Le carte segnate del baro

Elio Copetti


They saw that they had to meet the level of the old masters. But they couldn't imitate them. So if you couldn't imitate them you were forced to innovate, as it were.[...] well, it's this way: you painted to make as good a picture as you could -- no program -- you might have a program for making good pictures but no program beyond that. You wanted to paint as good a picture as you could, as all painters try, and you found that it wasn't good enough if you continued to shade and model. That's what happened. I mentioned before: Pollock wanted to model and shade and he found out he couldn't. It didn't come out good. He had to go flat relatively. Nobody wants to paint flat pictures, it's tougher to make them good [...] They wanted to hit your eye whether they were painting narrative or not. And when I say hit your eye, I don't mean that they had spectacular innovation or anything. It's the same thing the gentlemen here mean when they like something in painting, You like it, that's all, whether it's a landscape or abstract. You like it. It hits you. You don't have to read it[1].

Clement Greenberg

 

Questo testo rappresenta soltanto un'indicazione, piuttosto imprecisa e di carattere prevalentemente “evocativo”, di una direzione di ricerca. Non pretende di possedere grandi capacità persuasive[2], tuttavia lo rendo pubblico ugualmente, nella convinzione che, almeno in questo ambito, di "idee" intese come pepite d'oro da tesaurizzare e sfruttare "al momento buono" non ne possano esistere, ma esistono invece soltanto delle temporanee possibilità di maneggiare determinati argomenti, e che tali possibilità hanno bisogno di interlocutori, per potersi sostenere e sviluppare, oppure per dissolversi a ragion veduta.

Quando, all'incirca dieci anni fa, decisi di ingaggiare seriamente quel destino "artistico" che aveva sempre aleggiato intorno alla mia vita, mi accorsi ben presto che l'opera artistica in sé era soltanto una delle componenti di un gioco che, visto più da vicino, si rivelava incredibilmente intellettualizzato e sofisticato, tanto da emanare uno strano sentore di adulterazione.

Rapidamente assodato che i critici d'arte non sono affatto quelle meravigliose persone, piene di saperi, curiosità ed apertura, che uno si potrebbe  figurare adagiandosi sulle retoriche offerte al pubblico, e rassegnatomi alla fatica di diventare il critico di me stesso, si apriva per me un invitante spazio di esplorazione intellettuale, reso probabilmente possibile soltanto dall'avvento di Internet. Partivo da una formazione matematico-scientifica di livello universitario, e dalla consueta formazione umanistica di tipo liceale - naturalmente estesa ed articolata dai percorsi quasi casuali delle esplorazioni personali - nella fiducia che, dato che mi sentivo temprato dalle rigorosissime e quasi inumane astrazioni dell'alta matematica, il resto del percorso - per quanto interminabile - sarebbe stato prevalentemente "in discesa", soprattutto considerando che si sarebbe svolto al di fuori dal meccanismo, abbastanza alienante, del binomio corso-esame.

A grandi linee, dopo una prima fase che si è svolta - su Internet come nella vita concreta - sul campo propriamente "artistico" (ovvero, avvalendoci di una certa usurpazione consuetudinaria del termine, della pittura, scultura e derivati vari) - fase che ho in qualche modo descritto in un mio precedente articolo per TempoFermo[3] - mi sono gradualmente orientato, con istinto da paramecio, verso zone della semiosfera frequentate da poeti e scrittori, che nel frattempo si erano affacciati in massa sulla scena di Internet, quale portato (anzi forza portante) della cosiddetta "rivoluzione dei blog", questi diari on-line gratuiti che possono venire rapidamente presi in mano anche da persone pressoché prive di competenza informatica.

Le tappe principali di questo mio percorso sono state quindi segnate dai passaggi sui blog letterari (ovvero da lunghe ed impegnative frequentazioni delle relative "comunità"): dapprima quello dello scrittore Gian Ruggero Manzoni[4] (successivamente chiuso ai commenti, con conseguente “scioglimento” della comunità) poi quello associato alla rivista di poesia Atelier[5], gestito dal critico e poeta Marco Merlin, ed infine su "Nazione Indiana"[6] – e proprio nel momento, abbastanza drammatico, in cui maturava l'abbandono da parte dei "padri fondatori" Tiziano Scarpa, Antonio Moresco e Carla Benedetti, al quale è poi seguita un'interessantissima "rifondazione" da parte dei superstiti, su basi significativamente differenti. 

Rispetto alla massa degli “aspiranti” artisti, per lo più oscillanti drammaticamente tra la volontà di credere ad oltranza nelle sirene di un onirismo sociale diabolicamente indotto[7], ed il rifiuto (sia esso violento, melanconico, oppure intriso di acidissima ironia) che segue al disinganno, poeti e scrittori, pur sottoposti a delle frustrazioni analoghe, mostravano infatti (forse in conseguenza di una padronanza linguistica e di una formazione generalmente superiore) una maggiore potenzialità di elaborazione e di interazione "costruttiva"[8] sopra argomenti complessi e spesso particolarmente spinosi anche nei riguardi delle dimensioni personali.

C'è infatti da considerare che quello strumento meraviglioso che è Internet rappresenta anche, almeno in certi suoi usi avanzati o distorti, un terribile "disgregatore di anime", in quanto la sua interazione smaterializzata e astratta, del tutto priva di quel ricco flusso di meta-segnali emotivi, "marcatori di verità", che circonda le interazioni reali (una carenza che infatti ha richiamato all'esistenza il rudimentale e del tutto insufficiente meccanismo degli "emoticons", o faccine) può portare all'estremo certe valenze[9] che l'ipersensibilità di Kafka aveva individuato già nel rapporto epistolare:

La facile possibilità di scrivere lettere deve, da un punto di vista meramente teorico, aver portato nel mondo una terribile disgregazione di anime. Si tratta, infatti, di un rapporto con spettri, e non soltanto con il fantasma del destinatario ma anche con il proprio fantasma, che si manifesta tra le righe della lettera che si sta scrivendo e tanto più in una serie di lettere, dove una lettera corrobora l'altra e ha modo di riferirsi ad essa come a un testimone. [..] Si può pensare ad una persona lontana, e si può aver presa su una persona vicina: tutto il resto trascende l'umana capacità. Scrivere lettere significa, tuttavia, denudarsi di fronte agli spettri, cosa di cui questi sono in bramosa attesa.

