Appunti per una discussione

Renato Calligaro

 

Questi appunti, provvisori quanto approssimativi, dovrebbero servire a riprendere la riflessione sull’arte ancora una volta dall’inizio. Sappiamo tutti che a cavallo tra 800 e 900, con le avanguardie, è “successo qualcosa”. C’è chi dice che l’operazione arte (millenaria produzione di narrazioni con qualità di artisticità) è “progredita” in un’“arte nuova”, c’è chi dice invece che l’operazione arte non ha affatto un progresso (come non l’hanno le operazioni amare, ricordare, divertirsi, inventare, pensare secondo logica, far di conto, sentire l’armonia, il bello, il bene, il giusto, ecc., ecc.), per cui ciò che è “successo” (che sta “succedendo”) non è che la sostituzione della operazione arte con tutt’altra operazione (che porta lo stesso nome abusivamente). Non è una questione da poco: se l’operazione arte è costitutiva dell’homo sapiens sapiens (come bisogno fondamentale), il suo venir meno (dopo 30, 40.000 anni) non può rappresentare un semplice evento nello sviluppo storico, bensì una vera mutazione antropologica. Una risposta si può trovare solo in uno studio interdisciplinare che, prima che la sociologia e la storia, coinvolga la psicologia, l’antropologia, l’archeologia, la biologia ecc.

Il testo che segue, più che la premessa a un simile studio, è ancora solo una provocazione, con i suoi eccessi e approssimazioni: “mettiamo che sia andata così”.

 

Per milleni l’evoluzione è stata lenta. Poi, per motivi che ancora non sappiamo (ma di tirare in ballo Dio non è proprio il caso), in un posto dell’Africa una scimmia scende dagli alberi e si mette a camminare, la testa eretta rivolta al cielo e non più giù a frugare nella Madre terra. Per cui non è più costretta a consumare le estremità anteriori usandole come piedi: esse sono ormai molto preziose per fare mille altre cose: non sono più piedi, sono mani.

Le mani diventano la tecnica, nel senso che ora non sono solo organi con funzioni naturali (toccare, prendere, sollevare, respingere...), ma imparano a fabbricare strumenti artificiali, inesistenti in natura: cioè tecnici. Il cervello è costretto ad adeguarsi alle possibilità offerte dalla posizione eretta (le mani sono libere di fare segnali) e alle conseguenze della posizione eretta (la laringe si è abbassata permettendo di vocalizzare anche la a, la i e la u, e quindi di esprimere un linguaggio articolato). Anche questo linguaggio speciale articolato di gesti e parole è uno strumento artificiale: cioè tecnico. Dunque l’ominide è una avventura tecnica.

Come la mano inventa strumenti artificiali (oltre se stessa come strumento naturale diretto), così la laringe abbassata inventa strumenti artificiali, parole del linguaggio articolato (oltre se stessa come strumento naturale diretto: linguaggio non articolato).

Nella evoluzione di questi primati questo è un punto di non ritorno. Se prima una specie poteva anche regredire e scomparire, completamente posseduta dalla natura, da ora questa specie è irreversibilmente destinata a possedere la natura. In quanto ha una tecnica. Ha ormai un destino. Il suo destino è la tecnica.

Quando si dice: “il destino dell’uomo è la tenica” si possono intendere due cose. Primo, semplicemente che il destino dell’uomo è l’uomo: intelligenza e tecnica si potenziano a vicenda in un processo evolutivo sempre più rapido, lineare, irreversibile, inarrestabile. L’ominide diventa uomo. L’uomo è tale in quanto è tecnico.

Secondo, che il destino dell’uomo è la tecnologia, che vuol dire invece tutt’altra cosa, cioè il dominio sempre più forte degli strumenti tecnici artificiali sull’uomo, al punto da indurlo verosimilmente in una mutazione da homo sapiens sapiens (h.s.s.) in un altro ominide.

