La Pantera di Prassitele

Riflessioni sul falso che avanza

Raffaele Simone

 

La pantera

 “Un giorno del 1° secolo a. C., corse per Roma la notizia che Prassitele, il grande scultore secondo il nostro gusto, era stato divorato da una pantera che gli serviva da modello”. Chi racconta questa storia è José Ortega y Gasset, in una bella pagina delle sue Meditaciones del Quijote (sez. 8 della “Meditazione preliminare”) in cui analizza il rapporto fra sensazione e arte. Da questa storia- della quale non sono riuscito a trovare la fonte classica- voglio cominciare.

 Prassitele, spiega Ortega y Gasset, “fu il primo martire” del “sensualismo” nella storia della rappresentazione. Ma oggi non esistono più martiri di questo tipo. Oggi, effettivamente, nessun artista potrebbe morire divorato dal suo modello. E tuttavia, la possibilità di essere divorati dal proprio modello si è presentata (anche se come possibilità estrema) agli artisti di ogni tempo.  Durante i secoli, a partire dall’epoca dei pittori  delle caverne di Altamira, che dipingevano bisonti osservandoli nella distanza, fino all’arte degli inizi del secolo XX, la pantera- cioè la realtà- è stata lì, di fronte all’artista che si adopera per cercare di plasmarla.

 Il carattere fondamentale di questa linea di rappresentazione visiva è stata, effettivamente, la presenza, premessa e fisica, di un oggetto. Pertanto, per la rappresentazione visiva, in principio fu l’oggetto.  E per “oggetto” si deve intendere  qualcosa di molto specifico: non il contenuto della coscienza o della immaginazione, non la rappresentazione di cose illusorie o visionarie, bensì l’oggetto puro e duro, solido, concreto; quella “cosa” contro cui possiamo imbatterci frontalmente.

 Oggi nessuna pantera mette ormai in pericolo la vita di chi produce rappresentazioni. Forse solo nel cinema o nel teatro l’attore potrebbe divorare il suo regista o anche il suo autore (anche se non so se l’autore può essere considerato in forma equivalente alla pantera di Prassitele, visto che l’autore non è il modello della  rappresentazione, bensì lo strumento vivente della stessa). Nelle rimanenti forme della rappresentazione visiva il rischio di morire  per mano (o per bocca) del modello è assolutamente nullo. Infatti, di fronte all’artista non c’è più nessun oggetto da rappresentare, non ci sono oggetti neppure nella distanza (come nel caso dei bisonti di Altamira); anzi al contrario, l’oggetto si è progressivamente smaterializzato fino a dissolversi completamente. 

 Nelle pagine che seguono cercherò di argomentare questa idea. Aggiungerò anche che questa tendenza alla dissoluzione dell’oggetto vero e premesso, molto importante nelle arti e nelle rappresentazioni visive del secolo XX, è stata ulteriormente stimolata e dopo portata al suo culmine dalla cultura digitale.

 

2. Codici “autografici” e “allografici”.

 Ci serve, anzitutto, una distinzione concettuale: quella che esiste fra arti allografiche e arti autografiche, proposta tempo fa da Nelson Goodman (Languages of art. Hackett Publisching Companies, New York 1976; trad. italiana...........). Per comodità del mio ragionamento, tradurrò questa distinzione in termini semiotici, opponendo codici “autografici” e codici “allografici”. Così dunque, un codice è allografico quando i suoi segni rappresentano qualcosa di diverso da se stessi; è autografico quando i suoi segni rappresentano solamente (o principalmente) se stessi. Su questa base si potrebbe, se avessimo tempo e spazio, costruire forse una nuova classificazione dei codici (e delle arti), una specie di nuovo Laocoonte, in sintonia con il Laocoonte settecentesco di Lessing. Invece, potrò solo fare qualche appunto essenzialmente classificatorio.

 La letteratura, per esempio, in quanto costituita essenzialmente dalla scrittura, è allografica: ciò che ci  interessa quando leggiamo un testo non è la grafia concreta dello scrittore,  non è il modo come la sua biro o la sua penna hanno prodotto il segno grafico, ma è quello che lo scrittore racconta, cioè, il senso (immateriale, invisibile) del suo discorso.

 Al contrario, la pittura è intrinsecamente autografica: ciò che ci interessa e ciò che cerchiamo è il tratto concreto del colore e la Gestalt che che è rimasta plasmata su quel supporto specifico di quel determinato artista. Certamente, di fronte a certi tipi di arte ci interessa anche ciò che quel tratto di colore rappresenta (il “tema” della pittura), ma quel tema lo vogliamo associato indissolubilmente a quel tratto.