Si tratta di una dinamica che si riconosce ovunque lo sforzo comunicativo tenti davvero di superare la barriera protettiva del malinteso. Quel malinteso che nelle parole di Jankélévitch[10] assume una valenza quasi ontologica:

Il malinteso sincronizza i soliloqui umani. A partire da solitudini parallele fabbrica uno scambio apparente, una sedicente comunicazione amicale intessuta di discorsi campati in aria, di obiezioni collaterali e di risposte che non rispondono a niente. È così grande l'inerzia dell'io murato nella sua logica interna e nella sua indifferenza che questo gioco ridicolo può proseguire da solo in virtù del movimento iniziale, e gli interlocutori si ritirano reciprocamente soddisfatti quando hanno trovato in una parola dell'altro l'occasione di poter attaccare la loro filippica. [..] Non è quindi sufficiente dire che il malinteso ha una funzione sociale, dato che è la socievolezza stessa; colma lo spazio tra gli individui con l’ovatta e il piumino delle menzogne ammortizzanti, trasforma il barbaro e spigoloso predatore in un falsario civilizzato; i frodatori infatti non si sopporterebbero se dovessero approfondire la loro condizione, e la franchezza totale, la diafana lealtà, avrebbero ben presto come conseguenza di trasformare il loro ordine in una giungla frenetica. [..] È ben necessario, poiché nessuno ne ha il coraggio, che un imbecille qualsiasi si assuma il compito di parlare di corda là dove non si deve, a casa dell'impiccato, di denunciare a squarciagola la spregevole collusione del bracconiere col gendarme e di mettere in ogni momento, come si dice con formula sgradevole, e cioè così azzeccata, "i piedi in mezzo al piatto"...

Quanto più lo sforzo è sincero e appassionato, tanto più rischia di farti precipitare nella Scilla o Cariddi delle ambivalenze fondamentali che ci costituiscono come persone. Così il tentativo di rompere davvero quegli interminabili soliloqui entro cui la comunicazione si adagia (cioè quella marea di articoli e saggetti che nessuno veramente analizza, ma che vengono semplicemente "scorsi" secondo un'inconfondibile modalità che conduce a complimenti, o deprezzamenti, altrettanto superficiali[11]) rischia - incontrando il vuoto - di farti precipitare negli abissi di un "sottosuolo" straordinariamente simile a quello di Dostoevskij, la cui dilatazione umoristica assume allora una valenza decisamente terapeutica[12]:

Osserviamo ora questo topo in azione. Supponiamo, per esempio, che anch'esso sia offeso (ed è quasi sempre offeso) e anch'esso desideri vendicarsi. Di rancore in lui, forse, se ne accumula ancor più che nell'homme de la nature et de la vèritè. Il turpe, basso desideriuzzo di render male per male all'offensore gli prude dentro ancor più turpemente che nell'homme de la nature et de la vèritè, perché l'homme de la nature et de la vèritè, per la sua innata stupidità, considera la propria vendetta nè più nè meno che giustizia; mentre il topo, per via della coscienza ipertrofica, nega questa giustizia. Arriva finalmente al punto, all'atto stesso della vendetta. Il disgraziato topo, oltre alla porcheria iniziale, ha già fatto in tempo a seminare intorno a sé, sotto forma di interrogativi e di dubbi, un mucchio di altre porcherie; al primo interrogativo ha aggiunto tanti interrogativi irrisolti, che inevitabilmente attorno a lui si raduna una sorta di fatale brodaglia, di fetida melma, costituita dai suoi dubbi e turbamenti, nonché, infine, dagli sputi che gli cadono addosso da parte degli uomini immediati e di azione, i quali lo circondano solennemente in qualità di giudici e despoti e sghignazzano di gusto di lui. S'intende, non gli resta che fare una mossa di rinuncia con la sua zampetta e poi, con un sorriso di finto disprezzo al quale lui per primo non crede, sgusciare ignominiosamente nel suo buco.

Pur profondamente affascinato da questi paesaggi, rimango comunque un "razionalista", e dunque intenzionato a dare un fondo, un ancoraggio, a queste dinamiche abissali, alla ricerca di una consapevolezza da cui possa prendere slancio un'azione realmente sensata - a fronte di troppo comode fughe in un “delirio” che rimane facile preda (ormai sottoposto, si potrebbe dire, a "copyright") di ben diversi poteri.

Nel fitto raffronto tra i modelli esplicativi messi a disposizione dalla nostra cultura (grazie alla formidabile possibilità di setacciarla attraverso Google e l'ordinazione on-line di libri, per tacere delle possibilità di interazione con personalità non di rado notevoli) e le evidenze derivanti da questa complessa esperienza, ho ritrovato un'impostazione particolarmente efficace nel sociologo francese Pierre Bourdieu[13], con le cui teorie ho ultimamente afflitto "ad nauseam" i miei interlocutori su Internet, non trovando di norma resistenza significativa – ovvero una opposizione ragionata - neppure da parte dei più agguerriti ed intransigenti tra di loro.

E’ dunque attraverso le sue formulazioni, specialmente per quanto concerne il "potere simbolico", che suppongo si possa tentare di svuotare l'azione critica da quella "fatale brodaglia" di dubbi e turbamenti, spezzando i troppi “doppi vincoli” di Bateson[14], o le doppie chiaroveggenze di Jankélévitch, che ne avvelenano la semiosfera.

E' quanto si tenterà di abbozzare rudimentalmente nel resto di questo articolo, per mezzo del consueto bricolage di citazioni, con lo scopo di stimolare nel lettore il desiderio di un accesso più completo ed organico alle fonti indicate, sempre ammesso che le prospettive che si vanno delineando gli sembrino personalmente promettenti, piuttosto che minacciose.

