Procedimento avanguardista 1

Renato Calligaro

Premesse
Sociologia
Il nichilismo è l’assenza, nell’uomo, di trascendenza
Ma può l’arte competere con la Tecnica?
Avanguardia e scienza
Avanguardia e Pragmatismo
Dalla “riuscita” dell’opera alla “riuscita” dell’Autore
Autori estetizzanti, sublimi e concettuali
Duchamp
Allegoria
Benjamin

 

Premesse

1. Anzitutto la premessa d’obbligo: ci sono oggi due principali modi di intendere la parola arte: l’arte come istituzione e l’arte come qualità di artisticità delle opere.

L’arte come istituzione è un potere, un ambito, uno spazio dove si producono infiniti oggetti (estetici e anche artistici), la cui funzione prima è l’estetizzazione diffusa della società, ottenuta per mezzo del consumo di massa, che è il veicolo privilegiato della comunicazione della esteticità di ognuno agli altri. Il motto di questa istituzione dice: “è arte ciò che gli uomini (che hanno il potere di farlo e di imporlo) chiamano arte”. Per cui tutto può essere arte. Ma se tutto può essere arte, l’arte non è niente. 2

L’arte come qualità di artisticità, che è quella di cui qui ci si occupa è invece una precisa operazione che produce oggetti artistici, cioè con qualità di artisticità immanente, strutturalmente insita nell’oggetto, per cui viene chiamato opera d’arte. E’ una operazione inventata dall’uomo circa 40.000 anni fa, presente in tutte le culture, pertanto transtorica e transculturale.

2. Si intende comunemente per Avanguardia un movimento creativo che si propone la sperimentazione di nuove forme espressive. Ma questa definizione è troppo generica e indeterminata, per cui si è potuto considerare parimenti avanguardisti autori “innovatori” ma fra loro inconciliabili nelle loro premesse operative, come Picasso e Duchamp, Schönberg e Cage, Joyce e Marinetti, ecc.3 Appunto tenendo conto di queste premesse, qui si distingue nettamente fra procedimento modernista e procedimento avanguardista, come già nel testo dal titolo “Procedimenti tradizionalista e modernista” pubblicato nel numero 2 di TempoFermo. Riportiamo parte di quel testo.

Si intende qui per “procedimento” il modo di produrre dell’Autore, direttamente determinato dalla funzione prima che egli, consciamente o inconsciamente, riconosce alla operazione tradizionalmente definita “arte”: in altre parole dal suo atteggiamento come persona nei confronti della operazione.

In verità, durante i circa 40.000 anni di storia della operazione arte, dalle origini fino alla metà dell’800, c’è stato un unico procedimento, quello che qui si definisce procedimento tradizionalista, e che pertanto coincide con il sistema antropologico dell’arte. Solo dalla seconda metà dell’800 si sono inventate procedure differenti, come risposta a una crisi epocale della cultura occidentale, come risposta a interrogativi radicali sul perché e sul come della operazione arte.4

Sono nuovi il procedimento modernista, il procedimento avanguardista, e, dal secondo dopoguerra, il procedimento postmodernista.

I procedimenti sono dunque quattro:

1. Il procedimento tradizionalista è quello dell’arte storica da circa 40.000 anni. La funzione prima di questa operazione è quella di donare all’uomo una esperienza esistenziale (che noi oggi chiamiamo della compiutezza, della riuscita artistica dell’opera) che è il soddisfacimento di un suo bisogno fondamentale (referente antropologico), e che è quindi costitutiva dell’homo sapiens sapiens. Il procedimento tradizionalista opera pertanto all’interno del sistema antropologico dell’arte (e concide di fatto con esso), dove il protagonista della operazione è la riuscita artistica dell’opera. L’Autore è strumento di questa riuscita. Il nuovo è dato solo dalla orginalità dell’Autore, ed è quindi, anche se non voluto o non cercato, ineluttabile nonostante le resistenze opposte dalle ideologie storiche tradizionaliste dell’Autore.

2. Il procedimento modernista appartiene anch’esso al sistema antropologico dell’arte, in quanto anche qui la funzione prima della operazione è la riuscita artistica dell’opera. Ma qui il nuovo è invece voluto e cercato, e investe, come innovazione del Linguaggio, i differenti modi di formare. Il “nuovo” è un valore, ma il valore primo, il protagonista della operazione rimane comunque la riuscita artistica dell’opera.

