MILANO, 15 novembre 2005

 

 

 

CONVERSAZIONE CON VITTORIO GREGOTTI

 

 

 

 

ANDREA SERAFINI: Prima di affrontare il tema della qualità artistica, trattato dalla nostra rivista, vorrei porle alcune domande in merito allo stato dell’architettura contemporanea. Da qualche tempo ho l’impressione che le riviste specializzate divulghino i nuovi progetti internazionali con lo scopo di imporre una tendenza, e indurci a distinguere ciò che è “in” da ciò che è “out”. Esistono invece dei principi, penso a quelli vitruviani di firmitas, utilitas e venustas, che possono permetterci di riconoscere un corpus disciplinare dell’architettura e di distinguerlo da ciò che è altro? Oppure, non essendo più possibile, dobbiamo rinunciarvi a priori?

 

VITTORIO GREGOTTI: Da questa sua breve premessa, sembra proprio che la cultura architettonica contemporanea stia rinunciando a tale possibilità, e che anzi stia convertendo questa rinuncia in una ricerca di libertà reattiva alla condizione di sostanziale omogeneità planetaria di desideri e comportamenti indotti. Ma a ben vedere si tratta di una libertà negativa, e non positiva, perché mira ad un’assenza di impedimenti e non ad una tensione verso un progetto. Personalmente, credo che la necessità di un fondamento esista, e sia indispensabile per agire (non solo teoreticamente) la nostra pratica artistica. Anch’io per tutta la vita ho scritto e insegnato per sapere come fare l’architetto, e non il contrario.

Come lei saprà, nel 1966 scrissi un libro che si chiamava “Il territorio dell’architettura”[1], dove prendevo in esame le modificazioni del campo d’azione entro il quale si muove il progetto architettonico. La vera questione non era tanto quella di stabilirne l’estensione mutevole, bensì di individuarne un punto centrale che permettesse di utilizzare i variabili confini e le tangenze disciplinari senza perdere la propria identità. Questo principio rende anche possibile ed utile la relazione con le altre discipline, perché l’identità è la premessa di ogni dialogo. Oggi assistiamo invece a un furibondo tentativo del singolo di uscire dalla discussione con la lunga tradizione del proprio lavoro per mezzo dell’ossessione del futuro: ossessione certo giustificata dato il senso di disastro che esso comporta, quasi per non farsi riconoscere e con lo scopo di inseguire l’altro da sé. Meglio assai Vitruvio che Lei prima ha citato e che è il vero nemico degli architetti alla moda assai più del progetto moderno.

 

A.S.: Vorrei ci soffermassimo brevemente sulla questione della modernità. So che lei è un attento lettore di Jürgen Habermas[2]

 

Si può dunque parlare in questi anni di crisi della modernità o dovremmo invece parlare di crisi del modernismo, inteso come risposta estetica alla condizione moderna?

 

V.G.: Indubbiamente la modernità sta attraversando un periodo di crisi, ma dobbiamo fare attenzione: non è una crisi di natura metodologica bensì, per così dire, politica. Mi spiego: se ci riferiamo all’ideale del movimento moderno secondo cui l’architettura avrebbe potuto contribuire ad una “liberazione collettiva”, sappiamo che questa prospettiva non si è realizzata, e pertanto possiamo parlare di crisi. Non invece se ci riferiamo al rapporto forma-funzione, relazione che è stata spesso equivocata: è abbastanza evidente, infatti, che la nozione di funzione è il contrario di quella di deduzione e comunque nel moderno si tratta, al di là dell’aspetto di uso, di dar forma all’essenza della funzione. Resta credo l’insegnamento che l’architettura è comunque modo di dar forma significativa al costruire ed al suo uso. Dovremmo piuttosto mettere in evidenza un fenomeno di rovesciamento dei significati nell’uso dei linguaggi. Se pensiamo all’avanguardia degli anni ’20 del ‘900, ci rendiamo conto di come questa costruì un linguaggio per mettere in discussione sé stessa e il suo rapporto con la società. Quel linguaggio critico viene oggi utilizzato per affermare invece il proprio accordo con lo stato delle cose, sfruttando l’immagine per rispecchiare l’esistente. Una sorta di rispecchiamento neo-zdanovista alla ricerca (assai conveniente) di una rappresentazione coincidente con le ideologie del mercato e delle tecnoscienze considerate come l’unico valore positivo. Nelle arti visive questo fenomeno è ancora più evidente: già il critico d’arte Harold Rosenberg negli assi Sessanta diceva che “non è importante essere artisti, ma convincere gli altri che lo si è!” È ormai risaputo che l’autore è più importante dell’opera e gli architetti stessi tendono a considerarsi artisti, come se la creatività fosse diventata l’unico aspetto decisivo. Nel mondo dell’esteticità diffusa, a parte questo aspetto, la creatività è oggi sinonimo di forzata diversità, di originalità: ma vi sono molte idee originali, inutili e persino dannose.