 Tra le due categorie di codici esiste una differenza essenziale dal punto di vista materiale. I codici allografici esigono la riproduzione, anzi di più. le opere creata mediante gli stessi possono essere diffuse e conosciute solo a condizione di essere riprodotte. I codici autografici, al contrario, escludono la riproduzione e, in ogni caso, obbligano a trattare le riproduzioni come prodotti derivati, impoveriti e degradati.

 Pertanto, se voglio leggere un racconto di Pérez Galdós, per esempio, non mi sforzerò di ottenere il manoscritto autografo dell’autore (l’”originale”), ma  prenderò invece una qualsiasi copia stampata o, anche, fotocopiata (= riprodotta) di quel testo.  Per il lettore comune (anche se non per il filologo o il collezionista) l’opera letteraria non ha un originale fisico, ma ha solo riproduzioni di un originale che, come quello del Corano, si conserva nel cielo.

 Se, invece, voglio comprare una tela di Caravaggio o di Velásquez (supponendo che potessi permettermi una cosa così), non mi accontenterò di una fotografia o di un facsimile del quadro (cioè, di una sua riproduzione), ma invece cercherò precisamente l’originale, cioè, la tela che porta il colore che l’artista ci ha messo, quella stessa tela che è uscita dal suo studio. L’opera di pittura, effettivamente, ha un originale (e uno solo), rispetto al quale si misurano tutte le copie.

 In altri termini, alcuni prodotti semiotici vivono solo negli originali, altri vivono sono nelle riproduzioni (o magari nelle copie). Walter Benjamin aveva ragione quando osservava genialmente che nell’epoca moderna il proprio dell’opera d’arte è la sua riproducibilità. I grandi collezionisti del passato spendevano autentiche fortune affinché i buoni incisori gli facessero un catalogo illustrato della loro pinacoteca che servisse per possedere un ricordo ben preciso. L’incarico non era in assoluto insignificante, persino a Rubens fu richiesto questo lavoro! Oggi, al contrario, basta un buon fotografo per ottenere lo stesso risultato. Ma il catalogo delle opere non è la pinacoteca. Possiamo usare le riproduzioni per ricordare (rimemorare, commemorare) l’opera originale, o per prepararci a riconoscerla quando la vedremo faccia a faccia; ma non possiamo sostituire la visione del catalogo museo alla visione del museo.

  Questo tipo di esigenza non concerne solo il compratore dell’opera, ma anche l’osservatore: nessun visitatore di musei si accontenterebbe di veder ricomposta in una collezione una serie di fotografie delle opere che lo interessano. Il visitatore sa che, in condizioni normali, l’opera d’arte deve essere presente e non rappresentata; di più, esige quella presenza, e precisamente quella vera presenza (secondo la bella espressione di George Steiner).

 Così allora, la riproducibilità tecnica crea tuttalpiù cataloghi (o loro equivalenti), ma non crea originali. Non è casuale che la fotografia- della quale non possiamo neppure dire che produca originali, visto che il suo vero originale è il negativo, e così continuerà a essere fino a che la fotografia digitale arriverà a eliminare perfino questo oggetto-, sia considerata come lo stendardo stesso della riproducibilità tecnica.

 La allografia e la autografia hanno, ovviamente, diversi gradi. Il cinema, per esempio, è sicuramente allografico: non pretendiamo di vedere precisamente la copia della pellicola che è uscita dalle mani del montatore, invece ci accontentiamo con una qualsiasi copia della pellicola.  Quella copia non è una riproduzione della pellicola stessa, ma è proprio una sua copia (cioè, una riproduzione con lo stesso supporto fisico). Però ciò che sì pretendiamo è che la pellicola contenga suoni e immagini esattamente identici a quelli dell’originale.

 Anche la scrittura è allografica, ma qui le cose già non stanno nello stesso modo: non ci interessa, veramente, che El Quijote sia stampato in caratteri grandi o piccoli, in Garamond o in Century, in 16° o in 32°. Quello che vogliamo è che il testo sia completo e che sia esattamente identico a quello che Cervantes ha scritto; ma non fisicamente identico, bensì nella realtà linguistica delle parole che lo compongono.

 Pertanto, la referenza fisica deve essere rispettata nel cinema, ma può essere ignorata nella scrittura.  Il cinema è, infatti, meno allografico della scrittura.

 Un altro caso interessante ce l’offre la scultura. Se la scultura è fatta di un materiale irripetibile (marmo o legno), pretendiamo di vedere l’originale, così come è uscito dalle mani dell’artista. Solo in casi estremi, e specialmente in alcune tradizioni (come quella grecoromana), accettiamo che ci si offra una copia (o anche una varietà di copie) di un originale. Ma questo succede solo quando l’originale si è perso, se così non è vogliamo l’originale. Con la scultura in bronzo, naturalmente riproducibile, la distinzione tra originale e copia sparisce completamente:la statua di bronzo sarà allografa in un aspetto (rappresenterà l’originale) e autografa in un altro (rappresenterà se  stessa).