3. Il procedimento avanguardista propriamente detto trascina invece l’operazione arte del tutto fuori dalla “immutabilità” e “eternità” del sistema antropologico dell’arte, dentro la dialettica razionalista e sociologica del progresso. Infatti qui la funzione prima dell’operazione non è più quella di procurare all’uomo l’esperienza esistenziale della artisticità, ma quella di indurlo, come strumento privilegiato per la sua emancipazione, alla rivoluzione estetico/sociale. Il protagonista della operazione non è allora più la riuscita artistica dell’opera, ma la riuscita estetica dell’Autore (della società).5 Nel suo progredire l’arte deve tendere a coincidere con la vita (Autore/società), annullando ogni distanza originaria tra arte e vita. Come mero strumento della rivoluzione, l’operazione arte deve dunque progredire (e quindi in extremis negarsi, in quanto ogni progresso ha una fine, anche quello della scienza), essere sempre all’”avanguardia” per quel fine (a prescindere dalla qualità artistica dell’opera). Il nuovo diventa un valore per se stesso: il valore di novità subentra al valore di artisticità.

4. L'identificazione, all'interno della Postmodernità, che già per se stessa è difficile da definire, di un procedimento postmodernista dell'arte è possibile, ma solo tenendo presenti le approssimazioni inevitabili nella sistemazione di un fenomeno in corso. Molto sinteticamente, si può dire che esso pretende di conciliare la "dialettica del nuovo" con il consumismo di massa (il "nuovo per il sempreuguale" del mercato). Mentre i procedimenti tradizionalista e modernista pretendono di produrre oggetti artistici (opere d'arte) e il procedimento avanguardista pretende di abolire tali oggetti (in quanto irrimediabilmente oggetti del mercato) in una estetizzazione della società, il procedimento postmodernista recupera la produzione di oggetti, ma non si preoccupa che essi siano artistici, in quanto lo stesso concetto di artisticità è ormai irrilevante. Potrebbero anche essere artistici, ma ciò è ininfluente rispetto alla produzione di oggetti che devono essere anzitutto oggetti estetici testimoniali della esteticità degli autori, cioè di tutti, diffusi nella società proprio attraverso il mercato, inteso ora come mezzo privilegiato della comunicazione della esteticità di ognuno.

E più avanti (cap.2):

Procedimento modernista e procedimento avanguardista, Modernismo e Avanguardismo, sono risposte differenti alla crisi della Modernità umanista. Ma l'origine comune comporta a volte affinità che rendono difficile definire esattamente se e quando un Autore sia modernista o avanguardista6; a volte invece comporta differenze così sostanziali, per cui si rimane sbalorditi da come certi Autori possano essere stati accomunati in una confusa e generica categoria di Avanguardia. Pertanto le differenze saranno qui definite "in extremis", in modo da renderle più comprensibili.

Il procedimento modernista viene chiamato modernista, e non moderno, perché ripropone istanze della Modernità, ma in un'ottica assolutamente problematica. Non va confusa la Modernità, che é un concetto che definisce tutta una cultura, una visione del mondo, con il procedimento modernista di cui si parla, che è invece la più significativa testimonianza e denuncia, nell'arte, della crisi, forse definitiva, di quella Modernità.

Dunque, secondo questa distinzione, si intende per procedimento modernista una operazione che nell’innovazione persegue la formazione dell’opera per la sua riuscita artistica, e invece per procedimento avanguardista un’operazione che al contrario nell’innovazione persegue l’estinguersi della formazione dell’opera, in quanto la sua riuscita artistica non è pertinente.

Si deve insistere sulla differenza (già dichiarata nei numeri precedenti di “TF”) dei due procedimenti modernista e avanguardista, confusi comunemente, specialmente in Italia, nel generico termine di Avanguardia.7 Mentre nel procedimento modernista il "nuovo" è il risultato di una ricerca in profondità nel Linguaggio, nella dimensione temporale del presente per la riuscita dell'opera, nel procedimento avanguardista il "nuovo" è, nella dimensione temporale del futuro, un "nuovo" per un futuro migliore della società a prescindere dalla riuscita dell'opera.

L'autore modernista, segnato da una identità debole8 in rapporto a un altro da sé debole, quale è per lui, umanista in crisi, la realtà contemporanea (fragile, inconsistente, instabile, mutevole, effimera, relativa), è sostanzialmente impegnato a cercare e reinventare la propria identità, nell'invenzione, giorno dopo giorno, di "nuovi" modi e stili e innovazioni (nuovi altro da sé), ma non senza ”estrarre l’eterno dall’effimero” secondo la proposizione di Baudelaire del 1860: ”La modernità è il transitorio, il fuggitivo, il contingente, la metà dell’arte, di cui l’altra metà è l’eterno e l’immutabile” (da “Il pittore della vita moderna”).9 Egli rimane dunque sempre ancorato al fondamento della "eternità" antropologica dell'arte (l’Altro). Il fine dell’Autore modernista non é quello di sperimentare e inventare “nuovi” modi e stili come strumento della rivoluzione, ma quello di portare per loro mezzo l’opera alla sua compiutezza artistica. E’ solo nella compiutezza dell’opera che questo Autore può realizzare “tutti i possibili Io”.

