Lo schiavo.

L’arte contemporanea e il suo pubblico*

 

Silvia Schwarzböck

 

 

Quando qualcosa diventa insopportabile a vedersi, gli occhi si chiudono automaticamente. Se restano aperti, invece, è perché quello che abbiamo davanti, per quanto insopportabile esso sia, lo possiamo vedere. Il fatto che si sia talmente ampliata  la capacità di vedere eventi straordinari (straordinari per atrocità, per meraviglia, per stravaganza o bizzaria), sempre che siano rappresentati (o, se sono reali, non stiano accadendo a chi li percepisce), potrebbe anche  mettere in dubbio un’idea abbastanza condivisa sul valore effimero di ogni catarsi: l’idea che, poiché un soggetto suole trasformarsi in destinatario di questo tipo di eventi durante il suo tempo d’ozio, il loro effetto su di lui non lo modifichi sostanzialmente. Dopo la ricezione, questo soggetto si reintegrerebbe  nella sua vita quotidiana abituale  restando lo stesso di prima. La catarsi, come liberazione dalle passioni più basilari (e in quanto tali, più difficili da controllare) che sono la paura e la pietà, avrebbe, al massimo, un valore terapeutico: servirebbe come consolazione (“per fortuna non mi sta succedendo lo stesso che sto vedendo, perchè lo sto vedendo, ma povero me se mi succedesse”) o come oblio circostanziale di se stesso (“il tempo che è durata la ricezione non l’ho sentito come tempo, ciò significa che mi stavo divertendo”)

     Applicata all’arte del XX secolo, se questa idea della catarsi fosse corretta, ogni provocazione avanguardista sarebbe stata vana, e gli artisti che oggi volessero provocare potrebbero contare su una quantità di destinatari sempre vergini, suscettibili di venire commossi  di volta in volta, senza che importi quanto l’effetto duri (se dura quanto dura la ricezione o se permane per un tempo dopo, è irrilevante per giudicare questa posizione; in entrambi i casi si tratterebbe di un effetto che, anche se non fosse passeggero, non trasformerebbe il destinatario in nessun aspetto sostanziale: psicologico, politico, morale o ideologico; lo confermerebbe soltanto in ciò che è così com’è). La catarsi, nel non lasciare tracce indelebili, permeterebbe che ogni nuova ricezione fosse come la prima. Però la avidità di commozioni da parte dei derstinatari contemporanei, come correlazione  a una capacità ampliata  di ricevere stimoli di una intensità emotiva sempre più alta, dimostra il contrario: che la ricezione non è innocua. I destinatari, impercettibilmente, si trasformano e ciò in cui si trasformano è in pubblico.

            Il pubblico si caratterizza per attendersi dall’arte ciò che manca nella vita. La sorpresa è ciò di cui il pubblico più abbisogna, perché il suo stato d’animo primordiale è l’apatia. Sono gli apatici (e non gli appassionati) coloro che diventano più esigenti in materia di stimoli forti. Essere pubblico implica per se stesso un comportamento apatico. La apatia è stata la prima caratteristica esibita dalle masse quando si resero visibili (1) . Il pubblico, finché è pubblico, ha un comportamento simile alla massa.

            Di fronte a questa situazione, gli artisti contemporanei incominciarono a chiedersi quale sarebbe il modo con il quale un’opera deve interpellare chi già è predisposto ad essere interpellato. Con l’irruzione dell’arte pop e degli happening il pubblico cessò definitivamente di essere una categoria sociologica per trasformarsi in una categoria estetica. E questa trasformazione non può spiegarsi con la sola dialettica dell’arte del XX secolo (con il suo divenire dal dadaismo fino ai giorni nostri) ma richiede invece di ricorrere all’aiuto di un'altra dialettica, quella della cultura di massa, in modo da porre congetture che prendano in considerazione un’altra forma di catarsi: quella che insegnarono i mezzi di comunicazione.

