Conversazione con l?arch. Renato Rizzi*

?

* Intervista di Andrea Serafini al prof. Renato Rizzi, titolare del corso di Teoria e Tecnica della Progettazione Architettonica presso l?Istituto Universitario di Architettura di Venezia


Tempo Fermo: Se domani, svegliandoti, fossi pervaso da una certezza, ovvero che l?arte ? morta, quali sarebbero gli indizi di un simile accadimento?

Renato Rizzi: Non userei il condizionale, questi indizi esistono gi?! Sono convinto anch?io del fatto che il nostro tempo ha svilito l?attivit? artistica, e questo perch? abbiamo dimenticato i nostri fondamenti culturali. Infatti, tale artisticit? la intendo prevalentemente, se non totalmente, di natura "metafisica". Capisco che voi, invece, parlate di "narrazione", e quindi usate un linguaggio diverso dal mio: ma questo non mi sembra un problema. Se ho capito bene, per voi un oggetto artistico deve essere sempre e comunque anche narrativo, ed ? tale quando la narrazione che sottende l?opera passa in secondo piano rispetto alla forma.

T.F.: S?, ? artistico solo quando la "funzione prima" della narrazione presente nell?opera ? quella di mostrare la propria forma. Ogni racconto per sua natura comunica un messaggio; ma quando la forma che veicola quel contenuto prende il sopravvento e intende soprattutto esibire se stessa, allora siamo in presenza di un oggetto artistico.

R.R.: Non so se ho capito quello che vuoi dire. La questione a cui io faccio sempre riferimento ? quella della forma. Non credo possa esistere qualcosa che non abbia forma, in architettura come nelle altre discipline facenti capo al sistema tecnico delle arti. L?obbiettivo ? sempre e comunque quello di raggiungere un risultato formale, per cui il tema narrativo passa in second?ordine: ad esempio, potrei sostituire il termine "forma" con la parola "metafisica", oppure con la parola "trascendenza", o anche con "teologico". Se una forma si colloca all?interno di questo orizzonte metafisico, trascendente o teologico, allora di per s? contiene sempre una narrazione. Tra l?altro, ritengo che il senso del "significato" debba essere ulteriormente specificato nella misura in cui, riguardo alla forma, ci sono due questioni che vanno tenute assieme: in primo luogo, sappiamo che esiste anche un significato della forma, ovvero che ogni forma ha anche un significato. Il mondo della materializzazione e della secolarizzazione produce forme che sono dotate di significati, ma questi sono significati "funzionali", per cos? dire "materiali" o "primari". Quando si costruisce un edificio, ad esempio, si ha in mente una funzione che esso dovr? assolvere relativamente ad una necessit? concreta. Ma quale ?, invece, il senso della forma? Qui le strade si dividono, poich? il senso intraprende una traiettoria che ci porta verso il tema fondamentale del simbolo e verso il riconoscimento di una metafisica. Allora si deve affermare che il nostro ? un tempo anti-metafisico per eccellenza, e questo ? il grande dramma dell?artisticit? della forma! La non necessit? di una metafisica, corrisponde al fatto che la nostra cultura ? disinteressata ai fondamenti, siano essi di natura ontologica o epistemologica, metafisica o teologica. La teologia, infatti, non ? qualcosa che ha a che fare con la religione (nel senso tradizionale che conosciamo): ? la parola nobile della metafisica, ed ogni opera d?arte ? "teologica". In ogni caso. Ogni opera d?arte, quando ? veramente tale, raggiunge la sua teologicit?, quindi la grande metafisica.

T.F.: Ma questi oggetti di cui parli, nella storia dell?arte, sono pochi, pochissimi o in numero elevato?

R.R.: Certamente in numero elevato. La modernit? forse non ne ha prodotti moltissimi, ma comunque ci sono numerosi esempi anche di arte modernista. Piuttosto, bisogna dire che oggi assistiamo alla proliferazione di forme degradate dell?artisticit?, forme che ingannevolmente ci vengono presentate come opere d?arte ma che in realt? alludono alla sua presenza solo marginalmente.

T.F.: Allora sei d?accordo anche tu nel ritenere uno dei maggiori responsabili di questo fraintendimento M. Duchamp, l?inventore del ready-made e del concettualismo in arte? Per tutta l?arte concettuale, infatti, la forma non ? mai il risultato cercato nell?attivit? svolta. Non a caso i concettuali si fermano all?idea, la quale ha poi come obiettivo mostrarci il mondo attraverso uno sguardo inedito, sorprendente, spiazzante. Ma non giungono mai ad una vera e propria trasfigurazione della realt?.

R.R.: Duchamp ? stato un grande provocatore, ma la sua opera non pu? essere ripetuta. La sua attivit? e la sua produzione, come anche quella di M. Ray con il quale ha lavorato, costituiscono delle singolarit? irripetibili. In ogni caso il "Grande Vetro" (come molte altre sue opere) rimane un?opera dal fascino irresistibile.

T.F.: Pertanto la ritieni un?opera d?arte?

R.R.: S?, certamente perch? sono opere evocative e affascinanti. Il fascino ? la qualit? specifica della forma, ? il modo con cui la forma si esprime e ti fa capire qual?? l?immensit? dalla quale l?opera stessa proviene, essendo per sua natura in relazione con l?infinito. Quando ci si trova di fronte al fascino, siamo al cospetto di una propriet? che appartiene all?opera e sollecita la sensibilit? soggettiva dell?osservatore. Faccio riferimento a M. Blanchot. In un suo libro, "Lo spazio letterario"1, afferma (come spesso si ? affermato nella classicit?) che l?opera d?arte in quanto tale preesiste, sta prima di noi: o meglio, semplicemente "sta". Siamo noi che dobbiamo andare incontro alla qualit? e alla nobilt? dell?opera. Ovvero ? l?opera che chiama noi, e noi dobbiamo prepararci per questo compito. E una volta chiamati, noi dobbiamo accompagnarla nel mondo dell?apparire. Noi costituiamo l?indispensabile transito, ma ? comunque essa a chiamarci: questo modo di intendere il rapporto con l?opera ? radicale, molto lontano dalla cultura dominante, tecnico-scientifica, dove ci si avvale del dominio della "cosa". Noi oggi ci riteniamo capaci di realizzare qualsiasi cosa attraverso la tecnica, ci consideriamo dei demiurghi che, nella nostra grandezza o volgarit?, producono senza limiti gli oggetti a noi utili. Ma questa ? la volont? di potenza inscritta nella tecnica. Mentre Blanchot afferma, in relazione anche con la grande tradizione classica, che per almeno diciassette secoli siamo stati totalmente immersi in una volont? di contemplazione e non di dominio! Questo implica che c?? stato uno spostamento del centro esistente tra noi e l?opera: con la Modernit?, infatti, (e la modernit?, in senso generale, inizia ancora molto prima del rinascimento!) si ? messo al centro l?autore e in periferia l?opera. E? l?autore, in questo modo, a dare un significato alla propria attivit?, manifestando una volont? di dominio sulla cosa prodotta.

T.F.: Ma questo ? Duchamp, mi sembra evidente.