 

A.S.: Il tema della creatività è stato recentemente affrontato in termini estetici, teologici e metafisici da George Steiner in un suo libro[3]. All’autore preme distinguerla dall’invenzione, intesa come ricombinazione degli elementi del linguaggio. La creatività implicherebbe invece un superamento del linguaggio stesso.

 

V.G.: In George Steiner questa distinzione (che è utilizzata anche dalla psicologia cognitiva) tra innovazione e creatività è considerata il sintomo più evidente di una crisi generale delle pratiche artistiche a partire da una serie di molti elementi della contemporaneità che culminano secondo Steiner nella mutazione della relazione con la morte e con i nuovi tentativi di esorcizzarla: frammentazione, provvisorietà, ossessione dell’originalità come creatività, segno della crisi anche dell’identità del soggetto. Personalmente sono convinto che quel poco che resta della pratica creativa non può essere che pratica critica, costituzione di distanza rispetto allo stato delle cose o evocazione di ciò che non è in alcun modo presente. Ricordiamoci qualche volta di Lukács[4], oggi così maltrattato. Almeno lui parlava di incarico sociale, di «realismo critico» e non di «realismo naturalistico»!

 

A.S.: Certamente. La nostra rivista si interessa proprio di questo, e cioè di come la diversa “quantità” estetica espressa da una forma determini, da un certo punto, la “qualità” della stessa. Come possiamo mediare in architettura tale disattenzione per la qualità? Nonostante abbia sempre diffidato della nozione di archetipo, essa richiama un’idea di permanenza nelle forme costruite e potrebbe tutelarle dalle tendenze imperanti.

 

V.G.: Misurare la qualità in termini quantitativi mi sembra piuttosto arduo. Ma cosa intende esattamente per “archetipo”?

 

A.S.: Uso il termine nel senso junghiano, quindi come immagine ricorrente estratta dall’inconscio collettivo. Se “concretizzate” attraverso tecniche e materiali, tali immagini possono essere intese come archetipi costruttivi. E una volta definiti, un’intera generazione di architetti li ha consapevolmente usati nella prassi progettuale. Dal suo punto di vista, queste ricorrenze figurali in architettura, come hanno interagito con l’“ideologia funzionalista” e quale ruolo hanno oggi di fronte alle richieste del mercato?

 

V.G.: A volte anch’io cerco di capire perché ciò che mi preoccupa della condizione della cultura architettonica di oggi non sia tanto il possibile proseguimento dell’incompiuto progetto moderno, quanto il difficile confronto con ciò che è stata l’essenza dell’“ergon poietikon”, cioè dell’architettura, per cinquemila anni, le ragioni della sua dispersione e dell’insediarsi della amata confusione in cui collocare il vorticoso crollo del presente stato della nostra pratica artistica. Forse è necessario andare ancora molto più indietro nel tempo, sino a riscoprire l’idea dell’ampiezza del panorama di principi insediativi e di manufatti diversi con i quali l’uomo ha concepito l’idea stessa dell’abitare e della modificazione del naturale terrestre, secondo interpretazioni ed alternative che possono suggerire per il nostro presente non soluzioni specifiche ma la possibilità di alternative profonde alla concezione dell’architettura che si è stratificata nelle interpretazioni più recenti della stessa architettura euromediterranea di 3000 anni or sono, solo uno dei possibili modi di pensare ad esse. Non è un caso che il padre degli storici della modernità, Siegfried Giedion, abbia concluso la sua carriera con uno studio sulla preistoria.

 

A.S.: Quello che forse accomuna tutte le manifestazioni estetiche è l’idea di stile. Lo intendo nel senso comune: se apriamo un libro di storia dell’arte vi ritroviamo una storia di stili. Ora, l’esteticità di una forma può essere considerata il risultato dello stile ivi manifesto: secondo lei questo risultato è immanente o trascendente la materia, la tecnica e l’uso? In altri termini, sta più dalla parte di Riegl o dalla parte di Semper[5]?