Il rapporto di fiducia in una realtà oggettiva (altro da sé forte) che era stato reso manifesto nella forma più grata, amorevole e ammirevole nell'arte storica del procedimento tradizionalista, si è incrinato; la realtà non è più sicura, conoscibile e raccontabile: l'amorevole gesto di carezza delle cose del mondo (narrazione delle cose del mondo), proprio di tutte le arti, anche nella caricatura o nella satira, non è, per molti Autori, più possibile.

La realtà non è più l’amica che era, nonostante tutte le avversità, cioè anzitutto la Grande Madre che per farsi “accarezzare”, narrare, ti conduce per mano essa stessa (in forma di Musa) alla compiutezza dell’opera. L’uomo è solo. L’Autore è solo. Flaubert: “Mi sembra di attraversare una solitudine senza fine, per andare non so dove”.10 Mallarmé: “La chair est triste, hélas, et j’ai lu tous les livres”.11 Ma questa stanchezza e nostalgia e noia, questo sentirsi "postumi" di una gloriosa tradizione artistica che finisce, questo sentirsi alla fine di un grande viaggio in un presente che non ha più possibilità di partenze nonostante il "progresso", sono in definitiva il compendio delle impossibilità di essere se stessi: della perdita di identità. E' il titolo di un quadro di Gauguin: "Donde veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?12

E' appunto il tempo in cui Baudelaire e Rimbaud e altri inaugurano, nell'arte, il loro viaggio alla ricerca di un altro da sé, dal cui incontro si possa recuperare e reinventare l'identità, condizione assolutamente necessaria per poter ancora creare opere d’arte. La loro singolarità è nell’idea di poter trovare un nuovo altro da sé forte nella discesa agli inferi dell’inconscio individuale e collettivo. Così essi inaugurano il loro avventuroso viaggio verso l'ignoto. Rimbaud: ‘Si tratta di giungere all'ignoto attraverso lo sconvolgimento di tutti i sensi’.13 E Proust: “Il lavoro compiuto dal nostro orgoglio, dalla nostra passione, dal nostro spirito imititativo, dalla nostra intelligenza astratta, dalle nostre abitudini, quel lavoro l’arte lo distruggerà, ci ricondurrà indietro, ci farà tornare agli abissi profondi dove quel che è esistito realmente giace ignoto”.14

I possibili approdi del viaggio devono essere assolutamente ignoti. Se fossero già noti, lo sarebbero perché già progettati, e quindi sempre all'interno della prigione della ragione, "nel cerchio di luce della razionalità" e della progettualità. Solo l'ignoto può ormai presentarsi come vero altro da sè, l'Altro, al di là, al di sotto del relativismo culturale della conoscenza concettuale.

Se la scienza dimostra che il mondo del senso comune, del vissuto, è una “bugia” dei nostri sensi normali, si tratterà allora, per gli artisti, di narrare non più, o non solo, la realtà sensibile del senso comune, ma la scoperta/discesa nell’inconscio collettivo, universale, che è un altro da sé ancora più vero della conoscenza concettuale della scienza.15

“Per narrare, al di là della esperienza sensibile del senso comune conscio, l’esperienza sensibile della “sregolatezza di tutti i sensi”, sono necessarie nuove idee e nuove tecniche. Sono necessarie per narrare l’esperienze dell’inconscio, eccitate o oniriche o drogate, comunque più prossime ai profondi archetipi formali della psiche. Le “figure” (pittoriche, musicali, letterarie ecc.) vengono “deformate” nella “sregolatezza di tutti i sensi”. Queste nuove figure, questo “nuovo”, è la narrazione della reinvenzione della identità (“T.F” n. 2, p. 95).16

“Il Linguaggio si presenta come il “mondo oscuro”, l’“Ombra”,17l’unico altro da sé potenzialmente forte, l’unico Altro con cui stabilire una distanza che instauri l’identità.

Per cui, inventare il Linguaggio, nuove figure del Linguaggio, è inventare, giorno dopo giorno, la propria identità, il proprio Io.

Per cui l’invenzione del “nuovo” nel Linguaggio è l’iniziazione a tutti gli Io possibili.