 

Infatti questo h.s.s. non è solo tecnica, ma un “equilibrio dinamico” fragile fra tecnica e natura, la quale natura è pur sempre l’origine, la sua “casa”. Malgrado le crescenti tensioni prodotte dalla cultura, l’organismo h.s.s. si è mantenuto fin’ora in quell’equlibrio. Ma la tecnologia non è la tecnica, che è costitutiva dell’uomo, bensì un qualcosa che dall’uomo diventa sempre più autonomo nel suo autopotenziamento, e a cui l’uomo, che in teoria è chi in ultima istanza dovrebbe decidere, in pratica non sembra adeguato a resistere. Per cui, se la pressione delle tecnologie e la tensione culturali dovessero aumentare oltre un certo punto, avverrebbe la rottura dell’equilibrio: o l’estinzione violenta o la mutazione in un altro ominide.

Camminare a testa alta guardando il cielo, cioè pensare e inventare tecniche (pensiero razionale), può indurre (quando venga meno la “presenza” costante, materna o matrigna, ma comunque sicura garanzia di una appartenenza forte, della Grande Madre natura) in una spaventosa vertigine, in una insopportabile dissolutrice solitudine. Infatti la tecnica, pur costitutiva dell’ominide, comporta un trauma continuo, la continua esposizione alla perdita della identità.

Infatti la tecnica progredisce.

Mentre la natura per se stessa non muta, è ciclica e sempre uguale e “sicura” nel bene/male, la tecnica non può non potenziarsi e quindi progredire, e in ciò trasformare se stessa e la natura e l’ominide. Da queste traformazioni si generano le differenze. L’ominide è costretto ora a vivere nelle differenze, cioè nella cultura progressiva. Ora è homo sapiens. Non è più un individuo che automaticamente si identifica per eguaglianza con gli altri e la natura, ma è in gran parte un individuo costretto a inventarsi e salvaguardare l’identità per differenza. Cioè: io sono io, e tanto più sono io, quanto più sono differente dall’altro da me: la consapevolezza dell’Altro rafforza la mia identità. Si tratta di una identità culturale, affascinante ed esaltante, ma faticosa e rischiosa.

Questo ominide non è dunque più un individuo “sicuro” nella sua nicchia ambientale, nella sua eguaglianza con gli altri individui della stessa specie, come fra gli animali. Ora, ogni individuo diventa un differente: e la differenza dipende dal suo uso della tecnica, dalla sua cultura. L’uso della tecnica crea le differenze: fra individui, fra individui e gruppo, fra individui e natura, fra individui e oggetti e alimenti e interessi. Ciò che è bene per uno, può non essere bene per un’altro.  Ciò che prima per uno era grande, ora può essere piccolo. Ciò che a uno serve, all’altro può nuocere. Le cose non sono più sempre le stesse, come per gli animali. Le cose mutano rispetto a una coscienza che muta. Tutto diventa mutevole, instabile. Cioè relativo.

Dunque il relativismo è costitutivo di questo ominide. La coscienza del relativo è stata prodotta dall’uso della tecnica (delle mani e del linguaggio articolato), cioè dalla intelligenza razionale. La razionalità governa ed è governataa dalla tecnica: è relativista.

Ma il relativismo genera angoscia, in quanto mette continuamente a repentaglio l’identità. Questa identità conscia, per differenza dall’Altro, è dunque fragilissima, sottoposta al continuo pericolo della dissoluzione (se tutto muta, per effetto della tecnica, tutto cos’è? Io cosa sono? Se io muto sempre, io non sono niente).1 Allora é forse per questa sua facoltà tecnica di mutare e mutarsi, che i suoi istinti animali si indeboliscono, per cui egli finisce per perdere la nicchia ambientale (che invece protegge gli animali) e la natura diventa per lui “disordine”. Ogni animale vive in una nicchia ambientale, dove funzionano i suoi istinti di sopravvivenza programmati geneticamente per reagire ad alcuni precisi segnali biologici (sessuali, di pericolo ecc.), mentre fuori, il resto della natura, è solo rumore di fondo, indistinto e non interessante. L’uomo invece (Gehlen) non vive in una nicchia ambientale di definiti segnali, ma è costretto a individuare e distinguere sempre ex novo il segnale dal rumore, partendo dall’indistinzione e dal “disordine” (per lui) della natura. Per cui è lui stesso doversi costruire un ordine immutabile, formare il mondo (Heidegger) che è la sua “seconda natura”.