 

V.G.: Se devo essere sincero, la mia personale simpatia è per Semper. Ma a prescindere dalla mia preferenza, ci sono due modi di pensare lo stile: o ci si mette dalla parte di chi produce, o dalla parte di chi fruisce. Nel secondo caso lo stile diventa uno sguardo critico sulla forma, e un problema di riconoscimento e spiegazione storica dei fatti o un accoglimento estetico a partire dal presente con un’attribuzione di significati dell’opera anche molto diversi dall’intenzionalità originale dell’artista.

 

A.S.: Infatti Riegl parla di forma “intenzionalmente cercata”…

 

V.G.: Infatti. E se pensiamo più strettamente ai principi compositivi del progetto moderno, sappiamo che per essi lo stile viene dopo. Si parla piuttosto di processo, ovvero di un percorso messo in atto dall’artefice, con il quale emergono le regole che sono quelle dell’opera stessa nel suo farsi. Per quanto riguarda la questione dei materiali, non dovremmo intenderli solo come materie formate per la costruzione. Considero “materiali” tutti quegli elementi con i quali il progetto dialoga nel suo farsi: il contesto, il luogo, le relazioni con le istituzioni, la società, i processi economici ma anche i sentimenti e le memorie del soggetto… Ovviamente, tutti questi elementi presenti nel progetto devono essere alla fine “bruciati”, e le loro “ceneri” trasformate in forma. Questo è il momento in cui diventano davvero utilizzabili per la costituzione dell’architettura. Per quanto riguarda la tecnica, ho affrontato l’argomento in un altro libro dal titolo “Architettura, tecnica e finalità”[6]. Nel testo riconosco, com’è ovvio, l’importanza “strumentale” della scienza, ma soprattutto condivido la posizione che fu di Galileo contro Bellarmino, ovvero che la scienza ha anche un significato storico che trascina con sé, e che le sue conclusioni non sono mai neutre rispetto al contesto culturale. Ma se di nuovo parliamo di ideologie, ecco allora i problemi che anche all’architettura nascono dal fatto che alla tecnoscienza si attribuisce oggi la capacità di risolvere ogni tipo di problema. Si innesca così una fede ideologica nelle sue potenzialità, e nascono aspettative che travalicano il potere da essa stessa dichiarato. E comunque, se pensa bene, noi architetti abbiamo poco a che fare con la scienza: oggi assai meno di un tempo quando matematica e geometria erano all’origine dell’architettura. La scienza cerca di scoprire le cose per come sono, noi cerchiamo di scoprirle per come potrebbero essere. Il suo obbiettivo è la continua verifica dei propri risultati ed il loro superamento. Al contrario, nell’arte non esiste un’idea di progresso che ci consente di affermare che Picasso è più progredito di Poussin. Egli si colloca accanto al primo dialogando con esso! Certamente tutti quei contenuti che noi traiamo dalla discussione con il senso delle tecnoscienze sono materiali del progetto.

 

A.S.: E probabilmente questo è sempre successo. Ma alla tecnica si riconosce oggi un potere enorme, tale addirittura da condizionare la riflessione metafisica.

 

V.G.: Si riferisce a qualche posizione particolare?

 

A.S.: Alla posizione di Severino, ad esempio, secondo cui la tecnica non è più un mezzo per raggiungere uno scopo bensì il fine stesso dell’agire umano.

 

V.G.: Sì, conosco il punto di vista di Severino sull’argomento, e spesso condivido anche le sue conclusioni.

 

A.S.: Ma per non inoltrarci in considerazioni ardue, e che ci porterebbero forse troppo lontano, vorrei citare un esempio che ho sentito fare da un nostro collaboratore: Giuseppe O’Longo. L’esempio è tratto dal mondo naturale, e ha per oggetto il commensalismo tra paguro e attinia. Il paguro, nella misura in cui cerca e sceglie l’involucro che meglio gli si adatta può essere considerato l’ente “servito”, mentre l’attinia scelta l’ente “servitore”. Ma il rapporto tra questi due enti è in realtà più articolato, poiché anche il crostaceo in qualche misura “serve” il guscio, considerato che deve trascinarlo sempre con sé facendo una certa fatica. Trasferendo il paragone ad una situazione umana, avremo un ente servito (l’essere umano stesso) e un ente servitore (l’artefatto tecnologico). Da più parti è stato notato uno scompenso di relazione causato dalla presenza, sempre più invasiva, della tecnologia nella vita umana. Dal nostro punto di vista, il problema può allora essere posto nei seguenti termini: se questo scompenso esiste, quali effetti sta producendo nella pratica progettuale?