R.R.: S?, certo, ma non ? solo questo. Dobbiamo tenere conto che Duchamp opera in un momento storico dove tutto il sistema delle arti si era notevolmente affaticato, annichilito, e dove prevaleva una sorta di manierismo negativo. Capisco benissimo come avesse la necessit? di esaltare l?idea, e l?idea mette in gioco anche un altro tema che attualmente viene trascurato: la logica. L?estetica, senza logica, quasi svanisce. Ma la logica, di cui l?estetica ha disperatamente bisogno, ? oggi dominata dallo psicologismo. Tieni presente che, in un?accezione pi? ampia, la logica ? ?????????. La filosofia ti introduce al pensiero sistematico e ti apre al senso dell?essenza delle cose, perch? ? quel pensiero che pensa il "tutto". Chi, per esempio, ancora oggi fa uso della logica aristotelica utilizzando tesi, antitesi e sintesi? La triangolazione aristotelica "idea, immagine, cosa", ? un sistema che ancora oggi dovrebbe essere fondativo ma nel nostro tempo, caratterizzato dal nichilismo, si ? dissipato. Ed ecco che l?idea ? stata sostituita dall?opinione che altro non ? che degradazione dell?idea. E l?opinione, in quanto emanazione soggettiva, trascura l?oggettivit? del senso e ci conduce direttamente alla cosa. I miti ci possono insegnare ancora molto. Medusa ? stata sconfitta da Perseo perch? egli, attraverso lo scudo trattenuto dalle mani di Atena, pu? vedere l?immagine riflessa del mostro evitando cos? il suo sguardo pietrificante. In altre parole, Medusa rappresenta la terribilit? del mondo, e se tu pretendi di guardarlo direttamente "negli occhi", questo ti pietrifica. Mediante la tecnica noi guardiamo il mondo con sguardo "meduseo", senza la mediazione del sapere e cio? in assenza di una relazione tra idea e immagine. Non dobbiamo per? pensare all?immagine, come oggi viene comunemente intesa, come a qualcosa di fugace e apparente, bens? come a ci? che ci protegge e, soprattutto, ci salva "dal" e salva "il" mondo: la fragilit? dell?immagine ? quanto di pi? potente noi abbiamo a disposizione per difenderci dallo sguardo diretto e mortale di Medusa. Il mondo della tecnica nel quale viviamo ? conseguenza del decadimento della metafisica (e della mitologia), e in questo modo siamo pericolosamente esposti alla cosa.

T.F.: Hai esposto il punto di vista di E. Severino, mi pare. Ma un discorso fortemente critico sulla tecnica ? stato svolto in precedenza da M. Heidegger, e che ? stato successivamente ripreso da altri pensatori.

R.R.: S?, ma Heiddeger, nell?estremo tentativo di esprimere l?essere finiva col renderlo evanescente, mentre Severino afferma che l?essere ? eterno e nega il divenire. Da questo punto di vista, la posizione di Severino mette in discussione tutta la nostra concezione estetica.

T.F.: Nonostante Severino non abbia mai affrontato questo tema direttamente.

R.R.: In effetti ? vero, lui si muove soprattutto sul terreno della logica. Ma negare il divenire non ? solo conseguenza di una considerazione logica sul principio di non contraddizione, ? anche il risultato di uno sguardo estetico sul mondo. Nel suo ultimo libro, "La Gloria"2, egli parla dello spettacolo della gioia: la gioia, che appartiene a tutti noi in quanto esseri eterni, si manifesta quando viene riconosciuta la connessione ineludibile tra tutte le cose. La tecnica, al contrario, alimenta la separazione delle cose e conduce all?annullamento delle relazioni, ed allora abbiamo come risultato la specializzazione. E proprio perch? tesa a distinguere e separare, la specializzazione ci porta verso il mondo della violenza: Severino usa il termine "isolamento". Facendo un salto nella filosofia classica, sappiamo che nel Cratilo Platone afferma che ?il bello consente alle relazioni di andare, mentre il brutto impedisce alle relazioni di svolgersi?. Si pu? quindi inferire che una cosa ? brutta quando ? sotto il mio dominio, nel senso che viene a sussistere solo una relazione d?interesse tra me ed essa. Sarebbe invece bella quando quella stessa cosa pu? mantenere tutte le relazioni possibili, ad esempio con la natura, la memoria, il mito, il simbolo. Insomma, il tema estetico per me ? fondamentale, e potrei qui citare anche un altro scrittore, I. Brodskij, secondo il quale ?l?estetica ? la madre dell?etica?. Non il contrario: e questo lo diceva un russo! A sostegno di questa tesi, ricordo che l?ex Governatore della Banca d?Italia, (Guido Calvi), alla domanda: ?Quale problema ? pi? impellente per l?Europa, oggi?? rispose: ?Principalmente manca un?utopia estetica.? Un?economista parla di utopia! In un?epoca come la nostra dove le utopie (e qui si aprirebbe un lunghissimo discorso) sono state smantellate (ma poi non ? cos? vero), in quanto considerate delle prigioni dove vengono incarcerati tutti i valori (o, i sogni). Mentre l?estetica, nel senso alto del termine, non verrebbe trainata solo dalla parola utopia, ma anche da una sua ulteriore declinazione del termine eutopia. Dunque non solo da un luogo "remoto", ma anche da un luogo "felice". Voglio dire che il problema fondamentale dell?estetica oggi riguarda il fatto che mancano le teorie. Lo scrittore La Capria (da voi intervistato), ad esempio, non sempre usa il termine in un?accezione positiva3. In effetti, se la teoria si sviluppa all?interno del nichilismo, sarei d?accordo nell?intenderla in senso negativo: ? astrazione, concettualizzazione, e ci porta sempre pi? lontano, "fuori" dalla realt?. Ma se invece la riportassimo "dentro" l?orizzonte classico, allora diventerebbe lo strumento indispensabile per sintetizzare una visione del mondo. Potremmo anche dire che la contemporaneit? non ? assente da teorie, ma che queste teorie coincidono con il ????. Anche qui, non ci troviamo di fronte all?archetipo nobile del termine, bens? ad una sua degenerazione: il caotico. ? il caotico che governa il mondo attuale. Ma l?archetipo del ???? ? all?opposto dell?archetipo del ??????, poich? da una primigenia condizione assolutamente informe si arriva ad una conclusiva condizione perfettamente "ornata", "decorata". Ti sembra che il nostro mondo sia "decorato" nel senso classico del termine? Nell?ultimo libro di G. Didi-Huberman4, si parla di una ninfa moderna che perde le sue vesti, le quali cadono nel mondo della modernit? come stracci: una splendida allegoria della nostra produzione di spazzatura! Dovremmo rimettere in gioco numerose parole che sono state estromesse dal nostro linguaggio.

T.P.: Ad esempio, i termini "artistico" ed "estetico", direi. Li sostituiresti con altri?

R.R.: No, non ? necessario. Quando all?inizio ho cominciato a leggere alcuni articoli della vostra rivista, non capivo bene l?uso che facevate dei termini. Ma dopo qualche pagina il problema ? stato superato, e mi sono reso conto benissimo della tensione che sottende le vostre argomentazioni. Piuttosto, metterei come punto focale della nostra discussione la forma, e distinguerei il significato dal senso. Collocherei il significato all?interno del nichilismo e del materialismo, perch? ogni cosa ed azione possiede un suo significato specifico, mentre il senso necessita di una riflessione del tutto particolare.

T.F.: In altri termini, il senso potrebbe essere inteso come la "funzione" della forma, mentre il significato come la funzione concreta per la quale l?oggetto ? stato realizzato.

R.R.: Non so, direi piuttosto che il senso costituisce l?essenza della forma. Penso a F. Nietzsche, quando egli parla di Venezia: una citt? la cui costruzione ? stata una sfida all?impossibile, per ovvie ragioni insediative, ma proprio per questo ha dovuto realizzare la virt?. Il sublime obiettivo dei costruttori di Venezia, infatti, non era tanto quello di stabilirsi in un territorio sicuro e protetto da eventuali aggressioni esterne, bens? quello di realizzare nel mondo la virt? in un luogo del tutto inospitale, come appunto la laguna. Dovremmo allora chiederci perch? i Piani Regolatori Generali oggi non si pongono pi? il problema del senso, fraintendendo anche le questioni del significato. Interrogarsi sul senso di un luogo (ad esempio di un?area in espansione) equivale a trovare quella forma che appartiene a quel territorio. Ma il movimento accelerativo della tecnica non permette pi? di maturare la necessaria consapevolezza per affrontare seriamente il problema estetico. Quale sia il destino della forma, nel nostro tempo, resta una questione drammatica.