Dunque, per l’homo sapiens, una dimensione di immutabilità è tanto necessaria e quindi costitutiva, quanto è costitutiva la dimensione progressiva della tecnica mutevole. Allora l’immutabile va conservato (come natura) e va inventato (come psiche). Si tratta qui dell’Altro che dà identità, ma come invenzione della coscienza, e non più solo come l’Altro immutabile della natura (il sole, il giorno, la notte, le stagioni ecc., o il morire, crescere, invecchiare, ridere, mangiare, ecc., ecc.). Si tratta  dunque di qualcosa che non sia relativo pur appartenendo alla coscienza, una invenzione della coscienza: ecco allora l’invenzione (intuizione) della trascendenza, di qualcosa che profondamente tutti insieme sentono.

Se per me questa è una mela, e per te anche è una mela, e per tutti è ancora una mela, questo essere di questa cosa una stessa mela per tutti è qualcosa che trascende le singole mele, diventa qualcosa di meraviglioso (nel senso proprio che desta meraviglia), perché diventa qualcosa di più che la somma di tutte le mele; diventa una astrazione: l’idea, il simbolo della mela. Una trascendenza (che trascende tutte le singole mele).

L’idea della mela non è la somma, che esiste in natura, di tutte le mele (che si contano nel pensiero razionale), ma è il simbolo di tutte le mele, che non esiste in natura, ma solo nella coscienza di tutti (e che si sente nel pensiero simbolico). E’ cioè una trascendenza, una idea/simbolo, un immutabile universale. Ci sono le cose, e ci sono i simboli delle cose. Le cose mutano, i simboli non mutano: restano simbolo di qualcosa finché durerà il pensiero (sia che le cose siano tre, sia che le cose siano milioni).

Questo simbolo/trascendenza è, in fondo, la divinitàdivinità. La divinità è una entità astratta, un simbolo (gli dei delle religioni vengono molto dopo) che nasce dal singolo ma supera il singolo, in quanto ogni singolo si riconosce (acquista identità) in un simbolo comune per tutti. Il singolo è un Io e tutti sono Io come quel singolo rispetto all’idea della mela, simbolo di tutte le mele per tutti gli uomini. E pertanto quel singolo che sente il simbolo (della mela) è ora di più di se stesso. E’ tutti, e può essere disposto a dare la vita per questo suo essere di più.

Dunque, se il pensiero razionale della tecnica relativizza, e crea la differenze, e apre contraddizioni, il pensiero simbolico unisce (symballosymballo, legare), concilia le contraddizioni (che il pensiero razionale non può conciliare).

In questo equilibrio dinamico di pensiero razionale e pensiero simbolico si stabilizza ora un organismo che si chiama homo sapiens sapiens. che ha circa 40.000 anni e che siamo noi.  Il pensiero simbolico non è allora un pensiero arretratopensiero arretrato rispetto un pensiero razionale. Non è un pensiero primitivo rispetto a un pensiero razionale più evoluto. Pensiero simbolico e pensiero razionale convivono contemporanei, nella stessa funzione: la sopravvivenza della specie homo sapiens sapiens (per questo al pensiero simbolico non interessa che 2+2 faccia 4, può anche fare 5, se ciò serve alla sopravvivenza). I due pensieri sono ugualmente costitutivi di tale ominide.

 

L’invenzione della trascendenza è dunque solo la risposta a un bisogno  di sopravvivenza dell’uomo/tecnica. Essa non è relativa, non è soggetta a cambiamento, è costitutiva di questo sapiens sapiens, cioè di tutti gli h.s.s. Ma essa va inventata, coltivata ogni giorno. Si tratta della invenzione del sacro, che vuol dire “separato”, cioè di una sfera di pensieri che sono al di fuori del controllo della ragione, che “si sentono” come “Altro” dall’individuo, come qualcosa di indiscutibile, che non può essere messo in discussione. Per cui si inventano i riti, che servono appunto alla negazione reiterata, costante del disordine. I riti riproducono, quale “esempi”, l’invenzione del mondo dell’uomo, partendo dal caos verso la forma. Sono narrazioni estetiche che mettono in scena l’invenzione del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto, del bello e del brutto, ecc., ecc. (da queste narrazioni estetiche deriveranno poi le narrazioni artisticche, le opere d’arte).2 Al di là delle loro differenti forme secondo le culture nella dimensione della storia, sono universali nella loro funzione di formare, dare una forma al caos, inventare un ordine, nella dimensione antropologica.