 

V.G.: Credo innanzitutto ci si siano due livelli della questione da lei posta. Il primo, che non dobbiamo dimenticare, riguarda il fatto che l’attuale tecnica delle costruzioni è un collage di tecniche ad un diverso grado di sviluppo e prodotte da culture molto divergenti (basta pensare ai semilavorati). Nel XIII secolo la costruzione rappresentava il miracolo tecnico, non certo oggi se si pensa alla biologia o all’informatica: quando facciamo credere che l’architettura moderna è caratterizzata da un alto tasso tecnologico, in realtà lo simuliamo mimeticamente nelle forme.

Il secondo livello riguarda invece la produzione edilizia e il mestiere dell’architetto, pratiche che negli ultimi anni sono notevolmente cambiate. All’origine il nostro era un mestiere, poi tra Sette e Ottocento questo mestiere è divenuto una professione dove il progettista interagiva con un cliente e un costruttore. Ora questa triade non esiste più. A causa di moltissime mediazioni e della specializzazione delle tecniche, l’architetto lavora con numerosi sistemi di collaborazione e di controlli esterni. In questo senso l’architettura sta diventando sempre più un’arte collettiva, dove tutti i problemi vengono discussi all’interno di un’equipe. Per non aggiungere il fatto che nella Comunità Europea gli studi d’architettura sono diventati addirittura Società di Servizio. Personalmente, mi ritengo solo “al servizio” dell’architettura: piuttosto sono io che utilizzo le altrui esigenze per adeguarle ai miei scopi, i quali certo non coincidono con quelli della clientela che è oggi rappresentata soprattutto da compagnie di intermediazione di diverso tipo. Si finisce col mettere a punto un prodotto quasi sempre senza conoscere le reali volontà dell’utente. O meglio, se ne viene a conoscenza attraverso gli esperti di marketing ai quali però credo poco, perché non fanno altro che riproporre un comportamento sociale omogeneo, a sua volta condizionato dalla comunicazione di massa, che coincide sovente con le opinioni consce o inconsce dello stesso analista.

 

A.S.: Quindi i cambiamenti e le difficoltà esistono, ma riguardano la tecnica come insieme di relazioni atte a produrre l’oggetto architettonico. Forse tale dispersione di pratiche sta condizionando anche l’idea di “narrazione” intesa come divenire umano. Ma andiamo per gradi: esiste, secondo lei, una narrazione architettonica e come si manifesta nell’oggetto realizzato? Penso ad esempio a Libeskind, e in modo particolare al suo Museo ebraico[7]. In quest’opera l’autore dispiega una vastissima rete di riferimenti culturali, che vanno dalla decostruzione topologica della stella di David al “Moses und Aron” di Arnold Schönberg, dall’elenco di nomi contenuto nei due “Gedenbuch” all’Einbahnstrasse di Walter Benjamin, e molti altri ancora. Mi chiedo allora se è necessario sviluppare un simile lavoro per raccontare in architettura.

 

V.G.: La narrazione architettonica è un’attribuzione di significati di guarda ed usa, sovente in modo diverso dalle intenzionalità dell’autore. I materiali dell’architettura non sono certo deducibili dalla storia del campo disciplinare e tanto meno dai contesti storici generali e dalla conoscenza e giudizio che diamo su di essi. Tanto più da una tragedia come quella ebraica del XX secolo. Essi, come ho scritto prima, vanno inceneriti, non possono essere descritti direttamente. L’architettura non è letteratura. Così alla fine il Museo Ebraico di Libeskind è una negazione inutile dell’architettura, un modesto pezzo di scultura a grande scala, uno strumento museale poco adatto ed un tradimento degli stessi alti contenuti che vuole comunicare. L’architettura parla delle cose parlando di sé stessa: come la musica

 

A.S.: Ovvero sono autoreferenziali.