T.P.: E? plausibile, secondo te, che alla questione di cui ci stiamo occupando, quella della produzione della forma e dell?artisticit? di una forma, possa essere data una risposta in chiave antropologica? In altre parole, se l?operazione artistica ci ? stata necessaria per cos? tanto tempo, ed ora invece non pi?, viene da pensare che sia cambiato qualcosa nella condizione umana in quanto specie...

R.R.: Mi sembra che in greco, ???????? derivi da "anathron opope", ovvero "colui che considera ci? che vede". Questo ? l?uomo, per i greci: colui che mentre guarda le cose, le valuta. Oggi noi viviamo nel mondo del nichilismo dominato dalla tecnica, in un mondo dove apparentemente ogni cosa pu? essere sostituita (come le parti del nostro corpo). Un mondo dove la specializzazione separa e isola ogni cosa e rende possibile ogni risultato: a cosa pu? servirci l?arte, ormai? La tecnica vorrebbe realizzare il Paradiso in Terra! E in effetti, questo ? il suo scopo. Ma come mai, allora, con il crescere della tecnica cresce l?angoscia estrema (Severino)? Perch? la tecnica, nel nichilismo, ? priva di fondamento. A questo punto dovremmo rimettere in gioco un?altra parola: la verit?. All?origine la bellezza era l?apparire della verit? delle cose. E la cosa bella era anche la cosa conveniente, giusta. Ma da quando abbiamo reciso il legame con il tema della verit? e ci siamo asserviti alla tecnica, siamo diventati i suoi servitori. Per? non dobbiamo dimenticare che proprio qui da noi, nella nostra povera Italia, abbiamo pensatori straordinari, in grado di sommuovere questa condizione generalizzante e paralizzante. Severino, ma anche M. Cacciari. Il quale nel suo ultimo libro, "Della cosa ultima"5, smuove il terreno della cultura occidentale alla ricerca di quel humus, di quel lievito vitale che ancora permane sottoterra. Entrambi sono pensatori d?avanguardia che difficilmente potremmo trovare altrove in Europa o anche in America.

T.F.: Analogamente, cercare un fondamento nell?operazione artistica ? possibile? Un tentativo lo ha fatto Calligaro distinguendo in un oggetto prodotto dall?uomo le propriet?, gli attributi e le qualit?. Solo queste ultime conducono all?esperienza esistenziale dell?artisticit?, se presente nell?oggetto, perch? coincidono con i reali obiettivi dell?artefice. Cosa ne pensi?

R.R.: Mi riesce difficile risponderti, in questi termini. Forse l?esperienza esistenziale di cui parlate dev?essere messa in relazione con la metafisica: se l?uomo ? consapevole, oltre che del suo corpo, della sua anima allora si aprir? una dimensione metafisica che ? all?origine di ogni grande opera d?arte. Per i Classici, l?anima ? quel luogo posto sotto la mente dove si d? il senso alle cose. Ma se l?anima ? anch?essa oggetto ti tecnicismi, come ad esempio quelli della psicologia, quali speranze possiamo avere di ritrovare le qualit? di cui parlate? Pensa a un libro come "Psiche e techne", di U. Galimberti6, dove emerge che l?anima ? ormai dominio esclusivo delle tecniche e delle scienze. Vorrei invece mostrarti un altro schema tratto da un?opera di Giordano Bruno, il "De vinculis", dove si tratta dei quattro passaggi del vincolo della bellezza: la mente, ordina le cose; l?anima, orna la serie delle cose; la natura, fornisce i semi; la materia, ne ? l?ornamento finale. Inoltre: ?Chi ha maggiore chiarezza d?animo ? pi? soggetto al vincolo; il vincolo adorna la mente con l?ordine, e quel che vincola ? l?immagine di una cosa o di un?idea?. Voglio dirti che oggi manca del tutto una riflessione capace di aprire la nostra mente a questo mondo del senso. E il senso richiama fatalmente la forma. Noi architetti, ad esempio, dobbiamo rispondere alla storia delle forme costruite che inizia almeno tremila anni A.C. Ma abbiamo dimenticato che il sapere classico si basa sulla contemplazione: i Greci costruivano i loro edifici "sapendo" di venire giudicati da essi, come peraltro da ogni altro fenomeno naturale. Da qui il timore nei confronti delle loro stesse realizzazioni; e il pudore, che permetteva di raggiungere la bellezza: ????? ? una parola importantissima per i greci, perch? solo in presenza del pudore ? possibile realizzare grandi opere. Ancora una volta, il mito ci pu? spiegare molte cose: pensiamo a come nasce la ?????, ma non dal punto di vista storico (essendo la storia la secolarizzazione del mito). Dunque, Prometeo ruba il fuoco agli dei per darlo agli uomini e rimediare alla dimenticanza di suo fratello, Epimeteo, che non li aveva considerati. L?umanit? entra cos? in possesso della tecnica, ma anche con essa gli uomini non riescono a sopravvivere, anzi, si autodistruggono. A questo punto interviene Zeus il quale, vedendo lo spettacolo cruento che porterebbe l?umanit? alla sua estinzione, decide di intervenire elargendo agli uomini altri due doni: ?????, il pudore per l?appunto, e ????, che corrisponde al conveniente, prima ancora che alla giustizia. Solo in quel momento, quando cio? la tecnica ? in presenza sia del pudore che del conveniente, solo allora nasce la citt? e si instaura il vivere civile. E a rappresentare la civile convivenza degli uomini ? l?architettura. Ma va ancora ricordato che il "pudore" greco si trasferisce successivamente nella cultura latina e diventa pietas. L?intero rinascimento, con le sue opere straordinarie, si fonda sulla pietas. La quale ? una parola nobilissima, (che apre a ventaglio altre parole straordinarie come compassione o carit?) e non dovrebbe essere confusa con il nostro banale retaggio religioso.

T.F.: Vorrei cogliere l?occasione per approfondire alcune considerazioni in merito all?architettura. Mi hai appena ricordato come il mito racconta la nascita della citt?, e di come l?architettura rappresenti, al sorgere della ?????, la convivenza civile fra gli uomini. Da queste ultime parole sembra quindi che lo scopo prioritario del fare architettonico non sia quello di progettare edifici atti ad ospitare gli uomini e le loro attivit? urbane, bens? quello di rappresentare, appunto, dei valori condivisi dalla comunit? artefice. E in questo mi trovo sostanzialmente d?accordo, ma prima ancora vorrei ritornare alla questione prima sollevata per l?arte in generale, ovvero alla narrazione sempre contenuta nell?oggetto artistico. Ecco, devi sapere che con la nostra rivista abbiamo esitato ad affrontare questo argomento in relazione all?architettura, perch? la riteniamo una disciplina particolarmente difficoltosa dal punto di vista teorico, e finora non l?abbiamo mai chiamata in causa. Vorrei dunque chiederti: esiste una narrazione che sottende il progetto architettonico?