Sono dunque trascendenti molte operazioni che l’h.s.s. ha inventato appunto per essere tale (fare il suo mondo), come parlare, pensare logicamente, far di conto, e cantare, narrare nei diversi linguaggi specifici (disegno, suono,  segni, mimo, danza, ...), giocare, ecc. Ciò che muta nella storia e secondo le culture sono solo i modi di queste operazioni, ma le operazioni per se stesse sono antropologicamente “eterne”, nel senso che durano quanto dura l’uomo, poiché la loro scomparsa equivarebbe a una mutazone dell’h.s.s. in un altro ominide. Perciò l’h.s.s. sa che, per la sua sopravvivenza come specie, il bisogno di trascendenze, degli universali immutabili, va coltivato ogni giorno (così l’invenzione di Dio, come sanno i credenti, va coltivata, ritualizzata ogni giorno).

 

Ma fra queste trascendenze qui ci interessa l’operazione del bello, l’idea della bellezza. E quindi dell’artisticità.

L’artisticità è una qualità che alcune narrazioni hanno, come risultato di una operazione (che noi oggi chiamiamo “arte”) che la comunità affida a persone specializzate chiamate “artisti”. In linea di principio tutti gli uomini possono diventare artisti, avendo della artisticità un bisogno fondamentale (inconscio o conscio), ma nella pratica, come per quasi tutte le operazioni più sofisticate inventate dall’uomo, esse sono prerogativa di alcuni (di coloro che ne hanno un bisogno conscio).

L’artisticità di una narrazione è il risultato della sintesi più riuscita fra pensiero razionale e pensiero simbolico. Si può dire che l’opera d’arte è la rappresentazione del perfetto equilibrio fra pensiero razionale e pensiero simbolico. Si può dire che l’opera d’arte è proprio il “ritratto” della riuscita dell’homo sapiens sapiens.

 

I limiti del pensiero razionale sono le contraddizioni, i paradossi (Zenone), i sofismi, il relativismo estremo... La contraddizione fondamentale dell’uomo razionale è quella di tempo e eternità.

Si ipotizza che l’operazione arte (e tutta la questione della bellezza in generale) sia il risultato di in travaglio durato millenni per rendere sopportabile questa contraddizione. 3

L’ideologia sociologica del progresso dell’arte, dominante oggi in Occidente, ignora o rifiuta questa ipotesi, e considera progresso dell’arte la produzione di infinità di oggetti e eventi che sono invece estetici, ma non artistici. Si tratta di quell’ovvio malinteso che discende dal non aver operata la dovuta netta separazione fra estetico e artistico. Si tratta della ideologia relativa a una condizione contingente della nostra civiltà occidentale, essendo solo una interpretazione storicistica di un fenomeno (l’arte) che invece, al di là della storia, si origina e in gran parte si svolge in una dimensione antropologica. Questo malinteso del progresso dell’arte deriva da quell’eccesso di razionalità che ha caratterizzato la cultura occidentale degli ultimi secoli. Eccesso di cui sono conseguenza oggi il predominio della tecnologia (del pensiero razionale), e il declino della religiosità, della eticità e dell’artisticità (appartenenti in massima parte al pensiero simbolico).

 

La vera consapevolezza critica della propria condizione esistenziale di sofferenza per quella contraddizione fondamentale (tempo/spazio eternità; vita/morte, ecc) viene raggiunta dall’homo sapiens sapiens nella filosofia greca. Nel tentativo di superare i limiti della razionalità, il razionalismo della filosofia greca inaugura due angoscianti problematiche, che sono poi quelle dell’uomo contemporaneo: con Anassagora l’idea di progresso, con Protagora il nichilismo. Era inevitabilie: se non fosse successo in Grecia sarebbe successo in qualche altra civiltà, perché era inevitabile che ad un certo punto della evoluzione della tecnica il pensiero razionale, che ne è nello stesso tempo l’origine e il prodotto, si facesse critico e autocritico (si sa che la razionalità non sopporta di non poter dare un senso a tutto, e quindi anche all’”insensato” tempo).