 

V.G.: Si e no. La musica onomatopeica è in genere di qualità scadente, mentre la grande musica si svolge esclusivamente nella relazione esistente tra gli intervalli della notazione tradizionale, dodecafonica o elettrica: anche se l’estensione al mondo totale dei suoli (e del silenzio) non ci ha ancora consegnato capolavori negli ultimi cinquant’anni. È ovvio poi che non è assente dal processo di costituzione il materiale della narrazione come il soggetto agente lo ha vissuto. Ciascuno di noi è portatore di ricordi, speranze, passioni, e l’azione artistica implica la loro trasformazione in forma. Ma non passando attraverso la narrazione: questa è la conseguenza del processo messo in atto, e non viceversa. Per questo io parlerei al plurale di narrazioni, perché l’intenzionalità che ha guidato un progetto viene nel tempo tradita e sostituita da altre interpretazioni. Anche se quelle intenzionalità originarie restano confitte nell’opera

 

A.S.: Ma anche se diversa, si dovrebbe comunque avvertire.

 

V.G.: Si avverte sicuramente, perchè deve esistere nell’opera uno spessore che consente di percepirla. Quegli elementi di cui parlavamo prima, anche se inceneriti, sono ancora presenti e riemergono di volta in volta, non vengono cancellati. Una costruzione architettonica di qualità è sempre prepotentemente narrativa, ma dalla parte del fruitore.

 

A.S.: Sono d’accordo con lei. Dovremmo però ricordare che il divenire umano è stato narrato in diversi modi. Con il racconto, ad esempio, posso rievocare un passato individuale o collettivo usando il linguaggio; con la festa posso invece rivivere insieme ad altre persone particolari avvenimenti e celebrare ricorrenze; col mito, che riassume in una struttura sequenziale i momenti topici della vita, posso attribuire senso al ripetersi delle azioni umane. In qualche modo, tutte queste forme narrative costituiscono un’estensione dell’esperienza, e pertanto posticipano la “fine”. La fine a cui alludo è, evidentemente, la morte individuale e dovremmo allora anche dire che l’uomo è l’unico essere vivente sulla terra consapevole della propria esistenza a termine. Dal nostro punto di vista, l’opera d’arte costituisce l’apice di questo tentativo di rallentare il tempo e allontanare la morte. L’opera d’arte perfettamente riuscita è anzi in grado di “fermare” il tempo ed “eternizzare” il vissuto. Cosa ne pensa?

 

V.G.: Lei torna alle questioni sintetizzate nel libro di George Steiner. Penso innanzitutto che il tentativo di allontanare la morte è un esercizio che facciamo tutti nelle ventiquattrore in cui viviamo, anche se Steiner descrive bene le mutazioni nel mondo contemporaneo. Non credo però che l’arte renda possibile l’arresto di cui parla lei.

 

A.S.: L’arresto in questo caso riguarda l’illusione che la forma artistica produce a chi la contempla.

 

V.G.: Se si tratta di un’illusione, allora parliamo per metafore. Ma anche la responsabilità civile e la critica sociale in architettura hanno valenze simboliche, e non solo conseguenze pratiche. In tal senso avverto un’ansia per il simbolo che lo sta rendendo troppo direttamente deduttivo. Il simbolo è sempre ambiguo e misterioso, possiede una lunga storia di cui noi forniamo solo una piccola interpretazione.

 

A.S.: Non dobbiamo insomma confonderlo col segno...

 

V.G.: Esattamente, il problema è proprio questo. Alcuni operano un passaggio diretto dalla rappresentazione del contenuto alla costituzione del simbolo, il quale diventa poi una forma di comunicazione collettiva. Questa convinzione è anche alla base dell’idea errata secondo cui l’arte è una forma di comunicazione. Certo comunica sempre qualcosa, ma il suo senso non coincide con il messaggio trasmesso.

 

A.S.: Questa distinzione è cruciale anche per noi. In altre parole è fondamentale distinguere un’esteticità messa al servizio di obbiettivi specifici da un’esteticità dove la forma intende solo esibire se stessa. Nel primo caso avremo delle forme estetiche retoriche o allegoriche, nel secondo caso delle forme estetiche artistiche. L’attuale difficoltà di distinguerle è probabilmente dovuta all’invadenza dei criteri merceologici…

 

V.G.: Va bene, ma il processo di costituzione è analogo. Anche noi architetti, ad esempio, lavoriamo per il mercato, ma allo stesso tempo possiamo esprimere un giudizio sul suo stato, e sulla sua ideologia. In modo particolare possiamo mettere in discussione lo stato attuale delle sue relazioni.

 

A.S.: Il mercato diventerebbe così una contingenza.

