rizzoli 1996, p. 7)

"Mentre Dio andava lentamente abbandonando il posto da cui aveva diretto l'universo e il suo ordine di valori, separato il bene dal male e dato un senso a ogni cosa, Don Chisciotte uscì di casa e non fu più in grado di riconoscere il mondo. Questo, in assenza del Giudice supremo, apparve all'improvviso in una temibile ambiguità; l'unica Verità divina si scompose in centinaia di verità relative, che gli uomini spartirono fra loro. Nacque così il mondo dei Tempi moderni, e con esso il romanzo, sua immagine e modello.

Intendere, come fa Descartes, l’io pensante come il fondamento di tutto, essere dunque soli di fronte all’universo, è un atteggiamento che Hegel, a giusto titolo, giudicò eroico.

Intendere, come fa Cervantes, il mondo come ambiguità, dove affrontare, invece che una sola verità assoluta, una quantità di verità relative che si contraddicono (verità incarnate in una serie di io immaginari chiamati personaggi), possedere dunque come una sola certezza la saggezza dell’incertezza, richiede una forza altrettanto grande.

Cosa vuol dire il grande romanzo di Cervantes? Sull’argomento si è scritto molto. C’è chi pretende di vedere in questo romanzo la critica razionalista del fumoso idealismo di Don Chisciotte. Altri vi vedono l’esaltazione di questo stesso idealismo. Entrambe le interpretazioni sono sbagliate, perché vogliono trovare alla base del romanzo non un interrogativo, ma un assunto morale.

L’uomo sogna un mondo in cui il bene e il male siano nettamente distinguibili, e questo perché, innato e indomabile, esiste in lui il desiderio di giudicare prima di aver capito. Su questo desiderio sono fondate le religioni e le ideologie. Esse possono conciliarsi con il romanzo solo traducendo il suo linguaggio di relatività e di ambiguità nel loro discorso apodittico e dogmatico. Religioni e ideologie esigono che qualcuno abbia ragione: o Anna Karenina è vittima di un despota ottuso, o Karenin è vittima di una donna immorale; o K., innocente, è schiacciato da un tribunale ingiusto, o dietro il tribunale si nasconde la giustizia divina e K. è colpevole.

In questo “aut-aut” è racchiusa tutta l’incapacità di sopportare la sostanziale relatività delle cose umane, l’incapacità di guardare in faccia l’assenza del Giudice supremo. Ed è questa incapacità che rende la saggezza del romanzo (la saggezza dell’incertezza) difficile da accettare e da capire.

Don Chisciotte partì per un mondo che si spalancava davanti a lui. Poteva entrarvi liberamente e tornare a casa quando voleva. I primi romanzi europei sono viaggi attraverso il mondo, un mondo che sembra illimitato. L’inizio di Jacques le Fataliste sorprende i due eroi già in cammino: non sappiamo né da dove vengono, né dove vanno. Si trovano in un tempo che non ha né principio né fine, in uno spazio che non conosce frontiere, al centro di un’Europa per la quale il futuro non potrà mai finire.

Mezzo secolo dopo Diderot, in Balzac, il lontano orizzonte è scomparso come un paesaggio dietro a quegli edifici moderni che sono le istituzioni sociali: la polizia, la giustizia, il mondo d