Quando su Internet[15] si prova a rinunciare al “piumino e all'ovatta delle menzogne ammortizzanti”, ci si va spesso ad ingolfare in uno scambio di accuse o insinuazioni nei riguardi delle rispettive "motivazioni". Si rinfaccia all'avversario l'uso di tattiche (per quanto possano sembrare indirette e diaboliche) di autopromozione, o "attention seeking", riservando nel contempo a sé stessi quella dimensione di impegno angelico e di disinteresse personale che è la sola compatibile con la mitologia dell'artista, del poeta e dell'intellettuale.

Quello che segue rappresenta, in buona sostanza, quanto la vecchia Nazione  Indiana[16] ha saputo opporre ai miei tentativi (per quanto questi potessero risultare maldestri) di indurre a quella sorta di auto-oggettivazione che viene richiesta dalle teorie di Bourdieu, quale mezzo per giungere per una articolazione più persuasiva delle tesi sulla cosiddetta “restaurazione”[17], contro cui Nazione Indiana aveva nel frattempo lanciato una propria crociata:

Son quelli come te, che vedono marketing dappertutto (persino nelle imprese culturali senza un grammo di autopubblicità da parte di autori affermati, che di pubblicità non ne hanno alcun bisogno), a essere i paladini della restaurazione. Sono quelli come te che "hanno l'impressione" (ma, guarda caso, non la sanno mai articolare, non la spiegano mai, tranciano giudizi generici) a fare da solerte zavorra dello status quo. Sta' pure a vedere, quelli come te questo san fare. Stare fermi. Immoti. A sparar giudizi. Senza muovere un dito.

Tuttavia insistere, cioè l'articolare compiutamente quella mia “impressione”, ha avuto soltanto l'effetto di spingere l'interlocutore verso un arroccamento lievemente paranoico:

Comunque, Bourdieu va anche bene, per carità, ma è come obiettare con un manuale di fenomenologia della guerra mentre qualcuno ha lanciato un attacco. Mi sei sembrato un entomologo che osserva con un sorriso di sufficienza, dall'alto, un formicaio che respinge l'attacco delle termiti... Proprio questo tuo "chiamarti fuori" è un limite, un grosso limite e, se mi permetti, piuttosto irritante (scusa se te lo dico, non è per polemica). Il tuo uso di Bourdieu è olimpico e oppressivo: olimpico, perché ti poni come un dio che osserva al sicuro una lotta fra bande, si diverte allo spettacolo di questi umani che se le danno di santa ragione... ma allora, se non sei coinvolto non te ne frega nulla! Oppressivo perché schiaccia tutto sull'interesse di parte, riconoscendo gli eterni meccanismi degli schieramenti. Che me ne frega di questo sguardo culturalista e saccente, che mi sa solo affermare un dejà vu! Che me ne faccio? Immagina di essere andato a dirlo a un serbo o a un bosniaco o a un kosovaro, che nelle loro posizioni riconoscevi le tipiche dinamiche di schieramento... Capisci bene che le tue obiezioni, per me che intraprendo una battaglia, sono impedimenti, non mi servono a nulla, sono zavorra.

Mi pare che qui si delinei una contraddizione ineludibile tra le idealità di un sito-comunità che esaltava orgogliosamente lo scambio intellettuale fra liberi pensatori, fuori da ogni logica di “scambio di favori”, ed una "logica di guerra" che richiede ovviamente un'acefala obbedienza a livello "strategico" - consentendo al "soldato", casomai, un limitato dispiego di intelligenza a livello tattico. In altre parole, la causa della "restaurazione", elaborata in altro loco dallo "stato maggiore" di Nazione Indiana, andava semplicemente creduta ed appoggiata, e questo andava a costituire di fatto la condizione "elettiva" di appartenenza ("o sei con me o sei contro di me") - questione beninteso riservata ai portatori di una qualche "credenziale" a livello culturale.

Tuttavia, si preferisce in genere spiegare questo evidente scollamento fra proclami e realtà dei fatti richiamandosi all'ovvio problema dell'esplosione combinatoria, che una comunicazione veramente a-gerarchica e “rizomatica”, comporterebbe:

Tieni conto che gli interventi in home page costano riflessione e tempo, non sempre si ha ulteriore tempo per ribattere alle interessanti obiezioni nella finestra dei commenti. In altri termini, come diceva Troisi, "voi siete tanti, io sono solo". Sarebbe bello poter rispondere a tutti, ma immagina che razza di investimento di tempo ci vuole per rispondere a tutti quelli che hanno qualcosa da obiettare su un pezzo postato in home page, e, nota bene, dopo che quel pezzo postato in home page si è pur dovuto meditarlo e scriverlo! Ecco, io sono qui a scrivere questo commento da una mezz'oretta, credo, e ho appena appena sfiorato una questione che meriterebbe approfondimenti molto ampi. Inoltre, l'avevo già fatto due anni fa, un anno fa, sei mesi fa, e mi ritrovo a doverla rifare, in maniera probabilmente abborracciata, carentissima. Con questo commento scritto in fretta, se mi sono sfuggiti svarioni o frasi poco chiare o pensieri contorti, presto il fianco a critiche, sarcasmi, sberleffi (com'è giusto). Rimarranno per sempre firmati con il mio nome, e potranno essere usati "contro di me" (esagero, sono enfatico, ma penso di far capire che cosa intendo). 

Siamo perfettamente d'accordo su queste difficoltà – che attanagliano tutti - ma questo non dovrebbe giustificare il rientro dalla finestra, cioè l'uso in retroguardia, di quegli stessi meccanismi di esclusione (che mai si vogliono esplicitare in tutta la loro crudezza) che si combattono in avanguardia. O almeno, in una logica di ragionevole accettazione dei vincoli impliciti nella realtà dei fatti, questi meccanismi dovrebbero ammettere delle significative eccezioni, che nel tempo non si sono riscontrate, anche se forse anche a causa del precipitare di altri eventi.