 

       I primi a confrontarsi con il dilemma della provocazione furono i dadaisti. Ciò che constatano all’inizio è che, per quanto gridassero e facessero rumore sui tavoli del Cabaret Voltaire, i presenti continuavano a guardarli, senza aprir bocca, dietro i loro boccali di birra. In ogni modo, non mancava molto perché uscissero dal loro stato di noncuranza. Quando ne escono, non lo fanno per esprimere la propria ira per tanta provocazione, bensì perché desiderano partecipare. Nel 1916 i dadaisti si attendevano “la collera dei piccoloborghesi, affinché quella collera li portasse ad una vergognosa rivelazione di se stessi” (racconta Richter, che era presente). Ciò che ottennero, passato un certo tempo, fu “una vera frenesia di partecipazione”. (2) Essi stavano dando al pubblico qualcosa di cui il pubblico aveva bisogno, ma appunto prima che il pubblico si rendesse conto che ne aveva bisogno. Non appena se ne fosse reso conto, avrebbe voluto rompere la siepe invisibile che lo separava dagli artisti: non più l’idea dello scenario. Sebbene i dadaisti non usassero propriamente uno scenario, agivano come se ce ne fosse uno, intangibile, che il pubblico avrebbe dovuto abbattere, quando avesse capito il programma. E’ ciò finalmente accadde. Dopo tutto, non era ciò che il dadaismo voleva?

                Ciò che accadde al dadaismo con il pubblico fu un fenomeno non trasferibile all’arte contemporanea, perché gli accadde in quanto aveva un pubblico esclusivamente libresco. Che i presenti nel Cabaret Voltaire fossero stati formati come destinatari dai libri, senza che i libri fossero in competizione con i mezzi di comunicazione per il controllo delle loro anime, è un dato che non dovrebbe essere considerato di minor conto nel considerare il loro comportamento. La cosa più rilevante di quel comportamento non è che sia mutato dalla passività alla partecipazione  (o al desiderio frenetico di partecipazione), ma che ci sia voluto del tempo per questo passaggio. Il tempo trascorso prima del cambio segna la differenza fra quel pubblico e quello contemporaneo. Questa differenza, pur se di grado, finisce con l’essere una differenza abissale. Ancora una volta, come succede con tante cose della società di massa, una differenza quantitativa muta in qualitativa. Il pubblico con il quale s’incontreranno gli artisti nel decennio del sessanta è un pubblico educato in un modo del tutto nuovo, perché in esso convergono una cultura libresca appresa nella scuola e nella università (senza la quale non si interesserebbe all’arte) e una inoccultabile avidità di sorpresa imparata dai mezzi di comunicazione (senza la quale non sarebbe tanto cosciente di ciò che sta cercando in un ambito che identifica con l’eccentricità e la sorpresa). Ne deriva  che nel confrontarsi con questo nuovo pubblico gli artisti si sentano obbligati a riflettere su di esso. Buona parte del percorso dell’arte contemporanea  (dal pop agli happening, dagli happening all’arte dei media e al concettualismo) è segnata da questo nuovo rapporto con il pubblico.

            Orbene, il pubblico più avido di essere commosso è, paradossalmente, quello più anestetizzato. La capacità di ricevere stimoli forti è proporzionale all’incapacità di commuoversi facilmente. Il pubblico del dadaismo, invece, era in condizione di scandalizzarsi, per cui la provocazione fu una legittima sperimentazione artistica per interpellarlo e scoprire cosa volesse. Quel pubblico scoprì in corsa il suo desiderio di partecipare. Non poteva saperlo immediatamente (doveva scoprirlo) perché la sua formazione lo predisponeva a comportarsi di fronte all’arte come se fosse a messa. La speranza dei dadaisti che si scandalizzasse era ben riposta. Avvertivano correttamente qual’era l’atteggiamento rispettoso e passivo al quale l’esperienza borghese dell’arte aveva abituato i fruitori delle belle arti. Per cui ora dovevano abituarsi allo scandalo, completando così la loro formazione di destinatari. Ciò che sorprese i dadaisti, in ogni caso,  fu  che lo fecero più rapidamente di quanto essi potessero prevedere. L’esperienza dadaista è cruciale, perché mostra gli artisti come persone più avanzate del proprio pubblico, capaci di mettere a prova la sua capacità di ricezione e, in ultima istanza, di educarlo per il futuro dell’arte.