Idea di progresso vuol dire appunto cercare di rendere sopportabile l’insensatezza del tempo che passa, dando al tempo un senso: come scopo, direzione, fine. Il tempo ciclico della natura diventa così un tempo lineare, diventa “la storia” con un suo compimento, scopo, fine.

 Il nichilismo invece vuol dire l’accettazione del non-senso, del relativismo estremo espresso nella massima di Protagora (491 a.C.): “Di tutte le cose misura è l’uomo, di quelle che sono, per ciò che sono, di quelle che non sono, per ciò che non sono”. Questo nichilismo comporta il pericolo della perdita della identità, nella perdita dell’Altro (come immutabile, come trascendenza). Non c’è più l’Altro immutabile a misurare, definire l’uomo, ma l’uomo mutevole è in balia di se stesso.

Nonostante la resistenza del pensiero simbolico, affidata in Occidente alla religione (Cristianesimo), piuttosto che alla creatività e alla immaginazione, nella dialettica tra pensiero razionale e pensiero simbolico l’equilibrio si rompe a favore della razionalità. Nasce così la scienza moderna, tutta interna alla idea di progresso e del tempo lineare come storia che progredisce e si compie. E’ questo progresso della razionalità scientifica che investe e travolge, sulla fine del secolo XIX, anche l’operazione arte.

 

(Il testo seguente fra virgolette è una citazione da “Il tramonto della forma”, negli atti del convegno “Arte o spettacolo” tenutosi alla Università di Urbino (7/9 settembre 2005): ***La storia è nota. Brevissimamente: nell’800 la scienza inizia i suoi trionfi e gli scienziati sostituiscono gli artisti come “mediatori tra gli dei e l’uomo”. Per conservare all’arte una sua funzione ed esprimere la condizione umana nella crisi dell’umanesimo, gli artisti rinnovano il loro linguaggio. Ma mentre i più operano le loro innovazioni all’interno della dimensione antropologica dell’arte, cioè sempre per il raggiungimento della riuscita formale artistica dell’opera (e sono i Modernisti: tutti i maggiori autori del 900, da Baudelaire a Joyce a Montale a Picasso a Stravinskij, ecc.), altri (e sono gli Avanguardisti propriamente detti) pensano che l’arte non possa abdicare al suo ruolo di protagonista del progresso, per cui deve gareggiare con la scienza nel produrre oggetti/eventi che siano anzitutto strumenti di quel progresso e della rivoluzione sociale. La contemplazione della forma viene da questi considerata una operazione ormai inutile, conservatrice se non reazionaria. Come strumento della rivoluzione, l’operazione arte deve anch’essa progredire (e quindi in extremis negarsi, in quanto ogni progresso ha una fine, anche quello della scienza), essere cioè sempre all’”avanguardia” per quel fine (a prescindere dalla qualità artistica dell’opera). Il nuovo diventa un valore per se stesso: il valore di novità subentra al valore di artisticità.

Si tratta pertanto della intrusione nella operazione arte della idea di progresso della scienza. L’opera, come mero strumento del progresso, diventa più un giudizio sul mondo che l’invenzione formale di un “mondo altro”. Alla contemplazione della forma riuscita, con il suo “mistero”, subentra la comprensione del significato, con la sua razionalità. Dunque questa intrusione dell’idea razionale di progresso della scienza nell’arte ne decreta anche la fine. Perché l’arte non ha, costitutivamente, progresso. Se si può dire che l’opera di Einstein è più progredita, quindi migliore e più vera perché più nuova dell’opera di Tolomeo in un progresso della scienza, non si può dire che l’opera di Picasso è più progredita, migliore e più vera perché più nuova dell’opera di Giotto in un progresso dell’arte.

In verità, l’idea di avanguardia è una prevaricazione del pensiero razionale, produttivo e quantitativo della scienza, sul pensiero simbolico, creativo e contemplativo, dell’arte. Inserire nella operazione arte l’idea di progresso della scienza vuol dire stravolgere l’arte come qualità di artisticità antropologicamente “eterna” (cioè per tutta la durata dell’homo sapiens sapiens) in arte come istituzione storicamente in progresso verso qualcos’altro. Vuol dire stravolgerne la funzione da produzione di opere artisticamente riuscite a produzione di strumenti del progresso sociale, appunto qualcos’altro. Strumenti ovviamente tecnici, poi tecnologici, poi neo-tecnologici, al servizio del progresso proprio della scienza (che ormai è di moda equiparare all’arte).