 La musica, per parte sua, offre un caso ancora più complesso. Il compositore (cioè il creatore della musica) non produce suoni, ma scritture e notazioni grafiche. Ma all’ascoltatore (a mano che non si tratti di un musicologo o di un filologo) quelle notazioni non interessano in assoluto. E non gli interessano, semplicemente, perché...di fatto non suonano.  Perché ci sia suono, effettivamente, è necessario che un interprete, leggendo e eseguendo quelle notazioni, generalmente riprodotte a stampa, emetta sequenze di suoni udibili, e che questi suoni abbiano una speciale relazione (che qui non menziono) con la notazione stessa.

 Nella musica abbiamo così una doppia trasposizione allografica: l’interprete non legge la notazione autografica dell’autore, ma una riproduzione della stessa; le proprietà fisiche della riproduzione sono per lui irrilevanti: nella pratica l’interprete è un lettore di simboli (così come il lettore di testi scritti). Ma da quei simboli deve ricavare suoni. Inoltre, i suoni che produce da quella notazione possono essere prodotti (da lui o da altri) e riprodotti infinite volte e in infinite versioni. In senso proprio, la musica si basa su un originale (il testo musicale scritto) che non interessa quasi a nessuno. La sua allografia è completa e totale.

 Nello stesso modo, le arti visive hanno diversi gradi di autografia.  E’ vero che la pittura e la scultura sono autografiche, ma per secoli hanno rappresentato due cose distinte: (a) se stesse, (b)un’altra cosa, qualcosa di esterno all’opera, che ha diverse denominazioni (“soggetto”, “modello”, “tema” dell’opera), ma che possiede una proprietà fondamentale: non sta nell’opera ma sta nel mondo esterno. Per questo secondo aspetto, pittura e scultura si avvicinano al cinema: tutti e tre rappresentano oggetti, sebbene il cinema sia allografico e la pittura e la scultura siano autografiche.

 Finisco qui il mio brano classificatore, anche se sarebbe interessante continuare a svolgerlo ancora di più (per esempio sarebbe interessante riflettere sulla natura del teatro: allografico? autografico?)

 

 3. Gradi di “realtà”

  In ogni caso, alcuni dei codici allografici (come il cinema e tutti i codici video e audio), così come di quelli autografici (come la pittura e la scultura e, in generale, quelle che tradizionalmente sono chiamate “le arti visive”, con la esclusione ovvia della architettura), hanno la specifica proprietà di rappresentare. Cercano di “imitare” (nel senso della mimesis degli antichi) e di mostrare all’osservatore oggetti esterni, cioè, cercano di formare analoghi della pantera di Prassitele. Non importa che questi oggetti siano lì davvero o che solo siano rappresentazioni nella mente dell’autore. La musica, per esempio, non rappresenta oggetti visivi, bensì evoca emozioni e associazioni partendo da rappresentazioni interne dell’autore. Pertanto anche la musica si basa su “oggetti”.

 Naturalmente, anche qui c’è una differenza semiotica importante. Per rappresentare una pantera, il pittore non ha bisogno di avere davanti a sé una pantera che ruggisca; può avere solo una sua fotografia o, semplicemente, una immagine mentale. Nessuno pensa, per esempio, che il Doganiere Rosseau (grande pittore di pantere e leoni) abbia veramente visto in qualche posto le fiere che ha dipinto: sebbene a noi sembrino veramente pantere, non pensiamo di fatto che siano pantere vere.

 Al contrario, un regista che voglia rappresentare una pantera, ha bisogno di una pantera vera, ha bisogno di una “cosa” che si chiama pantera.

 Possiamo, dunque, distinguere i seguenti “gradi di realtà”:

 l’oggetto reale (la pantera)

 >la riproduzione dell’oggetto (la statua di una pantera)

 >la copia della riproduzione (la copia di quella statua) 

>l’immagine mentale dell’oggetto (o della sua riproduzione) (la rappresentazione interna)

 >la rappresentazione dell’oggetto

 Il segno “>” indica in forma intuitiva che l’elemento che sta sopra ha sempre un grado più alto di “realtà” di quello che sta sotto. In altri termini, e per riprendere di nuovo la storia di Prassitele, la pantera (oggetto reale) può divorare lo scultore, ma la statua della pantera non lo può fare, così come (secondo la famosa osservazione dei logici) la parola “cane” non morde. In atri termini, il grado di “realtà” si riduce a misura che ci spostiamo dalla parte superiore fino alla parte inferiore della scala.

 Nonostante il su aspetto ingenuo, la scala che ho offerto sopra nasconde molta complessità, fino al punto che non abbiamo neppure termini veramente precisi per indicare ognuno degli scalini. Nella mia scala suggerisco, per esempio, di distinguere terminologicamente (ordinandoli per grado di realtà) l’oggetto, la sua riproduzione, la copia della riproduzione, l’immagine mentale e la rappresentazione. Ma nel linguaggio comune, e anche nel linguaggio tecnico della semiotica e della linguistica, non si fa alcuna distinzione concreta tra quelle entità.