Dal lato opposto, il dato introspettivo mi testimonia l'incredibile, spropositata, differenza che passa fra l'elaborare un testo tenendoselo poi sul proprio computer, e pubblicarlo su Internet, fosse anche in qualche sperduto blog entro il quale la possibilità di incappare in un lettore attento e competente rappresenti un evento puramente teorico. Lo scostamento tra una coscienza soggettiva che si immagina come un'entità indipendente, autosufficiente, alla Clint Eastwood insomma, ed un corpo che subisce invece assurdamente le ansie legate alla possibilità, anche soltanto teorica, e persino sotto la copertura di un nickname, di un Giudizio[18] - ovviamente soltanto in quelle occasioni in cui degli scopi "puramente conoscitivi" ci spingano a commettere qualche bella mascalzonata, ovvero qualche "sacrilegio" (alla Nietzsche) nei confronti dei "valori" altrui, cioè della Società - spinge allo scoperchiamento di questa ambivalenza fondamentale, che proverò ad inseguire attraverso le formulazioni di Bourdieu, risalendo quanto più possibile all'origine.  Vi è a tale riguardo un passo promettente nelle "Meditazioni pascaliane":

L'immersione gioiosa, senza distanza e senza lacerazione, nel campo familiare può essere descritta come una forma estrema di compimento o al contrario come una forma assoluta di alienazione? [..] Di fatto egli [il bambino] è continuamente portato ad assumere su se stesso il punto di vista degli altri, ad adottare il loro punto di vista per scoprire e valutare per anticipazione come sarà visto e sentito da loro: il suo essere è un essere percepito, condannato a essere definito nella sua verità attraverso la percezione degli altri. Potrebbe essere questa la radice antropologica dell'ambiguità del capitale simbolico - gloria, onore, credito, reputazione, notorietà - principio di una ricerca egoistica delle soddisfazioni dell' "amor proprio" che è, simultaneamente, perseguimento affascinato dell'approvazione altrui.

La rilevanza di questa formulazione sta secondo me nei suoi possibili sviluppi, che confusamente riesco ad intuire. A fronte di un quadro desolante di lotte feroci ed accordi sottobanco fra bande di falsari, più o meno consapevoli di esserlo, è forse possibile risistemare la "frontiera del gusto" in una posizione più feconda e giusta, cioè più equa nei confronti di esigenze di carattere antropologico, e dunque universali e non passibili di sequestro esclusivo – anche a costo di dovere per questo compiere qualche dolorosa "riduzione trascendentale".

Per tentare questo abbozzo, dovrò esplicitare ancora qualche strumento, cercando di sfrondare al massimo il denso periodare di Bourdieu (che peraltro sarebbe necessario mantenere integro per una comprensione più compiuta):

La forza simbolica [..] è una forma di potere che si esercita sui corpi, direttamente, e come per magia, al di fuori di ogni costrizione fisica; ma la magia opera solo poggiandosi su disposizioni preliminarmente costituite, che essa "fa scattare" come molle [..]  e trova le sue condizioni di possibilità [..] nell'immenso lavoro preliminare che è necessario per operare una trasformazione durevole dei corpi e produrre le disposizioni permanenti che l'azione simbolica sveglia e riattiva [..] tanto più potente in quanto si esercita, per l'essenziale, in modo invisibile ed insidioso, attraverso la familiarizzazione con un mondo fisico simbolicamente strutturato e attraverso l'esperienza precoce e prolungata di interazioni abitate da strutture di dominio. Prodotto dell'incorporazione di una struttura sociale sotto forma di una disposizione quasi naturale [..] l'habitus è anche la radice di quella forma particolare di efficacia simbolica, l' "influenza" (di una persona - le "cattive influenze", di un pensiero, di un autore ecc.) alla quale si attribuisce spesso il ruolo di una virtù dormitiva, e che perde tutto il suo mistero, una volta che i suoi effetti quasi magici siano riportati alle condizioni di produzione delle disposizioni che predisponevano a subirla.

A questo concetto si lega immediatamente quello, così esplicativo nei riguardi di quelle lotte per il predominio simbolico, che su Internet si possono osservare pressoché "alla moviola", di violenza simbolica:

 [ da un'intervista su http://www.emsf.rai.it/interviste/interviste.asp?d=388 ]

La nozione di violenza simbolica mi è parsa necessaria per designare una forma di violenza che possiamo chiamare "dolce" e quasi invisibile. E' una violenza che svolge un ruolo importantissimo in molte situazioni e relazioni umane. Per esempio, nelle rappresentazioni ordinarie la relazione pedagogica è vista come un' azione di elevazione dove il mittente si mette, in qualche modo, alla portata del ricevente per portarlo ad elevarsi fino al sapere, di cui il mittente è il portatore. E' una visione non falsa, ma che maschera l' aspetto di violenza. La relazione pedagogica, per quanto possa essere attenta alle attese del ricevente, implica un' imposizione arbitraria di un arbitrio culturale. Basti paragonare, per esempio - come si sta incominciando a fare oggi - gli insegnamenti della filosofia negli Stati Uniti, in Italia, in Germania, in Francia, ecc.: si vede allora che il Pantheon dei filosofi che ognuno di questi tipi nazionali di insegnamento impone ai discenti è estremamente diverso; e una parte dei malintesi nella comunicazione tra i filosofi dei diversi paesi consistono nel fatto che essi sono stati esposti, all'epoca della loro prima iniziazione, ad una certa arbitrarietà culturale. E' a questo proposito che ho elaborato la nozione di "violenza simbolica", la quale mi è apparsa importante. [..] Allora, penso che la nozione di violenza simbolica sia molto importante per ricordarci che questo consenso sul codice rende possibile una comunicazione che a sua volta rende possibile la dominazione. In altri termini, la violenza simbolica è una dominazione che presuppone un codice comune. E questo è importantissimo: la dominazione all' interno di una società si compie sulla base di un codice comune. E' nella misura in cui, attraverso il sistema di insegnamento, i dominati più dominati acquistano un minimo di accesso al codice culturale comune, che una forma di dominazione può esercitarsi su di loro. In altre parole, avviene qualcosa di molto paradossale. Ad una visione semplice della cultura si sostituisce quindi una definizione bifaccia: d’accordo, la cultura è uno strumento di comunicazione ma, allo stesso tempo, è uno strumento di dominazione che presuppone la comunicazione. Dunque, non si può dire "è un bene, è un male." Usciamo dalle dicotomie ordinarie.