Ridotta a questo altro, a strumento del mondo dominato dalla Tecnica, l’arte diventa da un lato sperimentale esperienza dei sensi, effetto formale epidernico sensoriale sempre nuovo per merito delle sempre nuove tecnologie (ma ciò decisamente non rientra nell’ambito delle narrazioni); dall’altro diventa razionale autocoscienza di ciò, analisi semiotica, epistemologica, psicologica, gestaltica ecc., in definitiva comunicazione concettuale. Emergono dunque perentori, da questa avanguardia/accademia della civiltà dei consumi, due precisi fenomeni: l’“invasione concettuale” e il “feticismo del nuovo”, strettamente legati al progresso della Tecnica. Fenomeni che sono tutt’altro che un progresso dell’arte, ma invece, in una dimensione antropologica, una vera regressione a prima della invenzione dell’arte. ***

 

In altre parole, si identificano nella parola “arte” non più le narrazioni con la qualità di artisticità, ma solo gli strumenti per mezzo dei quali queste si possono creare. Quindi non si tratta di una tecnologizzazione dell’operazione arte, ma della tecnologizazzione dei bisogni dell’uomo, e della sostituzione della operazione arte con i suoi strumenti e le sue tecniche. Così si parla di progresso dell’arte (che invece vuol dire solo progresso delle tecniche, dei modi di fare cubisti, surrealisti, futuristi, astratti, poveri, neorealisti, .....) e di arte tecnica, di arte tecnologica e arte neotecnologica, dove l’uso della parola “arte” è del tutto improprio.

Questi modi di fare possono mutare o progredire, ma l’operazione antropologica di inventare una narrazione con qualità di artisticità, se può non interessare più, non essere più necessaria all’umanità occidentale, certamente non può progredire: l’uso di nuove tecnologie non fa migliorare i risultati della operazione (le opere) mentre nella scienza invece le nuove tecnologie migliorano proprio i risultati delle scoperte scientifiche (le opere). Come s’è detto, le opere di Picasso non sono meglio di quelle di Giotto perché più nuove e quindi progredite.

Il grande malinteso dell’arte contemporanea è dunque il “progresso dell’arte”. Infatti l’arte è costitutivamente anti-tempo, anti-progresso, è tempo fermo 3. L’opera che impone perentoria la sua forma riuscita, la sua perfezione (la sua “bellezza”) a tutti, superando le barriere del tempo e delle differenti culture, è una delle trascendenze che l’homo sapiens sapiens ha inventato per salvaguardare l’identità sia individuale che della specie e per difendersi dal relativismo del pensiero razionale. E’ innegabile il fortissimo senso di identità che l’uomo sente nella esperienza esistenziale dell’artisticità, in presenza di quello straordinario Altro che è la riuscita di un’opera d’arte (che sia letteraria o musicale o pittorica ecc.).

Così, se nella mutevolezza indotta dalla tecnica l’uomo ha la coscienza angosciante del tempo, contro questa angoscia egli inventa la “bellezza” e l’arte, cioè lo spazio immobile perfetto, il tempo fermo.  E’ stata da sempre e ovunque aspirazione esistenziale di ogni cultura e di ogni artista quella di fare un’opera che sia riuscita (“bella”) per tutti, per sempre, fuori dal tempo.

 

Fare l’esperienza della artisticità di un’opera vuol dire “fermarsi”: scendere dal treno del tempo lineare progressivo e fermarsi a contemplare la forma. Vuol dire interrompere il fluire orizzontale delle comunicazioni, il continuo estenuante rimando delle comunicazioni ad altre comunicazioni, l’autogenerarsi delle tecniche e delle tecnologie, e in questa drastica cesura verticale (en abîme) ritrovare l’origine, il “prima della coscienza del tempo”. E’ una “discesa agli inferi”, che “inferi” sono solo per gli dei celesti della nostra cultura patriarcale, ma non per la Grande Madre natura delle origini.