 

V.G.: Ma una contingenza primaria, non secondaria. Complice o avversario, il mercato è ormai il grande fantasma che abbiamo tutti di fronte. La differenza è data dal punto di vista col quale lo si osserva.

 

A.S.: Sì, ma non ho capito se il giudizio di cui parla può essere messo in relazione con la qualità artistica.

 

V.G.: Il termine “qualità” è oggi, come si è visto in questa chiacchierata, assai ambiguo.

 

A.S.: Lo uso per esprimere la riuscita formale dell’opera, riuscita che non è attribuibile né opinabile.

 

V.G.: E questa non opinabilità, come la ricava?

 

A.S.: Dal fatto che l’opera d’arte possiede, dal nostro punto di vista, una “funzione esistenziale”. Se riesce ad assolvere tale funzione, che è quella di fermare il tempo attraverso una forma riuscita, allora è dotata di qualità artistica. Questa posizione ha delle implicazioni di non poco conto perchè una buona parte del ’900 “artistico” verrebbe esclusa. A partire da Duchamp, infatti, e in seguito con tutta la galassia dei concettuali, sempre più raramente sono state prodotto “forme formate”.

 

V.G.: Guardi, quando l’ho finito glielo mando. È l’ultimo libro che ho appena terminato, dal titolo “L’architettura nell’epoca dell’incessante”, e riprende una bella espressione di Gottfried Benn. Si compone di tre capitoli, il primo dei quali tratta del rapporto con le arti visive. Le quali non sanno bene dove collocarsi, perché l’atto che Duchamp compie nel 1916 non è ripetibile. Abbiamo assistito negli anni ad una progressiva dequalificazione della materialità ed una espansione dell’importanza (non del valore) dell’immagine. Ma l’architettura ha un’immagine ma non è un’immagine. Almeno i concettuali degli anni ’70 polemizzavano ancora con i materiali, ora non esiste neppure questa tensione. È sufficiente visitare una Biennale veneziana per rendersene conto, anche se qualche raro artista c’è ancora. In quanto architetti dobbiamo solidalizzare con la situazione delle arti visive perché anche la nostra disciplina ha perso l’idea della proprietà del proprio fare. Un secondo capitolo è invece dedicato al rapporto con la politica, altro motivo di grave smarrimento per entrambe. Infine c’è un capitolo che si intitola “Architettura e Architettura”, dove affronto quest’ultimo argomento. In un certo senso, quindi, mi ha colto in un momento sfavorevole perché terminare un libro coincide con un certo svuotamento.

 

A.S.: Allora le pongo un’ultima domanda e poi la lascio: se la costringessi a scegliere tra un’accezione “estensiva” dell’arte, per cui è arte tutto ciò che gli uomini di una certa epoca chiamano arte, e un’accezione “esclusiva”, per cui è arte solo quell’operazione antropologica che permane da 35.000 anni, quale delle due farebbe propria?

 

V.G.: È evidente che opterei per la seconda. Anche se va sottolineato che al tempo di Uruk con l’argilla si faceva tutto, e non esisteva distinzione tra poiesis e archè. In seguito queste funzioni si sono distinte, e come tali questi compiti non devono essere oggi confusi. All’inizio del mio libro cito una frase di Adorno che amo molto: “Le arti governano solo là dove ognuno persegue il proprio principio immanente”[8].

 

 

Andrea Serafini, S.E.&O.



[1] “Il territorio dell’architettura”. Milano, Feltrinelli, 1993.

 

[2] Filosofo, “erede” della Scuola di Francoforte. La sua riflessione si sviluppa a partire dall’idea di una ragione critica al servizio dell’emancipazione umana, che sostiene i valori della “modernità” e delle forze che l’hanno ispirata.

 

[3] Mi riferisco a “Grammatiche della creazione”. Milano, Garzanti, 2003.

[4] Filosofo, esponente del cosiddetto marxismo «occidentale», dove il pensiero di Marx veniva reinterpretato alla luce di Hegel.

 

[5] Riegl accusò Semper di «determinismo», anche se ha sempre distinto la sua posizione dai semplici schematismi “semperiani”.

[6] Bari, Laterza, 2002.

 

[7] Per un approfondimento a riguardo si consiglia: Livio Sacchi, “Daniel Libeskind, Museo ebraico, Berlino”. Torino, Testo&Immagine, 1998.

[8] Frase tratta dall’Estetica. Torino, Einaudi, 1975. Purtroppo esaurito.