Davvero sarebbe tempo di uscire dalle dicotomie ordinarie. La parola chiave è qui arbitrarietà, e andrà correlata al famoso "enigma del gusto" - che poi alla fine coincide proprio con quella che Borges chiamava la "superstizione dello stile", con le sue infinite derivazioni snobistiche e distintive. Una volta intravisto, questo sforzo affannoso per far diventare la propria storia individuale, e di gruppo, il proprio retaggio familiare e sociale (e quindi "storico" nel senso più pieno) una sorta di "modello universale" di umanità completa e compiuta - da assicurare il più saldamente possibile nella memoria delle generazioni future, lo si ritroverà, quasi paradigmatico, in tutte quelle intricate, appassionate ed estenuanti contese sulle gerarchie di personaggi, preferenze, disposizioni estetiche, atteggiamenti e pose, e che costituiscono una grandissima e ridondantissima parte del gioco stesso.

Il primo passo, consisterà allora proprio nel separare ciò che può realmente diventare conoscenza – come mezzo astratto, neutrale ed universale per definizione, da ciò che rimane indissolubilmente legato a quel "tirocinio dei sensi e dell'immaginazione"[19], quanto mai corporeo, arbitrario e idiosincrasico, che si compie nell'ambito estetico e che, come ben spiega Eco nella sua “Opera Aperta”, non deve "pretendere di costituire un surrogato orfico della conoscenza", come peraltro comunemente avviene. 

Questo non significa che i due piani non possano fecondarsi a vicenda, o anche unirsi nel "contesto della scoperta", significa soltanto che a questo deve seguire un "contesto della giustificazione" più aperto e trasparente, ovvero un controllo sopra determinati trasferimenti - davvero troppo comodi ed automatici - di prestigio e legittimazione, che giungono a minarne completamente la credibilità (gli esempi sono infiniti).

In breve, l'assolutizzazione, di certe disposizioni, di certi meccanismi a "molla", implicati nei lunghi tirocinii estetici, e di cui nessuno può affermare di comprendere essenzialmente la natura, appare un mezzo fin troppo facile per escludere inesorabilmente tutti coloro che, volenti o nolenti, non si siano trovati a seguire delle analoghe traiettorie. Nessuno vuol certo vietare i giochi esclusivi, soltanto bisognerebbe essere messi in grado di rifiutare certe pretese universalizzanti, almeno quando queste diventino totalmente ridicole, come l’arte contemporanea si mostra a piene mani. In tale ambito infatti, questo processo appare ormai del tutto palese e maturo, probabilmente tanto più irrecuperabile quanto più si tratta di arte "high-money"[20]. Per comodità, riporto alcune significative parole di Yves Michaud, nel primo numero di TempoFermo:

Se c’è un caso dove il meccanismo burdivista (con buona pace di Bourdieu e della sua collerica anima materialista!) della distinzione opera pienamente, è quello dell’arte contemporanea: esperienze molto vicine vengono differenziate per ragioni di distinzione. Ci sono gli iniziati e poi gli altri. Tutta la sottigliezza della faccenda consiste nel fatto che il segreto della rassomiglianza sia ben custodito, che il pubblico comune resti nel comune e il pubblico iniziato nell’iniziazione. Si finirebbe quasi per capire come sia di colpo inutile cercare di stabilire una relazione con il grande pubblico: ciò equivarrebbe a confessare che il re è nudo o che i soggetti sono vestiti con ornamenti regali, che la relazione in effetti  esiste già perfettamente, ma che l’essenziale è soprattutto di non saperlo.

Proclami e "smascheramenti" di questo tipo si sono sempre susseguiti con buona continuità, ma sono stati di fatto inglobati e completamente neutralizzati, quale innocua dialettica interna al gioco stesso. Appare dunque del tutto futile insistere a mettere sotto il naso degli "addetti ai lavori" le prove della loro falsità. Ciò equivarrebbe ad esortarli a chiudere bottega, ovvero a smettere un'onesta e cinica attività di amministrazione del simbolico, destinata a prelevare del denaro dalle tasche di "coloro che non se lo meritano" per ridistribuirlo in varie guise. Un’attività che complessivamente potrebbe persino risultare positiva - nonostante le palesi menzogne, distribuite ad ogni livello, sulle quasi essa si basa[21].

Tutto sommato, la massa degli artisti esclusi, alla quale sarebbe affidato l'onere del cambiamento, non appare dotata di forza sufficiente (proprio nei termini di capitale finanziario, sociale e culturale) e sembra destinata a rimanere confinata entro nicchie irrilevanti, "cottolenghi sociali" dalle quali potrà al più venire benevolmente ripescato, ogni tanto, qualche miracolato. Di fatto, l'arte individuale, quella cioè di un artista indipendente e non inserito nei piccoli e timidi giochi piramidali e/o consociativi consentiti alla provincia[22], diventa un'impossibilità, ridotta a priori a "sfogo" personale di valenza puramente "psicologica". In questo postmodernismo imperante, qualunque cosa uno faccia, è già stata fatta, ed il commercio delle patenti di "agibilità storica" appare strettissimamente sorvegliato.

Sarà dunque interessante, a questo punto, vedere se poeti e scrittori altrettanto esclusi (e per quante “cooptazioni”, con relativa “defezione”, si possano operare ve ne sarà sempre un’enorme massa di riserva)  saranno in grado di escogitare, coordinandosi su Internet, dei percorsi differenti. Sembra inverosimile che da un tale inaudito ribollire non debba, prima o poi, emergere qualcosa di sostanzialmente nuovo.