               Il pubblico con cui si confronta l’arte contemporanea, invece, obbliga gli artisti a metterlo alla prova mediante il sadismo. Essi ormai non lo educano, invece lo castigano  (e lo castigano anche senza alcuna speranza di poterlo educare). La disciplina serve solo a dimostrare la tempra del pubblico, non a modificarne l’atteggiamento.  Orbene, cosa è successo al pubblico nel corso del secolo perché gli artisti abbiano rinunciato a educarlo, e perché non esista per loro altra alternativa che odiarlo così com’è o amarlo così com’è (senza che, disgraziatamente, possano ignorarlo, come poté il modernismo)?

 

Nel corso del XX secolo il pubblico si è specializzato. I consumatori culturali  impararono rapidamente  dove dovevano cercare il tipo di intrattenimento che era stato loro assegnato. E ciò significa qualcosa di più del noto sferzante detto adorniano secondo cui l’industria culturale s’incarica di dividere con chiarezza l’arte seria dall’arte leggera, in modo tale che nessuno confonda i prodotti. E’ vero che suddividire e classificare il pubblico è il lavoro fine dell’industria culturale. Ma in questa doppia operazione c’è un in più, che non si evidenzia del tutto a chi solo vuole giudicarla per il suo fine ultimo, che è la manipolazione. Questo in più è il sapere che il consumatore culturale acquisisce su se stesso e sulla società dei consumi. Il fatto che ognuno sappia, quando vuole divertirsi (quando in realtà vuole occupare il suo tempo libero), quale tipo di eventi sono stati pianificati per il suo profilo di consumatore culturale, comporta un alto grado di autocoscienza su una parte della propria soggettività. Su questa specializzazione  (o meglio, su ciò che quella specializzazione comporta come autocoscienza dei consumatori culturali) contò a suo favore il modernismo. Questo vantaggio gli permise di sviluppare i suoi programmi con il grado di negatività desiderata e gli risparmiò, anzitutto, il disturbo di entrare in dialettica con il pubblico. Perciò il modernismo  poté essere il culmine e, nello stesso tempo, la fine dell’arte seria.  Il canone adorniano del modernismo ne è un buon esempio. Quel canone (3) per essere coerente, deve escludere parzialmente Wagner e le avanguardie storiche (4) e includere invece Schönberg, Webern e Berg e la serie di scrittori e poeti che va da Baudelaire e Flaubert (via Mallarmé, von Hoffmannsthal e George) fino a Valéry e Proust, Kafka e Joyce, Celan e Beckett. Gli autori compresi nell’elenco fanno capire fin dove può arrivare la serietà dell’arte. (5) Il modernismo si integra a due grandi narrazioni: la storia della grande arte, che completa con opere maestre ineludibili, e la storia dell’arte seria, essendo la natura stessa del suo ermetismo sinonimo di serietà.

       L’opera d’arte modernista è ermetica perché richiede di essere interpretata, anche se nessuna interpretazione può risolvere il suo enigma. Questo ermetismo cronico comporta uno stato del suo linguaggio, non il fatto che l’opera (in quanto oscura, in quanto aperta) si rivolga al pubblico per cambiarne il comportamento. L’appello ad interpretare è completamente diverso dalla provocazione. La provocazione implica ciò che implica la catarsi: un effetto emotivo di elevato impatto sul destinatario. Ne deriva che la risposta all’appello all’interpretazione mai possa essere la partecipazione, intesa  come il desiderio di cancellare la linea immaginaria che separa il pubblico dagli artisti. Chi si propone di interpretare un’opera modernista sa in anticipo di essere da essa ignorato. Ciononostante, siccome nessuna interpretazione può essere l’ultima, mai a quest’opera mancheranno gli interpreti. L’erudizione estetica di cui dovranno disporre per abbordarla continueranno a trovarla nella cultura libresca. Ogni altra fonte risulta superflua , perché si tratta di interpretare opere che si sono chiuse alla società e che solo per tale chiusura  sono state capaci di un così alto grado di autonomia.