R.R.: ? raro trovare una narrazione in un progetto architettonico, nella maggior parte dei casi quest?ultimo ? completamente assente. Ma non sempre: prendiamo ad esempio un caso emblematico, quello di P. Eisenman.7 Eisenman ? colui che ha favorito ma anche legittimato teoricamente in architettura, la dissoluzione della forma costruita, che ha introdotto nella disciplina l?uso di figure fluide e sovrapposte, le quali provocano sorprendenti effetti di rottura e di spiazzamento. Ebbene, secondo il punto di vista della maggior parte dei critici, nell?opera di Eisenman non esiste "narrazione" (nel senso da voi inteso) ma solo un brillante gioco linguistico. Pochi si sono invece soffermati sull?aspetto pi? importante del suo lavoro: il ricco patrimonio della cultura ebraica. In quanto ebreo, egli appartiene (ora lo anticipo, poi lo dimostro) al mondo metafisico e per questo ? riuscito ad introdurre nelle sue opere narrazioni straordinarie. Purtroppo lui stesso cela la fonte di queste narrazioni, probabilmente perch? non gradisce il riferimento alla cultura ebraica alla quale comunque appartiene. Ma allora bisognerebbe riconoscere, almeno schematicamente, la differenza che esiste tra la tradizione ebraica e la tradizione greco-cristiana. Tale differenza consiste nel fatto che quest?ultima si fonda sul riconoscimento dello spazio, della dimora, della citt?, mentre la prima privilegia il tema del movimento, il linguaggio, le cui parole fondamentali sono esodo, diaspora, olocausto. Se hai notato, la storia dell?architettura ? priva di architetti ebraici, salvo il Novecento. Per quale motivo? Nel frattempo l?Occidente ? stato attraversato dalla corrente del nichilismo, anch?esso dissoluzione, specializzazione ed isolamento. Anche il nichilismo, voglio dire, conduce verso una fluidificazione delle forme poich? i principi fondamentali sono stati tranciati. Per la cultura ebraica, tutto ci? non corrisponde ad uno sguardo verso il futuro, ma ad un radicale ripensamento delle proprie origini (e, bisognerebbe aggiungere, dei propri simboli). La loro metafisica ? quella del tempo e non dello spazio, del movimento e non della dimora, della dissoluzione e non della contemplazione, del linguaggio e non della forma. Se vista attraverso questo filtro, l?opera di Eisenman rivela delle grandiose narrazioni, dove sono ricorrenti alcuni archetipi simbolici prelevati dall?origine della tradizione ebraica. Simboli che tra l?altro puoi trovare chiaramente inscritti nella K?bala la quale costituisce un sorprendente repertorio di "immagini simboliche" espulse dall?ortodossia ufficiale, che sono in relazione con gli eventi storici che questo popolo ? stato costretto ad affrontare e subire. La rielaborazione dell?evento storico viene sublimato all?interno di una figure simboliche, che stanno alla radice di questa cultura. Eisenman ha attinto a questi simboli e li ha trasportati nel mondo dell?architettura.

T.F.: Ma allora dovremmo chiederci se i suoi progetti e le sue costruzioni, oltre ad essere interpretate come un?espressione dell?ebraismo, possono anche essere giudicate come pure forme, forme che vogliono esibire se stesse in quanto riuscite. Non solo, c?? anche un altro problema secondo me. E cio? che la narrazione in architettura potrebbe essere anche intesa come svolgimento spaziale, anche se nel caso di Eisenman le cose si complicherebbero non poco. Mi riferisco all?abitare una costruzione attraversandone lo spazio fisicamente.

R.R.: L?abitare costituisce la funzione concreta di un?architettura, ma il suo senso risiede ad un altro livello: la bellezza, per esempio.

T.F.: D?accordo, ma io volevo chiarire ancora meglio la questione del significato e della funzione. Permettimi un esempio: in un discorso verbale, il "significato" coincide con il messaggio che voglio trasmettere attraverso l?uso delle parole, sistemate secondo regole grammaticali e di sintassi. Quello che qui chiamiamo "significato", diventa "funzione" in una forma concreta realizzata allo scopo di risolvere un determinato problema pratico. Il quale, per una costruzione, ? proprio quello dell?abitabilit?.

R.R.: Ma non sempre l?abitare costituisce la funzione principale di una costruzione. Se prendessi ad esempio una villa palladiana, La Rotonda, e ti chiedessi: quale ? il suo scopo prevalente, l?abitabilit? o la rappresentazione?

T.F.: Certo, in questo caso sarebbe la rappresentazione.

R.R.: Infatti. La rappresentazione di un?idea metafisica, quella rinascimentale, che risponde egregiamente anche alla funzione dell?abitare. Certamente per Palladio il concetto di abitare aveva una pregnanza diversa rispetto a quella che noi oggi diamo allo stesso termine. Per lui l?Uomo possedeva dignit? e rango divini, per questo doveva abitare nei templi. Per noi invece ? un bipede che dev?essere sistemato ergonomicamente, nel minimo spazio. Che miseria. L?abitare allora in quanto tale non varia, perch? corrisponde ad una necessit? elementare dell?uomo: per cos? dire, ? una costante neutra. Diversamente il suo senso cambia. Penso al progressivo riduzionismo, all?inscatolamento dei vani abitabili, stretti da solai sempre pi? vicini e diventati, da raffigurazioni di volte celesti quali erano un tempo, a semplici loculi, delle "bare" entro cui infilarti, come puoi trovare a Tokyo. Ripeto, quello che mi preoccupa maggiormente ? l?attuale assenza di un mondo metafisico, e quindi l?impossibilit? di una sua rappresentazione.

T.F.: E l?architettura, mi pare, pu? rappresentare questo mondo soprattutto attraverso lo spazio costruito. ? interessante notare che, a differenza delle altre arti figurative, nella storia dell?architettura possiamo trovare accanto ad opere realizzate anche progetti solo disegnati. Ora, mi chiedo quale giudizio possiamo dare a costruzioni inesistenti, non sapendo cio? quali sensazioni avremmo provato attraversandoli, o come avrebbero risposto materialmente alle forze della natura nel tempo. Visto che mai, questi segni grafici, sono diventati "luoghi". Non sei d?accordo nel ritenere la fruibilit? di un oggetto architettonico requisito indispensabile per esprimere un giudizio di qualit? sull?opera?

R.R.: Nell?opera d?arte non esistono priorit?, tutte le componenti che vi possiamo ritrovare sono equivalenti. Per rispondere alle tue considerazioni, non voglio negare l?importanza dello spazio inteso come dimensione dell?abitare, ma allo stesso tempo vorrei condurre la nostra riflessione su altri valori che lo spazio costruito dell?architettura sottende. Secondo Heidegger, il senso della ????? - luogo fisico, reale, concreto dove l?uomo vive - ? quello di "avere cura dell?essere".8 E cio? del senso delle cose. Una volta caduto il mito e poi la verit?, ? riemersa la necessit? del ?????, ed ? cos? che ? nata la filosofia. Ora, mi chiedo chi oggi potrebbe mai risollevare tali questioni senza il rischio di venire schernito o ridicolarizzato? Per?, il vero senso della citt? sarebbe proprio questo. E dietro questo senso, l?architettura contemporanea otterrebbe risultati del tutto diversi rispetto a quelli che oggi materializza.

T.F.: Mi sembra di capire che non sei un modernista.