Quanto invece all’arte:

Per parte sua ci rinunziò, ricordandosi di aver letto questa definizione: “Il disegno si compone di tre cose: la linea, la grana, la granitura fine, più il segno di forza. Ma il segno di forza non lo può fare che il grande maestro”.

da Bouvard e Pécuchet - G.Flaubert



[1] Sapevano di dover raggiungere il livello degli antichi maestri. Ma non potevano imitarli. Così, se non puoi imitarli sei costretto ad innovare, e così accadde. [..] bene, funziona in questo modo: tu dipingi per fare un bel quadro, per quanto ti è possibile – nessun programma – puoi avere in programma di fare dei bei quadri, ma nessun programma oltre a questo. Vuoi dipingere dei quadri meglio che puoi, tutti i pittori ci provano, e ti accorgi che non ti vengono abbastanza bene se continui a sfumare e modellare. E’ quel che accadde. L’ho detto prima: Pollock voleva sfumare e modellare e si rese conto che non poteva. Non veniva bene. Doveva andare un po’ più piatto. Nessun vuole dipingere pitture piatte, è più difficile che vengano belle [..] Volevano colpire il tuo occhio, dipingessero o meno delle storie. E quando dico colpire il tuo occhio, non intendo innovazioni spettacolari o altro. E’ la stessa cosa che i signori qui presenti intendono quando apprezzano qualcosa nella pittura. Ti piace e basta, che sia un paesaggio o un’astrazione. Ti piace. Ti colpisce. Non hai bisogno di stare a leggerlo.

[2] Massimo Piattelli Palmarini, nel suo l’Arte di Persuadere (Ed. Mondadori), riporta: Il grande filosofo americano Charles Sanders Peirce, uno dei padri del pragmatismo, propose il seguente schema di ragionamento, di portata molto, molto generale: si è osservato, senza ombra di dubbio, un certo fatto, chiamiamolo F. Questo fatto F è sbalorditivo. Ma, se supponiamo sia vero S (che può essere un altro fatto più generale, o un principio, o una teoria, o una causa), allora F non è più sbalorditivo, anzi è una naturale conseguenza di S (la lettera S suggerisce l’idea di spiegazione). E’ ragionevole, quindi, supporre che S sia vero. Questo mio testo rappresenta, ai miei occhi e temporaneamente, qualcosa del genere.

[3] /

[4] /

[5] http://www.atelierpoesia.it/

[6] http://www.nazioneindiana.com/

[7] Da un punto di vista intensionale, ovvero quello delle teorie e delle figure “ideali”, sembra infatti essersi stabilizzato uno curioso spazio “concettuale”, storicamente centrato sul “ready-made” duchampiano, che si irradia a dismisura inglobando le “performance” più arbitrarie, le “provocazioni” più deliranti, gli assemblamenti di materiali, - o i gesti pittorici - più trascurati e tracotanti, ma tuttavia sempre parassitari, per quanto concerne le altisonanti pretese “cognitive”, del povero Duchamp (che già in vita si era risentito parecchio verso la nascente pletora dei suoi scaltri epigoni – lui che per molti versi rimase un puro privo di tratti opportunistici). La caratteristica più straordinaria di tale spazio è che esso pare costituire (anche se del tutto illusoriamente) un’oasi utopistica nel quadro spietato della competitività sociale e naturale: forse davvero l’unico in cui lo sforzo verso l’affinamento, la differenziazione, la competenza – sforzo che presenta sempre anche un lato penoso ed alienante –  possa sembrare un optional, magari utilissimo ad attenuare la noia che si accompagna a certi vuoti troppo rarefatti, ma non un requisito indispensabile. Per essere più espliciti: l’odierno giovane scolarizzato che frequenta le biennali e gli altri eventi dell’arte spettacolarizzata, ben presto si accorge, osservando le “opere”, come nessun vero ostacolo gli impedirebbe in fondo di trasformarsi da semplice spettatore di quell’arte in un protagonista della stessa. Il fascino delle narrative mitologizzanti che il “Sistema” intesse attorno agli artisti di successo, unito alla constatazione dell’obiettiva imitabilità di gran parte delle “opere” presentate, costituisce una sirena irresistibile, capace di spiegare l’odierno proliferare di “installatori”, artisti “concettuali” ed assemblatori di “almost-ready-made”, che, sospinti dalla schioppettante energia di un narcisismo finalmente scatenato, finiscono per accalcarsi sempre più furiosamente sulle inevitabili strettoie di strutturazioni sociali necessariamente piramidali.

[8] In realtà a volte incredibilmente violenta. Si esplorino un poco, per una facile conferma, i commenti sul blog di Atelier (dove ci si potrà comunque ristorare con gli spassosi interventi di una certa Ramona, che si spacciava per badante  bulgara “di Profesore Senatore Mario Luzi”).

[9] detto a chiare lettere - sebbene, per certi argomenti, io preferisca avvalermi d'immagini - il nostro “io” normale, mantenuto ben coeso dalla ricchezza e compattezza dei flussi sensoriali (Oliver Sacks ci ricorda che “Freud ci ricorda che l'Io è prima di tutto un Io corporeo ... la proiezione mentale della superficie del corpo. Il senso del Sé sembra basarsi su una continua inferenza dalla stabilità dell'immagine del corpo, delle percezioni esterne e della percezione temporale. Sensazioni di dissoluzione dell'Io insorgono prontamente se c’è un serio disturbo o un'instabilità dell'immagine corporea, della percezione esterna o della percezione temporale”) comincia a cedere ad un “io” letterario, culturalmente mediato, che fatalmente “a forza di quadri sinceri che non di meno ne lasciano incoerente l'idea, di rettifiche che non giungono a liberarne l'essenza, di modi di essere e di difese che non impediscono di far vacillare la sua statua, di costrizioni narcisistiche che concorrono ad animarlo, finisce per riconoscere che questo essere non e' mai stato che una sua opera nell'immaginazione e che questa opera delude in lui ogni certezza. [..] Questo Ego [. .] è la frustrazione per essenza (qui è Lacan che parla.)

[10] Vladimir Jankélévitch - La menzogna e il malinteso. Raffaello Cortina Editore - collana Minima

[11] e vanno quindi a costituire un accumulo inerte di “tesine” giustapponibili senza interferenza alcuna, e quindi, in ultima analisi, prive di un autentico scopo.