          L’arte modernista, come parte della storia dell’arte seria, e come parte della storia della grande arte, ha avuto (e continua ad avere) il suo pubblico, un pubblico che si consacra ad essa come parte di una resistenza attiva al divenire delle arti dopo la pop. Il problema che imposta l’arte pop (e tutto ciò che viene dopo non fa altro che approfondire questo problema) non è tanto che la sua novità non possa essere letta come tale all’interno della linea storica aperta dal modernismo, quanto che essa non può essere letta con gli stessi presupposti della grande arte e dell’arte seria con i quali poteva ancora leggersi il modernismo. Sottraendosi a questi presupposti, il suo ermetismo non appare come un indice di negatività (come indice di un linguaggio non comunicativo, autonomo e chiuso alla logica sociale) bensì di arbitrarietà (come indice di un accadimento soggettivo che per integrarsi nella storia dell’arte ha bisogno di un discorso teorico indipendente dall’esistenza dell’opera). In questo senso, è paradigmatica la lettura dell’arte pop cha fa Masotta mentre il fenomeno è ancora in corso. Egli non spiega la pop in termini di analisi strutturale in quanto considera se stesso uno strutturalista, ma perché considera che la linguistica saussuriana ha un rapporto intrinseco con la pop. Gli artisti pop intuiscono che ci sono solo codici, che ci sono solo linguaggi, ed è ciò che tematizzano nelle loro opere. Le moltiplicazioni di Warhol non pretendono di esprimere, bensì di significare (ma non di significare qualcosa di concreto, bensì di far sentire la presenza del codice). (6) Un'altra lettura dell’arte pop, filosoficamente mediocre, però egemone  nei media  della critica dell’arte, è quella di Danto, nella quale la Brillo Box di Warhol (1964) segna la fine del modernismo e l’inizio  della fine dell’arte.  In questa versione, solo una teoria filosofica sulla morte dell’arte può convalidare come parte della storia dell’arte le opere e le esperienze artistiche  che succedettero all’arte pop.

 

   Il pubblico della pop, degli happening, dell’arte dei media, e del concettualismo in genere, non può essere pensato allo stesso modo del pubblico illuminato che accompagnò il  modernismo. Si tratta di un pubblico interamente nuovo, che si è formato quando il modernismo (ancora partecipe dell’idea della grande arte e dell’arte seria) cominciava ad entrare in crisi, e quando gli artisti (come le loro opere) già si erano riconciliati definitivamente con l’industria culturale. Lo happening, in questo senso, è il fenomeno per eccellenza per pensare il modo in cui i mezzi di comunicazione di massa sono intervenuti nella trasformazione dell’atteggiamento del pubblico di fronte al nuovo .(8)

               Quando appare l’arte pop, la dialettica fra l’arte seria e l’arte leggera già era altro da quella che valeva per il modernismo. Il problema, ora, è che l’arte non può trarre più benefici dalla specializzazione del pubblico. La buona predisposizione al nuovo che manifestano i consumatori culturali più avanzati nel decennio sessanta obbliga gli artisti a riflettere  sul  modo in cui un’opera deve interpellare un pubblico che agisce coscientemente come pubblico. Il nuovo pubblico non solo si comporta come pubblico perché si trova psicologicamente ben disposto al fatto che gli artisti si occupino di toglierlo dalla quotidianità, ma anche  perché si avvicina agli spazi destinati all’arte alla ricerca di un tipo di sensazioni  alle quali lo ha abituato la società mediatica, nella speranza di riceverle in dosi maggiori. I media di massa (onnipresenti, anche per chi pretenda di ignorarli) creano giornalmente l’aspettativa che in essi apparirà il nuovo, inteso come l’inatteso, l’insolito, il meraviglioso, il catastrofico, lo strano, l’aberrante, o il bizzarro. L’impatto del nuovo, a sua volta, sparisce rapidamente seguendo il principio che non c’è niente di più vecchio di ciò che era di moda  o era importante ieri. Di fronte a questa tendenza in cui l’effetto del nuovo si sfuma sempre più rapidamente, i consumatori culturali dell’arte contemporanea vanno in cerca da soli di eventi straordinari (che sono straordinari per le stesse ragioni per cui qualcosa è straordinario per i media: perché inaspettati, insoliti, meravigliosi, catastrofici, strani, aberranti o bizzarri), ma lo cercano in uno spazio (quello ancora riservato all’arte) dove quell’effetto  pretende di essere più autentico  di quando si produce per una catarsi che sia condivisa anche con il volgo.