R.R.: Dipende da quale accezione dai al termine. Dopotutto, il Classico ? sempre stato contemporaneamente anche Moderno. L?epoca in cui ? vissuto Platone, o Pericle, oggi la intendiamo certamente come classica, ma anche come moderna perch? sappiamo che allora c?? stato un "progresso". ? anche vero che sono schiettamente critico nei confronti di altre accezioni di "modernit?". Anche questa tematica, a ben vedere, ? sfuggente e si presta a numerosi fraintendimenti. A R. Barthes una volta hanno fatto notare, in termini provocatori, di come si fosse ideologicamente allontanato dalle Avanguardie, un tempo da lui sostenute. Lui rispose, altrettanto provocatoriamente, di avere s? creduto in quei movimenti, ma di essersi successivamente ravveduto, e di considerarsi invece come appartenente alla "retroguardia". Cosa voleva dire? Che l?"avanguardia" ti mette nella posizione di sapere ci? che ? morto, la retroguardia ti offre la possibilit? di amarlo ancora. Quindi, come vedi la tematica del moderno si presta a diverse interpretazioni. Potrei anche chiederti, allora, se consideri Severino o Cacciari "moderni".

T.F.: In effetti, il termine ha subito nel corso della storia un cambiamento semantico: dalla parola originaria modernus, che sul finire del V secolo manteneva un?accezione temporale, all?aggettivo moderno, che invece fa riferimento a un?accezione di valore. Il modernismo, poi, dovrebbe essere inteso come una risposta formale alla condizione di modernit?: ma su questo torneremo dopo. Per quanto riguarda Severino, se consideriamo la sua capacit? di avanzare nel pensiero metafisico, sicuramente possiamo considerarlo un moderno nel senso, appunto, che ? autore di un "progresso"; ma dal mio punto di vista c?? anche un?altra questione da chiarire. Ovvero che, essendo Severino interessato all?essere, anche quando parla - ad esempio - dell?architettura finisce sempre col parlare dell?essere. Un po? come quando Heidegger, per avanzare la sua ricerca ontologica, analizza un quadro di Van Gogh o fa esegesi sulle poesie di H?lderlin. Nemmeno lui, probabilmente, era veramente interessato alla riuscita della forma pittorica e della forma poetica!

R.R.: Non sono assolutamente d?accordo. Al contrario, si dovrebbe invece ammettere che l?odierna architettura ? chiaramente sostenuta da un preciso e condiviso pensiero filosofico: il pensiero debole, a dall?assenza di pensiero, per il quale il concetto di "essere" viene di fatto annullato. Non esistendo pi? il riferimento alla verit? non esiste nemmeno il riferimento all?essere. Il che ci conduce ad un alleggerimento ontologico, ovvero al relativismo conclamato. Questa posizione, ampiamente sostenuta negli ultimi anni, ha senza dubbio condizionato i temi progettuali dell?architettura contemporanea. Ancora meglio si dovrebbe dire che la produzione architettonica (ma per essere pi? corretti dovremmo usare il termine "edilizia") ? una conseguenza di tale consapevolezza, o inconsapevolezza, filosofica. Non dobbiamo perci? credere che l?architettura sia una disciplina autonoma, regolata da norme interne al suo solo farsi. Infatti, nella nostra realt? italiana l?influenza storico politico sociale (il tutto naturalmente sostenuto dal relativismo filosofico) ha avuto un peso determinante nei confronti della dissoluzione dell?architettura. Ne sono prova le nostre periferie. Quindi, ritornando a Severino, si comprende come il suo sforzo ? tutto rivolto alla negazione di un qualsiasi alleggerimento dell?essere, e pertanto la verit? in esso contenuta non pu? mai venire meno. Inoltre negando il divenire, egli mette in discussione anche il nostro concetto di tempo. Insomma, se davvero il suo pensiero riuscisse a germogliare influenzando le varie discipline, come a suo tempo ? successo per il pensiero Platonico o Aristotelico, ebbene, avremmo un?estetica che rifletterebbe questa nuova condizione. Certo, sarebbe arduo attuarla, perch? tutto il nostro linguaggio verrebbe radicalmente rifondato e la bellezza apparirebbe in una cornice del tutto diversa. Ci? non toglie che per ora noi siamo confinati nel nichilismo, vincolo dal quale non possiamo uscire. Ma diverso ? essere o non essere consapevoli della situazione in cui ci si trova. Possiamo dunque riporci la domanda: quale ? il determinante dell?architettura, la sua funzione o la sua forma? L?estetico, in quanto unit? di etico e logico. E quale ?, poi, il determinante dell?estetico? La bellezza. Diversamente, invece, in quest?ultimo secolo non si ? sperimentato il brutto, il banale, il grottesco, il kitsch? Sperimentare ? legittimo, ma abbiamo poi la capacit? di valutare i risultati?

T.F.: Ti riferisci a qualcosa in particolare?

R.R.: Ad esempio alle periferie delle nostre citt?. Pensa a come si sono sviluppate a partire per lo meno dagli anni Cinquanta ad oggi.

T.F: Mi viene in mente, a proposito, il saggio scritto da R.Venturi, D. Scott-Brown e S. Izenour su Las Vegas9 . Con quel testo gli autori hanno cercato di nobilitare una tipologia d?insediamento nata a servizio del consumo, e in seguito hanno cercato di applicarne i principi estetici.

R.R.: Ma qui verrebbe a galla un altro tema: la differenza tra rappresentazione, presentazione e ostensione. Basta prendere ad esempio il barocco italiano. Su molte facciate di chiese barocche, come a Lecce in particolare, si pu? vedere la raffigurazione di Dio in straordinari bassorilievi. Subito sotto Cristo, la Madonna e poi i Santi. Infine, nella zona bassa, scene di vita quotidiana nella loro carnalit? e perversione. Ma ci? che va detto, ? che sono sempre rappresentazioni grandiose. Il male, il volgare, il brutto sono s? "presenti", ma come tema di una "rappresentazione" esteticamente superba. Voglio solo sostenere che una cosa ? l?oggetto "presentato", altro ? la rappresentazione. Ma se volessimo davvero progettare il brutto, consapevolmente, allora si potrebbe tendere, almeno, al sublime. Invece, nella nostra architettura si cerca innanzitutto di coprire le nostre miserie espressive con l?aura di una disciplina che sembra ormai evaporata, lasciando il posto ai suoi residui "edilizi".

T.F.: Finalmente hai accennato alla differenza tra edilizia ed architettura, secondo me cruciale per tutto il nostro discorso. In genere, quando parliamo di edilizia ci riferiamo a fabbricati comuni, la cui modestia non colpisce l?attenzione del nostro sguardo; mentre al contrario chiamiamo architettura una costruzione dall?aspetto inconsueto, e che dunque si discosta dalla tradizione locale. Per semplicit?, potrei dire che nel primo caso la forma del costruito vuole soddisfare solo le esigenze abitative locali, con materiali, tecniche e decorazioni autoctone; nel secondo caso la forma ? anche il risultato di una composizione visiva personalmente studiata dal progettista, utilizzando materiali, tecniche e stilemi eterogenei. In realt?, le cose dovrebbero essere di gran lunga specificate, perch? da un lato anche la comune edilizia possiede un "carattere formale", che non pu? essere giustificato soltanto da esigenze pratico - costruttive; dall?altro l?architettura non deve essere considerata il risultato eccentrico di un libero atto creativo, individuale ed egocentrico. Cosa sia questo "carattere" a cui rispondono tutte le forme concrete di produzione umana ce lo ha spiegato A. Riegl. Secondo l?autore la produzione di un popolo non pu? essere paragonata alle realizzazioni di un altro poich? ciascuna civilt? ? guidata dal proprio Kunstwollen. Il termine, di fatto intraducibile, non ? mai stato teoreticamente definito dall?autore; ma nel suo testo fondamentale10 egli in parte lo chiarisce intendendolo come "una volont? cosciente di forma che si afferma lottando con lo scopo, la materia e la tecnica". Se apparentemente ci? annulla ogni possibile differenza tra edilizia ed architettura, noi potremmo farla nuovamente riemergere distinguendo un carattere che subisce l?influenza visiva del paesaggio (retaggio etnico) ed un carattere che ubbidisce a paradigmi formali (stile epocale). Sarebbe un po? come distinguere la realt? dalla rappresentazione, laddove nel primo caso un popolo vivrebbe nel suo territorio rielaborando le risorse ambientali esistenti, nel secondo caso trasformando l?ambiente allo scopo di renderlo manifestazione della propria volont?. Pensando quindi all?edilizia che ritroviamo nelle nostre periferie, il suo aspetto aberrante ? conseguenza della perdita di una originale dimensione etnica, in seguito all?introduzione dei nuovi materiali e delle nuove tecniche della produzione industriale; materiali e tecniche che possono essere governate solo da una "wille zur form" (volont? di forma). Volendo poi riprendere le tue osservazioni, si potrebbe dire che la bellezza ? il risultato dello stile epocale come prima inteso, mentre le divagazioni del brutto, del banale, del grottesco e del kitsch risentono dell?assenza di paradigmi formali a cui attenersi.