 Si pensi, inoltre, nella ambiguità intrinseca della parola reale. Nell’uso comune, questo termine si può riferire indistintamente tanto all’oggetto vero (alla pantera di Prassitele, il primo scalino della scala) quanto alla sua riproduzione (alla copia). In effetti, se fossimo un poco rigorosi, dovremmo chiamare reale solo la pantera, quella che è pericolosa ed è viva, e non  la sua rappresentazione né la sua riproduzione.

 Non mi sento capace di sviluppare in dettaglio la discussione su questi temi nell’ambito della storia dell’arte. Non è il mio campo, e la passione che provo per i temi dell’arte non basterebbe per rendere significativo ciò che scrivo. Ma mi pare evidente che in buona parte della sua storia l’arte occidentale ha preteso di offrire rappresentazioni di oggetti reali. Con questo non voglio dire che la rappresentazione artistica sia, necessariamente, tutta realistica: cioè, non deve rappresentare necessariamente l’oggetto reale in modo iconico.  L’oggetto reale può anche essere rappresentato in modo evocativo, visionario, illusorio, simbolico o allegorico,  e può anche succedere che vedendo una pantera di Rosseau (o un leone di Rubens o di Tiziano) non arriviamo a capire cosa fa o cosa significa (cioè, a capire il suo senso); ma si tratta pur sempre di pantere e leoni. Insomma, l’oggetto reale è sempre presente come punto di partenza della rappresentazione.

 Ora dunque, in un determinato momento della storia della rappresentazione occidentale, l’importanza della pantera si è gradualmente indebolita. A ciò ha contribuito una lunga serie di innovazioni stilistiche e espressive, di invenzioni tecnologiche e mediatiche e di trasformazione del gusto. Fra loro includo, senza alcun tipo di ordine: la nascita dell’arte astratta nelle sue diverse correnti e manifestazioni; la esplosione della pubblicità e della communication nella enorme varietà delle sue forme; la nascita degli effetti speciali nel cinema e nel video; la diffusione mondiale dei fumetti; e, finalmente, la nascita della cultura digitale che, per ora, corona un gigantesco processo di eliminazione della pantera e apre una nuova fase.

 Il tratto specifico di tutti questi fenomeni consiste in ciò: questi non servono solo per simulare la forma di oggetti che non ci sono, ma anche per mostrare come reali oggetti inesistenti e che non possono di fatto esistere.

 In un certo senso, pertanto, l’arte occidentale ha percorso, a partire dal secolo XX, un cammino di graduale ma veloce oblio della pantera di Prassitele. Dopo la crisi della figurazione, in effetti, nessun pittore può essere divorato dalle sue macchie di colore e nessun scultore può essere schiacciato dall’oggetto di un mobile di Calder (magari possono, entrambi, essere schiacciati dalla tela o dal mobile stesso. Michelangelo, per esempio, si rovinò la vista perché, pitturando la volta della Cappella Sistina supino, gli cadeva pittura negli occhi. Qui ormai non si tratta del modello che divora l’artista, ma del materiale della rappresentazione che lo fa ammalare, ma evidentemente questo fatto non è di interesse semiotico). Il motivo è semplice: queste opere ormai non rappresentano un oggetto reale, si limitano invece a simularlo.

 Risulta singolare avvertire che la scienza ha percorso un cammino diverso. Alle sue origini si occupò di rappresentazioni immaginarie o perfino visionarie dell’oggetto reale, e solo molto lentamente, nel corso della sua evoluzione, si è venuta spostando verso la osservazione dello stesso. In questo processo, che ha proceduto con una lentissima gradualità (e che ha avuto bisogno di non meno di due mila e cinquecento anni), la scienza ha dovuto, prima di tutto, accettare il principio stesso che potesse esistere un oggetto reale, con sue caratteristiche, indipendenti dall’osservatore e anche indifferenti alla sua presenza. Di fatto, la rivoluzionaria trasformazione che accade nella storia della scienza quando arriviamo a Bacon e Galileo consiste, precisamente, in questo: la scienza comincia finalmente a occuparsi di oggetti reali, di “esperienze sensate” (come diceva Galileo), e non di rappresentazioni o visioni.

 Le traiettorie della scienza e dell’arte si sono sviluppate, dunque, in direzioni opposte: la rappresentazione visiva è partita dall’oggetto “reale” per dopo abbandonarlo gradualmente; la conoscenza scientifica, invece, è partita dalla rappresentazione di un oggetto immaginario (cioè di una entità con un basso grado di realtà) per avvicinarsi all’oggetto reale. Se ci riferiamo alla scala che ho proposto prima, l’arte è andata dall’alto in basso; la scienza dal basso in alto.