          Per questo i performer si trovarono in una situazione opposta a quella in cui si trovò nel suo momento il dadaismo. Il pubblico degli happening era avido non solo di essere sorpreso, ma anche di poter partecipare all’arte come se si trattasse di una festa, non di uno spettacolo.  Non era disposto a mantenere né la distanza né la compostezza.  Come controparte, gli artisti cominciarono a esercitare un sadismo ogni volta più intenso di fronte a una simile ansietà del pubblico. (9) La scommessa, in ogni modo, la poneva il pubblico agli artisti, per vedere quanto più fossero capaci di provocarlo. In  modo simile a ciò che avviene con il sadomasochismo, quando si tratta di un rapporto convenuto (e soprattutto se è convenuto per denaro), il potere lo detiene sempre lo schiavo. Nella misura in cui è capace di continuare a ricevere quegli stimoli per i quali ha pagato il biglietto, il pubblico incita gli artisti ad alzare la prossima volta la posta e a dargli qualcosa in più piuttosto che un di più della stessa cosa.(10)

     Racconra Masotta che quando i suoi amici di sinistra, nel 1967, gli ponevano domande, molto seccati, sul significato dello happening che aveva fatto, egli lo definiva come “un atto di sadismo sociale esplicitato”. (11) Quello happening, chiamato “ Per indurre lo spirito dell’immagine”, intensificava il sadismo che aveva visto a New York negli happening altrui. (12) Il suo sadismo arrivava al punto di dire al pubblico quanto poco aveva pagato gli attori per lasciarsi sfruttare in quel modo e a ricordargli  quanto gli aveva fatto pagare il biglietto per permettergli di essere partecipe in questo atto di sfruttamento. Dopo aver scoperto il sadismo che avevano esercitato su di lui mentre faceva parte del pubblico (sopra tutto nello happening di La Monte Young, dal quale confessa di essersene andato via dopo venti minuti perché non sopportava il lacerante suono elettronico che avvolgeva il recinto) applica nei suoi happening un sadismo maggiore. Ma appena lo fa, già non ci crede più. Anzi, si potrebbe dire che lo fa per screditare il genere. Nel suo happening diventa esplicita l’intenzione di contestare al pubblico la sua stessa mansuetudine, anche senza alcuna garanzia che a causa di ciò quello stesso pubblico, pur ampliando la sua capacità di essere sfidato, rifletta anche sul perché si sottometta cosi mansuetamente alle arbitrarietà degli artisti. Masotta, ciononostante, non poteva teorizzare a questo riguardo, nella misura in cui egli stesso aveva dovuto incorrere nel paradosso di produrre un evento esplicitamente sadico per sottolineare il sadismo che il genere praticava regolarmente in un modo più o meno occulto.

 

      Il destinatario si comporta tanto più come pubblico, quanto più lo si fa partecipare. Lo stesso succede oggi nella radio e nella Tv, dove in permanenza ci si appella alla partecipazione del pubblico, mandando e-mails, telefonando, o direttamente assistendo per competere o per  raccontare la propria vita, e nella scuola e nell’università, dove i docenti incitano gli studenti a partecipare alle loro lezioni, ponendo loro delle domande affinché alzino la mano e prendano la parola. L’indice di partecipazione, in ognuno dei casi, si considera la chiave del successo (o dell’insuccesso) del conduttore del programma o del docente incaricato del corso, dato che egli avrebbe ottenuto (o no) di togliere dall’apatia chi per definizione è apatico.

           Orbene, da dove proviene l’associazione fra il pubblico e l’apatia? Chi è il pubblico ? Perché il pubblico non è un collettivo. E’ un comportamento individuale che tutti, assolutamente tutti, adottiamo in certe occasioni, come quando andiamo a teatro, al cine, al museo, alla galleria, alla sala di concerti, o a quelli spazi pubblici dove si realizzano eventi artistici  o si espongono opere  che vogliono rompere con l’idea stessa di spazio chiuso. Essere pubblico vuol dire il diventare anonimo di qualcuno che, in un  altro contesto, è un individuo con nome, cognome e una biografia. Ciò che nell’estetica (come disciplina filosofica) si conosce normalmente come ricezione (l’esperienza soggettiva di una opera d’arte) è un termine che non comprende del tutto questa sfumatura di anonimato che comporta la partecipazione a un evento al quale anche altri si sentono egualmente  convocati. (13) Quest’incontro fortuito fra consumatori culturali affini produce un tipo di esperienza della propria soggettività che non si dovrebbe minimizzare: la stessa esperienza di anonimato che si sente nell’essere parte di una classe dove tutti i presenti desiderano imparare la stessa cosa o di un programma TV o di radio dove tutti competono per lo stesso premio.