R.R.: ? un?interpretazione interessante. In particolare, la distinzione tra edilizia ed architettura mi sembra tutto sommato analoga a quella che avevo precedentemente esposto: ovvero che la prima si pone solo il problema del significato mentre la seconda si pone anche, e soprattutto, il problema del senso e quindi della forma. ? non ponendosi il problema del senso che si apre la voragine del sapere. Piuttosto, vorrei aggiungere alcuni appunti sul tuo discorso. Certo, l?occhio dell?artefice ? influenzato da ci? che vede, dal paesaggio. Ma dobbiamo anche dire che ciascuno vede rispetto a ci? che sa. E quello che vede corrisponde al proprio sapere. La conoscenza ? saper guardare, e ha il suo culmine nella contemplazione (theoria). E questo il greco lo sapeva bene. ? fondamentale esercitare questo "occhio interiore", questo "terzo occhio" che rinvia all?intelletto, o all?anima se preferisci. Nel romanzo "Cecit?"11, J. Saramago parla di una societ? che ha perso il senso della vista e per questo si scatena la violenza. Ma l?accezione contemporanea del termine cecit? non corrisponde a quella classica, dove diversamente permetteva di vedere o, meglio, di prevedere, di scorgere l?invisibile. Democrito si strappa gli occhi per non essere distratto dai fenomeni esteriori della realt? mondana. Ma dove si radica veramente il nostro nervo ottico, quale sapere (corrente elettrica) ci d? gli impulsi decisivi per guardare le cose? Ma bisogna anche subito aggiungere che "oggettivit?" o "realt?" sono parole difficilissime da pronunciare, perch? il loro senso dipende dal contesto entro il quale vengono inserite. E questo contesto dipende sempre dal sapere che possiedi.

T.F.: Non a caso, per Riegl lo stile inteso come "wille zur form" ? manifestazione di paradigmi trascendenti ai quali ciascun individuo artefice pu? attingere per realizzare il suo prodotto. Ma questi paradigmi insorgono solo qualora sussista una complicit? tra gli individui appartenenti alla comunit?, ovvero esista una comune volont? di rappresentare la propria condizione nel mondo. Per come vedo io le cose, l?ultima volont? di forma ? stata quella del modernismo inteso come risposta estetica alla condizione moderna. Condizione dalla quale non siamo ancora usciti, e la quale purtroppo oggi non riusciamo pi? a rappresentare in modo convincente.

R.R.: Non vorrei contraddirti, ma la volont? di forma oggi esiste, ed ha come obbiettivo la distruzione (purtroppo banale) della forma stessa. Oggi non c?? aspirazione n? alla bellezza n? al grandioso. Esiste una generale spinta verso il basso, verso l?informe, a causa dell?assenza di una metafisica.

T.F.: Ma quindi non ritieni che siamo spesso in presenza di obbiettivi mancati, cio? di forme non riuscite.

R.R.: No, non sono assolutamente mancati: sono voluti. I paradigmi formali ai quali facciamo riferimento seguono come sempre le forme del sapere, le quali a loro volta sono forme filosofiche quando non sono teologiche o ateologiche. Ora, l?aver sancito la morte della metafisica ci ha portati alla condizione attuale. E ha portato soprattutto alla dittatura di un altro principio, quello del relativismo che assurge paradossalmente a verit? indiscussa: "non esiste pi? la Verit?, bens? le infinite verit?". La nostra individuale verit? ? al di sopra della Verit? stessa. Una plateale autocontraddizione. D?altra parte viviamo ormai nella contraddizione pi? aperta, e nonostante ci? pensiamo di poter scegliere liberamente le forme a noi pi? congeniali. Se le nostre societ? occidentali hanno raggiunto un benessere materiale come mai nella storia umana, questo ? senza dubbio un traguardo positivo, non lo metto in dubbio. Ma nasconde drammaticamente il suo opposto. Da un punto di vista estetico, viviamo in una vera e propria massa di detriti! Condizione di cui probabilmente non siamo neppure consapevoli perch? il problema estetico ? stato ridicolizzato, marginalizzato dal sapere tecnico scientifico che ha gradualmente ma definitivamente sostituito quello umanista. Il nozionismo specialistico ha soppiantato le grandi sintesi.

T.F.: In effetti, il sapere umanista non ? verificabile, mentre sembra che la nostra civilt? abbia intrapreso un percorso dove ogni attivit? svolta, per essere giustificata dal sistema, debba garantire dei risultati quantificabili in termini di efficienza.

R.R.: Certo, la cultura umanista, e prima ancora quella classica, ti costringe invece a ritornare ogni volta all?origine delle questioni sollevate, escludendo la prassi della specializzazione. L?architettura stessa, da questo punto di vista, non pu? fare a meno di tutte le altre forme della conoscenza ed espressioni della bellezza. Al contrario, la specializzazione le mantiene irrelate, e anche per questo risulta ormai quasi impossibile definire chiaramente delle regole che governano la forma. Ogni grande estetica, infatti, si fonda sul rapporto tra legge e libert?, dove quest?ultima ? tale proprio in virt? dei vincoli posti; mentre l?arbitrariet?, oggi imperante, rinuncia al vincolo e rimane perci? priva di orientamento. Per Heidegger l?importante non ? essere liberi "da" qualcosa, ma esseri liberi "per" fare qualcosa." E per farlo, ti devi appunto appellare alla legge, o in altri termini al "giogo", ovvero al sapere che salva. ? il sapere che salva la libert? dell?agire in funzione della forma. Come possiamo allora oggi ripristinare questa indispensabile dialettica tra l?oggettivit? delle regole estetiche e la libert? dell?individuo artefice? Per rispondere a quesiti di tale portata dobbiamo guardare con attenzione alle grandi traiettorie del pensiero. E G. Reale ci ricorda, nel suo ultimo libro12, le tre grandi radici del pensiero occidentale, ovvero del pensiero Europeo: il pensiero greco, il pensiero cristiano, il pensiero tecnico-scientifico.

T.F.: Ovviamente, a queste condizioni generali dovrebbe sottostare anche la produzione architettonica, ma pare che le cose non stiano cos?. Vorrei dunque riferirmi alla tua, personale attivit? di architetto. Sto ora guardando i numerosi modelli in gesso appesi alle pareti del tuo studio. Sono quasi tutti in grande scala, ed hanno un forte impatto tettonico tant?? che le curve di livello del terreno appaiono sempre con evidenza. Sono prevalentemente modelli di progetti realizzati, di concorsi a cui hai partecipato, o riflessioni formali sull?architettura?

R.R.: In prevalenza sono modelli di concorsi (pochi vinti, molti persi), ma in mezzo ci sono anche progetti su commissione.