 Ora, per ciò che concerne le rappresentazioni visive e uditive, ho detto prima che la cultura digitale costituisce per ora la fase finale e culminante del processo di dissoluzione dell’oggetto, il processo che chiamo di de-realizzazione.

 

 4. Il digitale

 Quali sono i tratti della cultura digitale o, così come io preferisco dire, del digitale? Ho dedicato a questo tema un libro (La terza fase: Forme di sapere che stiamo perdendo, Laterza 2000), e non desidero ritornare su questa problematica nei dettagli. Voglio solo sottolineare qui alcuni aspetti che mi sembrano essenziali per il nostro problema.

 Dal punto di vista di un osservatore non specializzato il computer è capace principalmente di due cose: far vedere tutto quello che si può vedere (fin’ora solo su una superficie piana) e far udire tutto quello che si può udire. Pertanto, il computer è, per il momento, bisensoriale, dato che si dirige solo alla vista e all’udito.

 In questa sua capacità, il computer può essere visto come uno straordinario potenziamento della esperienza, dato che permette l’accesso a percezioni (visive e auditive) e a conoscenze che, in altro modo, non saremmo mai in condizioni di raggiungere.  Inserendo un dischetto in un computer possiamo, effettivamente, vedere e ascoltare (e anche manipolare) un’enorme quantità di cose che non sono alla nostra portata, o che anche non potremmo mai incontrare davanti a noi veramente, e quindi non potremmo,  senza di esso, né vedere né ascoltare.

 Ma- e questa è la cosa più importante-le cose che il computer fa vedere e ascoltare non sono rappresentazioni di cose reali: non sono assolutamente la pantera e non hanno necessità di esserlo. E neppure sono la rappresentazione di una pantera reale. Se veramente vediamo una pantera sullo schermo di un computer, non è detto (anzi, è improbabile) che essa derivi dalla fotografia di una vera pantera.  E inoltre, i movimenti che la pantera fa sullo schermo, i suoni che emette, l’ambiente in cui si muove possono essere perfettamente - e generalmente lo sono - elaborazioni elettroniche di tipo artificiale. In definitiva, la pantera elettronica può essere completamente inesistente, e può fare sullo schermo cose che la pantera reale non potrebbe assolutamente fare.

 Ciò significa  che il computer non si limita a rappresentare oggetti reali (il primo scalino della scala che ho proposto prima), bensì che crea oggetti (visivi e auditivi) sia attraverso la manipolazione di rappresentazioni di oggetti reali, o- ed è quello che qui più ci interessa- mediante la creazione di  rappresentazioni  (che sembrano vere) di oggetti inesistenti, cioè, rappresentazioni che sono tecnicamente false. E’ evidente che utilizzo qui il termine falso in senso stretto, però non c’è dubbio che anche in questo senso il termine falso conserva una certa parentela con la sua accezione globale, per la quale il falso costituisce il punto di partenza dell’inganno. Di ciò parlerò più avanti.

Dunque il computer offre un succedaneo (un Ersatz) delle cose che si vedono e che si odono. Con il suo affinamento, la tecnologia informatica è riuscita a emulare una enorme varietà di oggetti reali.  Ne indico alcuni: le immagini visuali dei videogiochi (una categoria di capacità che, non per caso, è nata non in una fabbrica di giocattoli ma nei laboratori del MIT), le immagini della ricostruzione di oggetti inosservabili (l’antica Pompei, la città etrusca, la struttura dell’atomo), i suoni degli strumenti musicali più diversi, così come sono simulati dalle tastiere elettroniche, la sintesi della voce umana, e così via.

 Questa lista può crescere ancora, e chissà quante e quali novità in più ci mostreranno gli sviluppi futuri del digitale. Ma ci rimane un punto essenziale: all’inizio, il digitale ci ha offerto integrazione, arricchimento e potenziazione del reale; dopo, con l’esplosione del computer imaging e delle tecnologie della simulazione, ha messo in marcia un processo che ci ha portato verso una nuova regione attraverso due paesaggi fondamentali. Ambedue i paesaggi mi sembra che sono già in marcia:

 (a) la fase della sostituzione: le cose che il computer fa vedere e udire sembrano reali, ma non lo sono.  Pertanto il digitale prende gradualmente il posto del reale, e lo sostituisce;

 (b) la fase della barriera: lo cose che il digitale mostra formano una barriera insuperabile rispetto al reale, cioè impediscono l’accesso al reale, lo demoliscono, offrendo all’utente una fortissima impressione di realtà surrogata.