 

             Il disprezzo per la passività del pubblico (manifestato in primo luogo dai dadaisti e ripreso varie volte fino ad oggi dai situazionisti e neosituazionisti) fa che lo si inviti a un tipo di partecipazione che non tarda a rivelarsi come parte di quanto si critica. La perdita del confine fra l’artista e il non artista, lungi dal sembrare il compimento di una utopia libertaria, ha dei risvolti piuttosto autoritari che, poiché non si sono potuti vedere fin dall’inizio, non vanno minimizzati nella loro importanza a partire dal momento in cui si vedono. Cancellato quel limite, il pubblico si sente costretto ad accettare che, pur partecipe dell’arte come di una festa, fa parte degli invitati, non degli anfitrioni; ad accettareche, anche se non c’è una linea di demarcazione esplicita all’interno dello spazio che occupa assieme agli artisti, ciò che a lui manca per essere uno di loro è precisamente quell’opera, che adesso lo richiama e che non gli appartiene, perché un altro l’ha creata. Se tutti coloro che desiderano partecipare al mondo dell’arte lo facessero in qualità di artisti (si dovrebbe dire il partecipante a modo di consolazione per sé e di scusa per gli artisti) l’arte scomparirebbe. Quando tutti potrebbero fare arte e ciononostante non lo fanno, la differenza fra artisti e pubblico diventa più arbitraria e, in un certo qual modo, la si mantiene come fosse un muro di contenzione simbolica affinché l’arte (intesa ala maniera di una professione liberale) possa continuare a esistere per il bene di tutti coloro che fanno parte del suo circolo. Sebbene attualmente molti artisti non vogliano che le proprie opere vengano considerate arte seria e incorporino anche la banalità come valore estetico, sembra  che richiedano comunque che coloro che s’interessano ad esse parlino e scrivano come se lo fossero.(14) Alla irriverenza degli artisti sempre corrisponde la riverenza del pubblico, mediata dalla critica. Ma non bisogna dimenticare che i critici, essendo l’avanguardia del pubblico, ne fanno parte.

 

Note

 

  1. Vedasi, soprattutto, la descrizione della psicologia dell’uomo-massa che facevano gli autori del XIX secolo e e degli inizi del XX in: Hannah Arendt, Las orìgenes del totalitarismo, Madrid, Taurus 1974, terza parte, cap. X. 1, pp. 396-398
  2. Hana Richter, Historia del dadaismo, Buenos Aires, Nueva Visión, 1973, p. 21.
  3. Ricostruito qui ai fini di portarlo come esempio del tipo di modernismo radicale che difende Adorno e di porre a sua volta Adorno come esempio di una difesa radicale del modernismo.
  4. Nel caso di Wagner come in quello delle avanguardie, l’intenzione di commuovere il pubblico li mostrava partecipi allo stesso tempo di due mondi in principio irriconciliabili, ma che presto si sarebbe trovati in franca dialettica: quello del modernismo e quello dell’industria culturale.
  5. L’elenco non contiene artisti plastici, ma potrebbe ben contenerli (Klee, Picasso) se poniamo l’ideale dell’oscurità come corrispondente visivo della negazione del linguaggio comunicativo che Adorno trova soprattutto nella letteratura, nel teatro, nella musica.
  6. Oscar Masotta, Revoluciòn en el arte. Pop-art, happennings y ate de los medios en la dècada del sesenta, Buenos Aires, Edhasa 2004,n p.158
  7. 158
  1. nos Aires, Edhasa 2004,n p.li anni sessantaione del linguaggio comunicativo che Adorno trova sopratutto tere a sua volta QAd “….(Il modernismo) giunse alla sua fine quando l’arte giunse a una fine, quando l’arte, così com’era, riconobbe che l’opera d’arte non doveva essere in alcun modo speciale. Incominciarono ad apparire parole d’ordine come “Qualsiasi cosa è un’opera d’arte” o quella di Beuys “Chiunque è un artista”, cosa che mai era successa in nessuna delle grandi narrazioni che cito [quella del Vasari, che definisce l’arte come rappresentativa, e  quella di Greenberg, che distingue la pittura da qualsiasi altra arte per le condizioni materiali del mezzo]. Era finita la storia della ricerca dell’arte seguendo la identità filosofica. E adesso che finiva, gli artisti erano liberi di fare qualsiasi cosa volessero…..”