T.F.: Quando progetti, quando tracci sul foglio delle linee per rappresentare forme costruibili e abitabili, a cosa fai riferimento? Per meglio dire, progetti pensando anche all?opera di qualche architetto classico, moderno o contemporaneo, che consideri un maestro e le cui architetture sono per te fonte d?ispirazione? Oppure ti senti incline ad uno stile, ad una corrente o ad una tendenza, e per tanto adotti dei paradigmi formali gi? codificati e quindi riconoscibili?

R.R.: No, gli autori a cui faccio generalmente riferimento quando progetto non sono direttamente architetti, piuttosto possono essere filosofi, scrittori, poeti. I grandi pensatori. Inoltre, direi che il primo indizio all?origine di ogni nostro lavoro deriva da un timbro, che vorrei poter chiamare, metafisico. Ma per spiegarmi meglio, e allo stesso tempo per passare dalla teoria alla pratica, ogni lavoro, anche il pi? piccolo, inizia con una lettura geografica del territorio, condotta in maniera molto minuta. Il che significa: affrontando tutte le scale, dalle pi? grandi alle pi? piccole. Come hai gi? capito, questa lettura si concretizza attraverso la realizzazione di modelli tridimensionale, realizzati alle diverse scale (normalmente tre), come nel caso dei concorsi per Brunico, il Cairo o Copenaghen. Successivamente studiamo il territorio dal punto di vista storico iconografico, allo scopo di individuare figure predominanti. Tutto ci? mette in movimento il mondo delle forme, che lentamente iniziano a relazionarsi fra loro e a generare costellazioni di significati. ? un lavoro analogo, sotto certi aspetti, a quello del minatore che pazientemente e faticosamente scava, segue molte tracce, ma ? sostenuto da un?unica speranza: incontrare alla fine la grande "sorpresa" della "forma".

T.F.: Ma tutti questi riferimenti come diventano poi "segno" nel progetto?

R.R.: Certo, alla fine devi sempre compiere il "salto mortale", perch? l?insieme degli elementi cercati e scelti, da solo non garantisce alcun risultato formale. Nello stesso tempo l?averlo fatto predispone una "rete di salvataggio" al gesto conclusivo. Infatti, se ? vero che da un certo momento in poi il progetto abbandona i materiali di riferimento, ? anche vero che fatalmente essi ritornano in superficie nella loro formulazione sensibile. Per? bisogna avere anche la perspicacia di cercare e portare alla luce ci? che ? gi? in nostro possesso, perch? in caso contrario la ricerca vanificherebbe il risultato finale. Non a caso i nostri modelli iniziali non contengono alcuna idea di progetto, ma sono poi gli strumenti che permettono alle figure gi? presenti in quel "luogo" di rivelarsi, di mostrarsi. Per questa ragione usiamo per i modelli il gesso, un materiale che fotografato con luce radente evidenzia sotto la sua grana immagini inaspettate.

T.F.: Si potrebbe definire questo approccio al territorio come metonimico, nel senso che nella rappresentazione si scambia la sua reale consistenza con il risultato di un?indagine.

R.R.: Ma tieni presente che il territorio rimane quello che ?, cambia solo la modalit? con la quale vengono selezionati i suoi "segni". Per capirci, in una scala al 2.000 gli edifici, le strade o i dislivelli verranno schematizzati in modo diverso rispetto a come questi stessi elementi verrebbero ripresi ad una scala al 500, ma sempre rispettando una coerenza del linguaggio usato. Voglio dire che ? proprio l?aspetto che la rappresentazione fornisce all?oggetto rappresentato a mostrarci una realt? altrimenti inattingibile.

T.F.: Si potrebbe allora parlare di genius loci?

R.R.: In un certo senso, s?.

T.F.: Per ritornare alla domanda che ti ho posto precedentemente, pensi davvero che questo tuo metodo di lavoro non sia applicato da altri progettisti?

R.R.: Se devo essere sincero sono piuttosto isolato, anche se una assonanza tra il mio lavoro e l?opera di Eisenman, con il quale ho collaborato a New York per circa dieci anni, obiettivamente esiste. Certamente usiamo linguaggi diversi, perch? diverso ? il nostro sguardo metafisico ed estetico sul mondo, ma l?approccio progettuale ? simile. Ed ? la coerenza con la quale un progettista sviluppa il suo lavoro che rende "pungente" il risultato estetico della sua opera. Non a caso, in un interessante intervento sul Corriere della Sera, un?ambasciatrice italiana ha paragonato l?estetica alla capocchia di uno spillo. Si potrebbe aggiungere che l?estetica contemporanea, mentre si affanna su questa minuscola estremit?, ? ignara dello stelo retrostante. Ma ? solo grazie allo stelo e alla sua punta che la capocchia dello spillo pu? arrivare in profondit?, e stimolare autenticamente il senso della forma!

T.F.: S?, ? una buona metafora, che pu? offrire ulteriori spunti di riflessione intorno al tema della qualit? artistica. Indubbiamente una forma riuscita ? anche il risultato di un percorso mentale coerentemente svolto dall?autore sia sul piano tecnico che narrativo. Ma ? anche vero che l?insofferenza che proviamo soffermandoci su molta architettura contemporanea non dipende solo da insufficienze congenite nei singoli percorsi progettuali. Personalmente, sono convinto che questa insofferenza deriva soprattutto dall?ingombrante bagaglio tecnologico che ci portiamo appresso. ? un?impressione che recentemente ho avuto in pi? occasioni fruendo opere narrative e cinematografiche. ? come se l?autore non riuscisse (o volesse) iniettare il suo vissuto personale nell?opera, come se il suo vero obiettivo fosse soltanto il saperla fare: in altre parole, come se la prosa in un romanzo, o il montaggio in un film, fossero delle tecniche comunque applicabili, a prescindere dalla "funzione" svolta all?interno dei rispettivi contesti. E questo perch? la tecnica, il saper fare, ? ormai determinata esclusivamente dalla tecnologia, intesa come trasmissione del saper fare. In effetti, siamo giunti ad una situazione dove cento anni di cinema e quattrocento anni di narrativa costituiscono un?eredit? asfissiante per qualunque regista o scrittore, proprio a causa delle enormi capacit? di trasmissione nozionistica in nostro possesso. Penso che un discorso analogo si possa fare anche per l?architettura: dietro la "cifra stilistica" ormai riconoscibile, non credo infatti che nelle recenti opere di J. Nouvel, di S. Calatrava o di R. Meyer ci sia ancora una "metafisica", bens? solo uno studio di progettazione in grado di farle realizzare. E a questo punto vorrei anche chiederti se nell?ultimo decennio ci sono stati dei progettisti o delle costruzioni, nella cui attivit? e nei cui esiti hai ravvisato una qualit? artistica. Cosa ne pensi ad esempio di F. Gehry, un autore molto famoso e immediatamente riconoscibile?

R.R.: Gehry, s?. Dobbiamo subito ricordare che anche Gehry ? di cultura ebraica. Come Eisenman, come R. Meyer, D. Libenskid e B. Zevi. Non ? stato forse Zevi a portare l?organicismo all?attenzione italiana e in seguito a promuovere il decostruttivismo13? In tutti questi autori ? ravvisabile la radicale volont? di smembrare le forme. Una volont? che affonda le proprie radici in una precisa posizione ontologica: i progetti di Eisenman, per inciso, nascono dall?idea di un?azione sismica che, scuotendo la superficie del terreno, frattura e disperde i volumi della costruzione. Il che significa destabilizzare i fondamenti, il "round" della cultura creco cristiana. Ma per non fermarci in superficie, dobbiamo ricordare che questo gesto rappresenta un simbolo ampiamente descritto nella cultura ebraica! Ritornando a Gehry, lui ha operato sviluppando il campo teorico predisposto da Eisenman almeno un decennio prima, conseguendo dei risultati plastici assai pi? riconosciuti.