 La prima meta è stata raggiunta dalla galassia dei videogiochi, che costituiscono un tema molto più importante di quanto possa apparire a prima vista, dato che implicano e modellano la vita fisica e mentale di milioni di giovani e di bambini in tutto il mondo.  E’ vero anche che non è mancato chi ha trattato di argomentare che i videogiochi sono una formidabile occasione per ampliare conoscenze (è quello che pensa per esempio Antinucci, F: Computer per un figlio, Laterza, Bari-Roma 1999). Ma non è singolare, al contrario, l’opinione secondo la quale questi, a differenza dai giochi reali, allontanano dal contatto con le cose invece di favorirlo, e portano a un’“estasi inquietante” (Stoll, C.: High Tech Heretic: Reflections of a Computer Contrarian. Anchor Books, New York 2000; Finkielkraut, A. -Soriano, P.: Internet. L’inquiétante extase. Mille et Une nuits, Paris 2001).

 La seconda meta è stata raggiunta, invece, con la diffusione delle simulazioni digitali, che permettono di esplorare mondi inesistenti, inaccessibili o frammentari. Anche qui sono numerosi coloro che sostengono l’immensa ricchezza potenziale delle simulazioni digitali (Negroponte; N.: Being Digital. Vintage Books, New York 1996; e, dopo, Parisi, D.: Mondadori, Milano 2000, e Simulazioni. La realtà rifatta al computer. Il Mulino. Bologna 2001) e della correlativa insufficenza della “realtà reale”.

 Il reale- l’insieme “duro” degli oggetti e delle cose, quello in rapporto al quale parliamo di “senso del reale” e di “contatto con la realtà”- è descritto da questi analisti come meno ricco, prezioso e interessante della realtà simulata. Credo che solo nella tradizione mistica si possono trovare affermazioni di quel tenore.  Negroponte ha osservato che facendoci interamente digitali riusciremo a liberarci del peso della realtà fisica (lenta, materiale, rumorosa) per concentrarci, invece, nella realtà virtuale (veloce, immateriale e silenziosa). Per parte sua, Parisi si è lanciato a dire che “le immagini digitali si sono trasformate in competitive rispetto al linguaggio” dal punto di vista della ricchezza di informazioni che coinvolgono.

 Le prese di posizione teoriche alla Negroponte hanno una corrispondenza molto precisa nella produzione digitale concreta. In effetti, un aspetto essenziale del prodotto digitale (video e audio) è il seguente: offre uno speciale effetto di intensificazione della realtà. Le cose che si vedono e si ascoltano non solo sembrano vere, ma anzi sembrano più che reali, più vere che nella realtà. Tutto è troppo sullo schermo del computer: il colore è troppo colorato, il suono risuona troppo, le forme risaltano in eccesso... Questi effetti sono esaltati nei videogiochi: le prospettive sono drogate, i movimenti del punto di vista non hanno la fluidità e non seguono gli itinerari dei movimenti di un osservatore vero ma invece seguono curiose piste topologiche. In definitiva, ciò che lo schermo del computer offre è più reale de reale: è una realtà troppo reale.

 Per questi motivi, alcuni (fra i quali annovero me stesso) considerano che la simulazione digitale è indispensabile in campi nei quali deve supplire il contatto con realtà irraggiungibili o non rappresentabili in altro modo, ma costituisce un formidabile motore di de-realizzazione e di allontanamento dalla realtà per chi lo utilizza anche per simulare (cioè sostituire) l’oggetto reale accessibile.

 Una rappresentazione lacerante dell’effetto di quelle che prima ho chiamato “la fase della sostituzione” e “la fase della barriera” la troviamo in film recente, dove si rappresenta il cambiamento della realtà, anche la realtà sociale, in iperrealtà digitale. Mi riferisco a Truman Show, il magnifico film di Peter Weir (1999) che racconta la storia di un uomo che crede di vivere una vita reale e, in fondo, scopre che tutto, nella sua vita, era falso, cioè, simulato: moglie, amici, lavoro, tutto era stato costruito per essere ripreso in ogni momento da una candid camera (del tipo Grande Fratello).

 Per quanto mi riguarda, credo che la digitalizzazione del mondo no costituisce, di fatto, una crescita della esperienza e della vita, ma che invece, al contrario, è destinata a essere, e in parte già lo è, la sostituzione di un mondo reale con un mondo tecnicamente falso. Nessuna pantera potrà divorarci, ma ci convertiremo gradualmente in una moltitudine di Truman, incapace di distinguere il reale dall’irreale, e forse anche desiderosa (proprio come Truman) di rimanere nel mondo irreale della digitazione.