Arthur Danto, Despuès del fin del arte. El arte contemporaneo y el linde de la historia, Buenos Aires, Paidôs, 1999 Cap. 7, pp 149-150

8       Così come Richter, testimone e factotum della esperienza del Cabaret Voltaire, narrò il divenire del pubblico di fronte al dadaismo, Sontag e Masotta fecero lo stesso con gli happenning. Ambedue offrono una descrizione  insuperabile  del comportamento del pubblico, ma (a mio parere) non comprendono la natura di quel rapporto, probabilmente perché facevano parte di quanto pretendevano spiegare e non avevano ancora preso la distanza sufficiente, affinché i contorni del fenomeno spiegato si vedessero nitidamente. Ad ogni modo, mi baso sulle loro descrizioni (non sulle loro interpretazioni) prendendole come documenti, nella loro qualità di testimoni diretti degli happening.

Gli happening, come li descrive Sontag nel 1962  sembravano esplicitamente creati per irritare e maltrattare il pubblico. Vedasi Susan Sontag “ Los happenings, un arte de yuxtaposiciòn radical, en: “Contra la interpretaciòn”, Buenos Aires, Alfaguara, 1996, pp 342-343. Rispetto agli artisti argentini, Masotta segnala  che sembravano più sedotti dal sensazionalismo proprio di questo tipo di eventi (nei quali la registrazione da parte dei media  costituisce una componente nuova  e fondamentale per la vocazione provocatrice  della neo-avanguardia) piuttosto che predisposti a riflettere  sul problema  della ricezione. Nonostante, distingue l’atteggiamento di Alberto Greco da quello di Dalila Puzzovio, per esempio, a favore del primo.

10.    Secondo Masotta, l’arte dei media, essendo più concettuale e meno sensibile dello happening, non ebbe a Buenos Aires una accoglienza così clamorosa come quella. Se una conversazione reale, registrata, doveva essere ascoltata sotto l’etichetta di“opera letteraria”, lo spettatore (se non altro perché spettatore) si attendeva “qualcosa da vedere”.

11.    Masotta, op. cit. p.312

12.    Ma quella riflessione, implicita nella pianificazione dell’evento, non fu trasferita alla teoria. Masotta solo riflette sul sadismo degli happenning  facendo un happening più apertamente sadico di tutti quelli che aveva visto. Così come il suo atteggiamento verso la pop è teorico, di fronte allo happening diventa teorico-pratico e nei confronti dell’arte dei media, definitivamente pratico (solo che nell’arte dei media la pratica non può essere che riflessiva)

13.    Lo include nella misura in cui non si riferisce al destinatario come a un individuo con nome e cognome e biografia, bensì come a un soggetto che si rapporta con l’opera da una condizione relativamente indipendente da quelle particolarità (come soggetto di conoscenza o come soggetto suscettibile di sentire piacere e dolore a seconda del tipo di opera); altrimenti il suo giudizio estetico  non sarebbe altro che una mera proiezione psicologica. Non lo include, nella misura in cui non ruflette su quale capacità nuova gli crea l’abitudine di fare catarsi (perché chi è un habitué degli avvenimenti artistici, per qualcosa riprende con una certa frequenza la sua attività di destinatario)  

       14.  Un eccellente esempio sarebbe la discussione sulla retrospettiva di Bellezza e Felicità, e la idea stessa di tale retrospettiva. Vedasi “The ByF affair”, in Ramona  N° 31, aprile, 2003, pp 34-71

 

 

 

 

 

*Questo testo viene pubblicato per gentile concessione della rivista “Punto de Vista” (Buemos Aires), dove è apparso nel dicembre 2005 (n.83). Silvia Schwarzböck è Profesora Adjunta di Estetica nella Scuola di Filosofia della Università di Rosario, Profesora Asociada di Filosofia nel Dipartimento di Scienze Sociali della Università Nazionale di Quilmes e Profesora Titular di Storia del Cinema Documentario II nella Università del Cinema. Fra le sue pubblicazioni: “L’eredità di Prometeo (1994) e una edizione critica della “Fondazione della metafisica dei costumi” di Kant (1998), oltre a saggi sui temi di filosofia contemporanea, estetica, arte e cinema.