T.F.: Questo debito teorico di Gehry nei confronti di Eisenman ? accertabile, o ? semplicemente evidente?

R.R.: Da un lato direi che ? evidente, per altro te lo confermo personalmente visto che ho avuto l?opportunit? di conoscere Gehry a Los Angeles, prima del suo enorme successo internazionale, all?inizio degli anni ottanta, quando lavoravo nello studio newyorkese di Eisenman.

T.F.: In effetti il suo esordio sul finire degli anni settanta ? modesto: una piccola casa in California, ricoperta da reti e lamiere.

R.R.: Gehry ha seminato un campo precedentemente arato da Eisenman attraverso una intensa attivit? teorica. E non dobbiamo dimenticare l?altro grande architetto americano appartenente ai Five Architects14 : J. Hejduk. Ma Hejduk, essendo di cultura cattolica, ha conseguito dei risultati progettuali completamente diversi. Voglio dire che ? determinante indagare il "bacino culturale" dal quale proviene un autore, perch? ci permette di comprenderne molto meglio l?operativit? sul campo. Pensa a come Eisenman ha adottato la sua strategia teorica, per molti versi stupefacente. Dopo essersi laureato a Cambridge, in Inghilterra, ? ritornato poco pi? che trentenne in America. In quegli anni, la realt? degli studi progettuali era governata dalle grosse corporation le quali non concedevano alcuna visibilit? ai giovani architetti. Ha quindi deciso di aprire l?I.A.U.S. (Institute for Architectures and Urban Studies), e ha chiamato soprattutto dall?Italia le menti migliori: M. Tafuri, A. Rossi, G. Ciucci. Col loro contributo teorico ha fondato la rivista "Oppositions", con la quale avversava l?establishment dominante dei grandi studi professionali. Ha proseguito l?attivit? della rivista per circa dieci anni, per poi chiuderla ed aprirne una nuova dal titolo "Anyone". Per altri dieci anni ha svolto, infaticabile, conferenze in tutto il mondo andando a Tokyo, Buenos Aires, Seul, Bruxelles, Parigi, Tel Aviv. Sempre allo scopo di promuovere il tema della decostruzione. Ed oggi, giustamente, ha ricevuto il Leone d?oro alla Carriera all?ultima Biennale di Architettura. Ma facciamo attenzione: questa strategia ? stata possibile solo in virt? della sua appartenenza alla cultura ebraica, e in presenza di una tensione metafisica capace di attribuire un senso ai propri obiettivi. Ricordo che i suoi articoli teorici, pubblicati prima in Italia15 , sono stati poi successivamente ripresi ed ampliati in Germania sotto il titolo "?berwindung der metafisic in Architektur" (Per il superamento della metafisica in architettura), ma il titolo corretto sarebbe: "Per il superamento della metafisica greco-cristiana e per la rifondazione della metafisica ebraica". Capisci allora quanto sia superficiale esprimere giudizi su un linguaggio come il suo, o perfino appropriarsene indebitamente, senza conoscere il vero "motore" che ne ha spinto l?attivit? teorica e progettuale?

T.F.: Mi sembra alquanto evidente. In conclusione, quella particolare istanza che noi chiamiamo "qualit? artistica", tu la ravvedi in una "tensione metafisica" che origina e poi sostiene la ricerca formale di un autore. E considerato che la nostra si caratterizza come un?epoca anti-metafisica, tranne alcuni sforzi eccellenti come quelli di Eisenman in architettura o di Severino in filosofia, non ti sorprendono gli avvilenti risultati estetici del panorama contemporaneo. Vorrei porti allora un?ultima domanda: se entro breve tempo l?arte non fosse pi? richiesta n? prodotta n? compresa, come dovremmo un domani fruire quegli oggetti della storia dotati di qualit? artistica, e che nel frattempo sono diventati monumenti?

R.R.: Siamo in presenza di uno strano paradosso: se l?arte viene sempre meno noi produciamo sempre di pi? feticci del suo simulacro. E la societ? contemporanea ha bisogno, almeno, del feticcio. E per quanto riguarda il monumento, pur avendo la modernit? condannata la sua esistenza, nondimeno li realizziamo, sotto specie diverse: il Guggenheim Museum di Bilbao indubbiamente lo ?! ? pensato, venduto e creduto come tale, al di l? delle intenzioni messe in campo dall?architetto. E come esiste il monumento moderno, cos? esiste il genio moderno: e infatti la figura di Gehry viene celebrata in questi termini. Nel suo caso, per?, ? significativo notare come la distanza tra l?opera pubblicizzata sulle riviste e la presunta genialit? individuale viene sempre mediata attraverso l?esperienza del "ludico" e del "quotidiano". Atteggiamenti, questi, che permettono alla gente di fruire la sua architettura. In ogni caso non riesco davvero a immaginare un futuro dove venisse a mancare questa tensione verso l?arte, che corrisponde ad una dimensione metafisico trascendente dell?uomo, indispensabile all?autenticit? della vita.

S.E. & O.

?

?

1 Maurice Blanchot, "Lo spazio letterario" (Einaudi Reprint). Purtroppo fuori catalogo.

2 Emanuele Severino, "La Gloria" (Adelphi)

3 Tempo Fermo N?2 , Intervista con Gabriele La Capria, (Campanotto)

4 Georges Didi-Huberman, "La ninfa moderna. Saggio sul panneggio caduto" (Il Saggiatore)

5 Massimo Cacciari, "Della cosa ultima" (Adelphi)

6 Umberto Galimberti, "Psiche e techne. L?uomo nell?et? della tecnica" (Feltrinelli)

7 Si faccia riferimento a: Peter Eisenman, "Mistico nulla" (Motta Editore). A cura di Renato Rizzi.

8 Sul tema anche Costruire abitare pensare in Martin Heidegger, "Saggi e discorsi" (Mursia). A cura di Gianni Vattimo.

9 Robert Venturi, Denise Scott-Brown, Steve Izenour "Imparando da Las Vegas. Il simbolismo dimenticato della forma architettonica" (Cluva). Non disponibile.

10 Alois Riegl, "Industria artistica tardo romana" (Sansoni). Da molto fuori catalogo.

11 Jos? Saramago, "Cecit?" (Einaudi).

12 Giovanni Reale, "Radici culturali e spirituali dell?Europa" (Raffaello Cortina Editore).

13 Noto critico e storico dell?architettura, per tutta la vita Zevi ha cercato di delineare un linguaggio "anticlassico" a partire dalle premesse metodologiche dell?architettura moderna. Per l?autore, infatti, l?unico codice universalmente accettato in architettura ? quello classicista, mentre tutte le varianti ai suoi "ordini" vengono considerate eccezioni e non alternative. Il suo infaticabile sforzo teorico si pu? ritrovare in numerosi scritti, ma se dovessimo segnalarne uno sarebbe: "Il linguaggio moderno dell?architettura" (Einaudi). Per quanto riguarda il decostruttivismo, di cui Zevi come detto si ? fatto promotore in Italia, la sua estensione in ambito architettonico si ricollega da un lato alle avanguardie russe degli anni Venti, dall?altro alla filosofia critica post-strutturalista. A tal proposito si consiglia la lettura di: "Decostruzione in architettura e filosofia" (Citt?Studi). A cura di Bianca Bottero.

14 Si veda a proposito "Five Architects N.Y.", di Manfredo Tafuri. (Officina Edizioni)

15 Peter Eisenman, "La fine del classico"(Cluva). A cura di Renato Rizzi.