 

5. Crescita della realtà o de-realizzazione?

 Per parte mia non credo assolutamente che la digitalizzazione del mondo sarà la nostra salvezza, né che in essa tutto sarà interessante e significativo. Al contrario, l’impressione che mi sono formato riflettendo sulle questioni di cui si occupa il mio libro è quella che ho chiamato la “Terza Fase”- cioè, la diffusione della conoscenza e della comunicazione per mezzo del digitale-; è la più formidabile barriera che si sia mai  presentata di fronte al contatto con la realtà. Con un computer adeguatamente fornito posso visitare Roma senza neanche calpestare il suo suolo, sommergermi nell’oceano senza  bagnarmi, competere in un gioco anche pericoloso senza farmi neppure un graffio. E’ tutto questo reale, o non si tratta piuttosto di qualcosa adatto a una situazione di pura emergenza, nella quale non possiamo avvicinarci al reale e dobbiamo accontentarci del virtuale?

 A me sembra che le tecnologie digitali, e sopratutto i loro riflessi sulla mentalità e le forme del pensare, sono una forma drammatica e drastica di allontanamento dalla realtà: sono, in altri termini, una forma di de-realizzazione, un modo per sostituire il reale con il non-reale, per simulare cose che non si possono o non si vogliono fare.

 Il fatto di rapportarci con immagini digitali più che con esseri, entità e cose fisiche, non implica una crescita della realtà. Il nostro fare, la nostra attività, si ridurrà solo a una sezione in cui si agisce su una tastiera  e si dà una sbirciata a uno schermo? Penso a questa possibilità con orrore, ma la vedo chiaramente nel nostro futuro prossimo, e il mio libro si riferisce  anche a questa prospettiva.

 Per questo, oltre alle varie abilità concrete che si perdono in conseguenza delle mutazioni che ho prima descritto, si perderà una cosa ancora più fondamentale: il coinvolgimento nel reale, nel mondo fisico e la interazione sociale, il contatto con le persone, con “ciò che è”, quel minimo coinvolgimento che il progresso sociale e culturale ci ha permesso di conquistare.

 Quella de-realizzazione si diffonde con tale rapidità e tanto capillarmente persino fuori dal digitale, che anche i nostri comportamenti quotidiani sono impregnati di essa.  Marc Augé ha scritto (in vari suoi libri, come Non-luogo. Per una antropologia della sottomodernità. Seuil, Parigi 1992) riflessioni profonde e inquietanti su un tipo di oggetti che ha chiamato “non-luoghi” (non-lieux), ossia i mille tipi di luoghi (il cui emblema più vistoso e evidente è Disneyland) in cui il falso è tanto penetrante e ubiquo da sostituire il vero senza che possiamo distinguerlo.

 In un non-luogo, per empio, possiamo trattare un signore vestito da Paperino come se fosse davvero Paperino, magari dimenticando che lo stesso Paperino non è un animale vero, ma ...un non-animale! Nello stesso modo il mondo della conoscenza digitale può essere un non-mondo, popolato da strani Paperini virtuali, da cose non- vere che aspirano a essere reali (come i sinistri disegni animati di Roger Rabbit) e a convincerci che lo sono.

 Come se fosse poco, si perde la capacità di prendere coscienza della membrana invisibile che separa il reale dal non-reale, sopratutto in alcuni livelli socioculturali e in alcuni ambiti concreti. Ci incamminiamo, in questo modo, a dividerci in due tipi di persone: quelli che riconoscono quella membrana e continuano a distinguere le due cose – il reale e il non-reale - e gli altri, convertiti in utenti di “entità digitali”, dei mille Paperini che li circondano, e con i quali parleranno tranquillamente e andranno magari in vacanza (virtuale) senza accorgersi che qualcosa non funziona...

 Questi fenomeni si osservano più concretamente nell’ambito della educazione. Non sono pochi coloro che pensano che il computer, sopratutto se connesso alla rete, è uno dei fattori più poderosi per colmare il divario fra l’educazione attuale e la società moderna. Ho già menzionato Nicholas Negroponte, e la sua profezia che il “digitale”, essendo immateriale, silenzioso e potente, occuperà presto il luogo di tutto ciò che è “fisico”, che, al contrario, è materiale, lento, rumoroso e inefficace. Molti ministri della educazione, in tutto il mondo, sono convinti che un computer è ciò di cui abbiamo bisogno per cambiare l’insegnamento e l’educazione. (Per ora al raduno manca solo, mi sembra, il Vaticano: non risulta che il Papa, fra tutti i giubilei che sono avvenuti nell’anno 2000, ne abbia convocato anche uno concreto per la gente di Internet. In ogni modo, l’idea che il computer e la rete sono una via di aiuto nella difficile traversata verso il moderno e, sopratutto, che possano condurre l’insegnamento in un porto sicuro è molto diffusa.

 Al contrario, mi sembra che si impongono alcune considerazioni:

 1. Imparare con computer non è in assoluto divertente, come si pensa generalmente, così come non fu divertente imparare con quella strana cosa che chiamiamo “istruzione programmata”. Piuttosto al contrario, può essere una pratica noiosa e ripetitiva.