[12] si tratta di un farmaco, starei per dire, proprio contro il “desiderio metafisico”, quella “malattia ontologica” trattata da René Girard nella sua “teoria mimetica”, che così tanto sembra avere a che fare con “certi fenomeni della società moderna, come la pubblicità, il divismo, la politica”. Personalmente, non ho ancora integrato appieno tale teoria - rimangono alcune zone di perplessità - ma non c’è dubbio che essa sappia concentrare l’attenzione su alcuni aspetti realmente essenziali. In rapporto a questo “sottosuolo”, probabilmente un buon modello psicologico anche per un certo “richiamo” denegato che l’orgoglioso artista "extra ecclesiam"continua in qualche modo ad emettere nei confronti del Sistema che lo esclude, in Menzogna romantica e verità romanzesca (Ed. Bompiani) scrive Girard: Si crede che Dostoevskij si confonda col suo personaggio perché non lo interrompe mai. Indubbiamente, ma l’uomo del sottosuolo è vittima della propria formula, Dostoevskij invece no. L’eroe è incapace di ridere perché non riesce a superare l’individualismo di opposizione. I nostri contemporanei sono altrettanti tristi di lui. Perciò svuotano Dostoevskij del suo prodigioso umorismo. Non s’avvedono che Dostoevskij si prende gioco del proprio eroe. “Io sono solo e loro sono tutti”. L’ironia dostoevskiana prorompe in espressioni ammirabili, polverizza le pretese “individualistiche”, disgrega le “differenze” che paiono mostruose alle coscienze contrapposte. Non sappiamo ridere con Dostoevskij perché non sappiamo ridere di noi stessi. Molti celebrano oggigiorno “Le memorie del sottosuolo” senza sospettare di esumare la loro geniale caricatura scritta ormai un secolo fa.

[13] In particolare si fa qui riferimento a La distinzione. Critica sociale del gusto - Ed. Il Mulino e Meditazioni pascaliane. Ed. Feltrinelli, collana Campi del sapere. Per una introduzione vedi Anna Boschetti, La rivoluzione simbolica di Pierre Bourdieu – Ed. Marsilio, collana I libri di Reset.

[14] Gregory Bateson, nella straordinaria collezione di idee raccolta in “Verso un’ecologia della mente” e “Mente e Natura” (entrambi nella collana Adelphi) introduce un concetto di “errore epistemologico” (dove l’epistemologia è intesa nel senso molto ampio dei presupposti logici, cioè delle tautologie implicite, che informano, prevalentemente a nostra insaputa, i nostri comportamenti) al quale mi ispiro dichiaratamente in queste mie velleitarie investigazioni: mi sembra impossibile, a fronte a certi fenomeni, che non stia operando nascostamente qualcosa del genere.

[15] Naturalmente in tutti i contesti ai quali si è accennato “passa” tranquillamente una grande quantità di “notizie” e di espressioni sui gusti e sulle preferenze - in una parola: di “descrizioni”. Ciò che resta irrimediabilmente al palo sono i presupposti logici che organizzano queste descrizioni, cosa che determina una tenace sterilità nel confronto tra i discorsi, sterilità generalmente ammessa nel momento in cui un blogger abbastanza impegnato decide di “chiudere bottega” (saturazione che mi pare intervenga tipicamente dopo circa un anno di esperienza). Potrebbe ovviamente trattarsi di un aspetto transitorio nello sviluppo della “blogosfera”.

[16] La scelta dei frammenti pertinenti per questo articolo viene qui fatta abbastanza arbitrariamente ma senza alcuna intenzione di denigrare un “laboratorio” per molti versi eccezionale, e del quale mi onoro di fare in qualche modo parte tuttora; quella di mio interesse è soltanto una delle sfaccettature di una realtà complessa. Nella fase di N.I. da me conosciuta, dei tre padri fondatori l’unico che sembrava “spendersi” davvero, anche nello spazio dei commenti, era comunque Tiziano Scarpa. Antonio Moresco e Carla Benedetti dialogavano soltanto all’interno del “sacro cerchio” della Nazione, attraverso modalità piuttosto deludenti, che indicavano uno scarso allenamento all’interazione in rete. Eppure Carla Benedetti aveva spesso professato tesi che per molti versi si avvicinavano a queste “nostre”, evitando però accuratamente, a differenza di Bourdieu, qualsiasi auto-oggettivazione, in favore di una visione semplificata, quasi da Scientology, che vedrebbe opposta una eroica minoranza di persone, miracolosamente “clear”, ad una maggioranza dominata dagli “schemi introiettati”: Quindi, alle nostre spalle c'è il postmoderno. La grande e articolata autodescrizione epocale che la modernità occidentale a un certo punto ha cominciato a dare di sé. E non è stata una descrizione innocua. Nessuna descrizione del mondo lo è. Ogni descrizione agisce. Agisce profondamente sulle rappresentazioni, e dunque anche sulle azioni che si possono o non si possono fare. Attraverso queste autodescrizioni si producono delle formae mentis, che si riproducono attraverso ciò che si dice quotidianamente, iterato in variazioni infinite, non solo nei ritornelli che ci arrivano dai giornali e dai media, ma anche presupposti , dati come indiscutibili in certi nostri discorsi.

[17] Carla Benedetti, sulla "terza pagina" del Corriere della Sera del 9 febbraio 2005 scriveva: La cosa che più colpisce è che di fronte a tutto questo [molto in breve: macchina dell'entertainment, monocultura imposta da una "macchina editoriale-pubblicitaria globalizzata che impone profitti del 15%, ottenibili solo replicando i formati, riducendo la diversità dell'offerta e abbassando il tasso d'invenzione"] ci sia come un'assenza di consapevolezza, e quindi anche di controspinte, da parte del cosiddetto mondo della cultura italiano (mi riferisco a quello "ufficiale", perché già nelle riviste in rete e nei blog la discussione è molto più combattiva e analitica [..]). Forse è stato paralizzato da quelle stesse macchine di ottundimento delle menti dispiegate nel pianeta? Queste forze del resto non producono solo funzionari e strutture gregarie, ma anche strutture mentali, ideologie, luoghi comuni e anche qualche controargomento ad hoc. Per esempio che descrivere il comportamento delle macchine di potere nel mondo contemporaneo significhi essero vetero-francofortesi. [..] Sono controargomenti populistici [..] ma che funzionano bene come depistaggio, come nascondimento del conflitto sanguinoso che oggi sta avvenendo nel campo della cultura, del pensiero e della vita.