Ora, l’ideologia sociologica afferma che questa, dell’arte come contemplazione della forma, è solo una teoria di classe, cioè della classe al potere. Scrive efficacemente M. Santoro nella presentazione al libro di P. Bourdieu: “La distinzione”4 : “Il sospetto che le teorie pure dell’arte -fondate sull’assunto dell’universalismo estetico - non siano tanto “pure”, nel senso di innocenti o disinteressate, emerge quando si scopre che esse non sono che il polo opposto  delle concezioni estetiche prevalenti nei ceti popolari: alla ricerca e valorizzazione della forma che connota le prime si oppone nelle seconde la valorizzazione della sostanza e della funzione. E non è un caso che statisticamente siano i membri della classe borghese coloro che con più probabilità adottano l’atteggiamento di contemplazione disinteressata richiesta dalla teoria”. 

Tutto ciò è vero. E’ strarisaputo e ovvio che il popolo privilegia il contenuto. Ma da quando le classi vanno scomparendo (in Occidente) nella omologazione globalizzante della cultura di massa, e tutti sono ormai rispetto alla cultura egualmente “piccolo borghesi”, appare sempre più chiara la parzialità dell’assunto. In tutte le culture da sempre la classe dominante ha imposto l’arte come contemplazione della forma. Non è stata una prerogativa della borghesia. O meglio, si dovrebbe dire che ogni civiltà ha avuto al suo interno una sua “borghesia” colta, che ha imposto l’arte come contemplazione della forma. Mentre sovrani e popolo avevano spesso lo stesso non-gusto, la stessa immaturità estetico-artistica: semplicemente non erano “colti”, relativamente alla loro cultura. Coloro che l’arte l’hanno prodotta, invece, fin dai tempi primitivi, sono sempre stati “colti”, a qualsiasi cultura appartenessero. Per il semplicissimo fatto che per fare opere d’arte occorre una forte specializzazione, quindi una delega (committenza) della comunità, per avere l’educazione, il tempo e i mezzi per farla, sia nelle caverne che con il computer. Certamente, gli individui nati nei ceti dominanti avevano più opportunità: basta ricordare il problema femminile. Se nella storia le donne artiste sono poche relativamente agli uomini, non è stato, fino a prova contraria, per incapacità, ma per la mancanza di opportunità che un potere religioso maschilista patriarcale ha loro negato, proibendo la loro educazione. Tuttavia l’homo sapiens sapiens ha sempre prodotto questo tipo di professinisti specializzati, nati sia dai ceti dominanti che dai ceti popolari.

Allora la questione si potrebbe porre in modo diverso: bisognerebbe chiedersi se non sia proprio l’acquisizione di una intelligenza della forma a permettere ad alcuni individui di diventare classe governante. In altre parole, individui di qualsiasi origine, nobile o popolare, possono acquisire l’intelligeza della forma (della astrazione disinteressata, della teoria, del ben fatto, del compiuto, dell’in sé, cioè del bene, del bello, del giusto in sé, e non solo del per sé, in funzione di interessi, propri o di qualcun’altro), cioè l’intelligente sensibilità idonea a farli diventare veri governanti. Mentre altri individui, di origine dominante, possono non acquisire questa sensibilità, e avere il potere solo perché ereditato (sono gli infiniti “cretini al potere” che caratterizzano la storia umana).

Dunque può essere che sia l’intelligenza della forma a creare la classe governante, e non la classe dominante a imporre una sua “per nulla innocente e disinteressata” teoria pura (della forma) dell’arte, che è solo lo slogan della sociologia.

 

Note

 

1. Succede a tutti, "primitivi" e contemporanei, di perdere il senso di sé. Secondo De Martino le pratiche magiche dei primitivi altro non sono se non terapie istituzionalizzate dalla comunità, gestite dagli sciamani, contro questa "crisi della presenza", questo rischio di dissoluzione dell'Io.

 

2. Vedi “TempoFermo”, n. 1, Campanotto Editore 2003, p.45-51: “TempoFermo”, n.4, Campanotto Editore, p 83

 

3. Vedi “TempoFermo”, n. 1, Campanotto Editore 2003, p. 45-51

 

4. Marco Santoro, presentazione a “Pierre Bourdieu, “La distinzione”, il Mulino, 2004, p.XII