 2. I computer non avvicina alla realtà, allontana invece da essa, come lo dimostra il fatto che i chimici e i biologi veri sì usano il computer nel loro lavoro, ma con il computer non fanno investigazioni e ancora meno scoperte. La scienza fatta al computer elimina qualsiasi senso di esplorazione.

 3: Fin’ora il computer è indubbiamente il principale nemico del libro e della lettura, nonostante la sua apparenza di “oggetto fatto per leggere e scrivere”, e stimola in vari paesi (specialmente negli Stati Uniti, dobbiamo aggiungere) a creare biblioteche intere....senza libri, cioè convertite in pure mediateche, in puro digitale. Ciò mi sembra un grave danno, in quanto ancora non si conosce un deposito di conoscenze più efficiente del libro.

 4. Il computer isola le persone invece di avvicinarle e condurle a collaborare fra loro. E’- per così dire- una formidabile scuola di solitudine organizzata. Ognuno sta davanti al suo monitor, invia messaggi digitali a gente lontana, mentre il mondo collettivo va in rovina e, allo stesso tempo, la inondazione di simboli visivi produce paradossalmente - nonostante la sua ricchezza - un impoverimento della esperienza. Per questi motivi, nessun luogo è meno appropriato per un computer che la scuola infantile.

 5. Nonostante la sua apparenza, il computer è nemico di molte forme di apprendimento. Per esempio, è nemico delle matematiche, infatti uccide il gusto per la scoperta e per la ricerca di soluzioni. Per usare la brillante formula di Clifford Stoll- un drastico avversario del digitale-, con il computer “il problem-solving si trasforma in puro button pressing.”

 6. Il computer è nemico del docente e in generale della vita collettiva. Di conseguenza, studiando con il computer, può essere che alla fine del semestre “uno abbia collaborato con altri studenti, però non è capace di riconoscere il loro volto” (Stoll). In una scuola digitalizzata, i professori sono solo appendici superflue e forse di troppo della ciber-scuola.

 In conclusione, la digitalizzazione del mondo mi sembra veramente un Giano bifronte. Da un lato ci permette cose, anche progetti che non ci sarebbero stati possibili in altro modo. Dall’altro, sta portando a termine una graduale e implacabile separazione fra l’uomo e l’oggetto reale, fra l’uomo e la “realtà” delle cose. Le trasformazioni che sta inducendo nella mentalità si stanno già ampliamente studiando. Alcune sono state rese manifeste recentemente, per quanto concerne la lettura e la scrittura, da Emilia Ferreiro nel suo bellissimo Passato e futuro dei verbi “leggere” e “scrivere” (Fondo de Cultura Economica, Ciudad de Mexico, 2001). Altre sono più globali, e possiamo riassumerle così:

 a. Una spettacolare accelerazione del ritmo delle nostre azioni, incluso quando queste non implicano l’uso del computer: qualsiasi tipo di attesa (in una fila, davanti a uno sportello, in una fermata di autobus che ritarda) ci sembra insopportabile, perché il digitale ha fatto penetrare nella mente di tutti il principio del “tempo reale”, per il quale qualsiasi cosa deve succedere immediatamente.

 b. Una straordinaria tolleranza, praticamente una resa incondizionata  alla iperrealtà digitale (la realtà “drogata” di cui parlavo prima, che si impone specialmente nel visivo e nell’uditivo, ancora di più nell’audio e nel video che informano la vita attuale). La iperrealtà digitale, la trasformazione delle cose in pixel, ormai quasi non ci fa nessun effetto.

 c. La prepotente necessità di essere collegati, ma non nel senso di essere collegati con altri uomini come noi, ma collegati a una fonte di informazione audio-video, fino al punto che molto pochi sono disposti a essere isolati, cioè, soli con se stessi.

 d. Un potente effetto di zapping mentale, per il quale si può passare da una esperienza o da una percezione a un’altra semplicemente premendo un “pulsante” mentale, come se la nostra attenzione potesse essere rappresentata metaforicamente da un telecomando.

 Si vede facilmente che tutti gli orizzonti del simbolico (la rappresentazione visiva, la creazione e diffusione dei suoni, le relazioni fra le persone, la costruzione dell’ambiente fisico, la educazione e lo sviluppo dell’infanzia) sono profondamente lesi  dalla sparizione della Pantera.

 Si vede anche che gli orizzonti che si stanno aprendo in questa che ho chiamato Terza Fase sono completamente diversi  da quelli in cui l’Occidente ha sviluppato i suoi fondamenti. Abbiamo imparato a credere in un modo in cui si protegga e si arricchisca il contatto con la realtà, non la realtà simulata, bensì quella vera, la realtà fisica, che necessita spirito di osservazione e di scoperta, movimento, manipolazione, contatti (non connessioni). In definitiva  un mondo nel quale la pantera possa ancora essere pericolosa.

 Oggi la pantera (digitale) ruggisce ancora, ma ormai non morde.