[18] qui sarà allora Kafka a risultare particolarmente terapeutico. Tra i miei farmaci preferiti, l’impagabile coscienza maldestra che si dispiega ne “il maestro del villaggio”. Memorabile anche il sogno ad occhi aperti del vecchio maestro.

[19] La superstizione dell'inferiorità delle traduzioni [..] deriva da una distratta esperienza. Non c'è buon testo che non sembri invariabile e definitivo, se lo pratichiamo un numero sufficiente di volte. Hume identificò l'idea abituale di causalità con quella di successione. Così un buon film, visto una seconda volta, sembra ancora migliore; tendiamo a prendere per necessità quel che non è altro che ripetizione. [J.L.Borges, da Discussione - Le versioni omeriche]

 

Il dilemma dell'artista è di un genere particolare: egli, per esplicare le componenti tecniche del suo mestiere, deve esercitarsi. Ma l'esercizio ha sempre un duplice effetto: da una parte rende l'artista più abile nell'esecuzione di ciò che tenta di fare; e dall'altra parte, per il fenomeno della formazione dell'abitudine, lo rende meno consapevole di come lo faccia. Se ciò che l'artista tenta di fare è comunicare sulle componenti inconsce della sua esecuzione, ne segue che egli è su una specie di scala mobile, sulla cui posizione cerca di comunicare, ma il cui movimento stesso è funzione dei suoi sforzi di comunicare. [G.Bateson - Stile grazia e informazione nell'arte primitiva.]

[20] I cui rappresentanti si sentono talmente ben rincalzati, da potersi permettere una singolare franchezza, come in questa risposta di Giancarlo Politi - "potente" direttore della rivista Flash Art - ad un ingenuo aspirante: Caro amico, non ho mai cercato di vendere l'idea di un'arte democratica. Lungi da me! Però credo fermamente che nell'arte (di oggi almeno) emergono sempre i migliori. I quali debbono possedere qualità, determinazione, spirito di sacrificio, senso della strategia e tanta, tanta fortuna. L'idea che hai tu dell'arte è una sorta di ASL, cioè tarallucci e vino, volemose bene, c'è posto per tutti: che per gli artisti che non raggiungeranno mai il successo né la visibilità è vero, non per gli altri. E comunque questo sistema di protezione esiste e tutti (tu compreso credo) ne beneficiano. Tra pochi giorni a Napoli si inaugura Damien Hirst (purtroppo credo di non farcela a venire per la inaugurazione), uno dei grandi del nostro tempo. Guarda la sua mostra e leggiti la sua storia.

[21] E che vengono oramai considerate materia di insegnamento legittimato. Si vedano ad esempio certe aggressive pubblicità della IULM, ovvero della "prima università della comunicazione", che chiama i giovani a "prenotarsi il proprio futuro". Fra i temi d'insegnamento (dei corsi di primo livello, laurea specialistica e master) troviamo infatti delle parole chiave alquanto suggestive (il corsivo è mio): Comunicazione e gestione nei mercati dell'arte e della cultura / Comunicazione e strategia della marca e del consumatore / Strategie, gestione e comunicazione dei beni e degli eventi culturali / Management del Made in Italy, consumi e comunicazioni della moda, del design e del lusso. La saldatura tra marketing e cultura appare in questo caso completa e si può di conseguenza dedurne un’inerzia irremovibile. Per questa saldatura fatale, e probabilmente definitiva, tra una certa “arte” e il denaro si veda anche Donald Kuspit - The End of Art. Cambridge Press (lingua inglese).

[22] Come potrebbe, per esempio, una qualsiasi aggregazione culturale - o “movimento” artistico - di carattere locale, resistere alla pompa ed al potere legittimante (derivanti direttamente dall’investitura politica) emanati da un “Centro di Arte Contemporanea” come quello di Villa Manin? Non è cosa neppure da ipotizzarsi, in quanto non si farebbe altro che autocertificare la propria marginalità ed estraneità alle vere “dinamiche culturali”. Da qui le curiose contorsioni concettuali presenti nei discorsi di chi in realtà dispone di tutti gli strumenti necessari per capire l’imbroglio, ma è obbligato altresì a “stabilire un rapporto”. Ricordo Gillo Dorfles, non troppo tempo fa, sul Corriere della Sera: "Eppure, esiste un ambito dove l'avvento d'una componente feticistica può essere positivo: penso al fatto che senza feticizzazione di un'etichetta, d'una griffe, d'uno slogan, molte delle predilezioni del pubblico a caccia di gadget, di nuovi modelli di vestiario, di telefonini e computer non potrebbero avere luogo, privandolo di quella soddisfazione - certo "peccaminosa" e frivola, ma comunque solleticante - di venirne in possesso. Quanta parte della pubblicità per una nuova automobile, una maglietta, un oggetto d'arredamento, ma anche un'opera d'arte ... è basata sulla qualità feticistica degli stessi? Allora ben venga anche il feticcio che forse può, alle volte, sostituire non solo l'oggetto ma anche l'immagine, la passione che, nella loro vera essenza, in realtà non dovrebbero consentire la presenza d'un inganno." Il tentativo di salvare capra e cavoli, ovvero di partecipare ai festini dei dominanti, mantenendo al tempo stesso quell’integrità da Catone che sarebbe invero richiesta dall’illusio intellettuale, mi sembra particolarmente evidente. "Se loro vogliono essere ingannati, che colpa ne abbiamo noi?". Beninteso, in relazione alle capacità dispiegate, tale faccenda può assumere delle connotazioni affatto poetiche (e quindi, per certi versi, più sinistre) come ad esempio in queste parole di Gianni Riotta sul Corriere della Sera: “i piccoli correranno ridendo, gli innamorati si nasconderanno all’ombra della tela, gli intellettuali discetteranno di vita come teatro alla Pirandello o vita come sogno alla Calderon de la Barca. Gli anziani potranno percorrere il sentiero prediletto, come viale della memoria  [..] Chi ha soldi comprerà le litografie tirate in edizioni limitate, i ragazzi preferiranno magliette e felpe con i cancelli, chi non ha nulla si farà dare uno dei calendari omaggio della Deutsche Bank con il lavoro di Christo: nessuno resterà fuori dal marketing di un’idea”.