Per cui il “nuovo” diventa valore, come necessario urgente conferimento di identità all’Autore e all’interlocutore dell’opera, ma accanto sempre al valore di artisticità, in quanto solo la riuscita dell’opera è garanzia di autenticità.

Nel procedimento avanguardista invece l’identità non si propone nel rapporto con un Altro che è “eternità” antropologica (Baudelaire), cioè natura, memoria, inconscio, mito, “divinità”, Grande Madre, ma che è invece azione, società, storia, razionalità, progresso (cioé solo “una metà dell’arte” di Baudelaire: solo il transitorio, il fuggevole, il contingente).

E in questa dimensione dell’Utopia, del progresso all’insegna del pensiero razionale, del’arte come produzione di oggetti artistici che hanno un valore di artisticità per se stessi deve essere superata.18 La produzione di oggetti artistici deve essere distrutta in quanto sfera separata dalla vita, mentre l’opera d’arte deve essere la vita.

Ma l'arte è costitutivamente, antropologicamente, Altro dalla vita, e all'uomo serve appunto perché è Altro dalla vita: la negazione dell'arte come separatezza dalla vita, nella utopia avanguardista, si risolve nella esteticità e nella negazione dell’artisticità (dell'arte tout court). Cioè, nella dimensione burocratica dell’esistente, nell’arte come istituzione.

Nella concezione sociologica avanguardista l’arte è solo un “modo” della vita, ed essendo la vita sociale in progresso, essa non può non essere in progresso. Ma il progresso inserito a forza nell'arte, che non ha costitutivamente progresso, la fa "scoppiare" in prassi estetica. Indurre nell’arte un progresso è indurla a progredire verso una impossibile perfezione e purezza in un processo di autonegazione e superamento di sé. Indotta a autonegarsi dalla “razionalità come Progetto” (nell’avanguardismo), l’artisticità è rimpiazzata con l’esteticità dalla “razionalità come Tecnica” (nel Postmodernismo).

L'oggetto artistico, negato perché irrimediabilmente merce del mercato capitalistico, "scoppia": si dissolve in prassi estetica nel procedimento avanguardista radicale, e si ricompone in oggetto estetico testimoniale (non artistico) nel procedimento postmodernista.

Per meglio capire le differenze fra i due procedimenti vanno annotate le seguenti considerazioni di Nietzsche nella “Gaia scienza” del 188220: “Che cos’è romanticismo? Ogni arte, ogni filosofia possono essere considerate come un mezzo di cura e d’aiuto al servizio della vita che cresce e che lotta: esse presuppongono sempre sofferenze e sofferenti. Ma vi sono due specie di sofferenti: quelli che soffrono della sovrabbondanza della vita, i quali, dunque, vogliono un’arte dionisiaca e quindi una visione e una conoscenza tragica della vita, e quelli che soffrono dell’impoverimento della vita, i quali cercano riposo, quiete, placido mare, liberazione da se stessi attraverso l’arte e la conoscenza, oppure invece l’ebbrezza, lo spasimo, lo stordimento, la follia” (p. 246)

“Colui che è più ricco di pienezza vitale, il dio e l’uomo dionisiaco, non solo può concedersi lo spettacolo dell’orrore e della precarietà, ma perfino l’azione terribile e ogni lusso di distruzione, di dissolvimento, d’annientamento; malvagità, assurdità, deformità gli appaiono in un certo senso permesse in conseguenza di uno straripamento di forze generatrici e fecondanti che possono fare di ogni deserto ancora una contrada fertile ed ubertosa.” (p. 248)

“Relativamente a tutti i valori estetici, mi servo ora di questa distinzione fondamentale; in ogni singolo caso domando: è qui divenuta creatrice la bramosia o la sovrabbondanza?. A tutta prima potrebbe sembrare più raccomandabile un’altra distinzione- che è di gran lunga più evidente- sembrerebbe cioè più opportuno considerare attentamente se la causa della creazione sia il desiderio di fissare in forme immutabili, d’eternizzare, d’essere, oppure invece il desiderio di distruzione, di mutamento, d’innovazione, d’avvenire, di divenire. Ma, guardate più a fondo, entrambe queste specie del desiderio si mostrano ancora ambigue e in verità interpretabili proprio secondo lo schema proposto prima, e a mio parere preferito con ragione. Il desiderio di distruzione, di mutamento, di divenire può essere l’espressione della forza sovrabbondante, gravida d’avvenire (il mio terminus per tutto questo è, come è noto, la parola “dionisiaco”), ma può anche essere l’odio della creatura mal riuscita, indigente, fallita, che distrugge, deve distruggere, perché quel che sussiste, anzi ogni sussistere, ogni essere stesso rimescola il suo sdegno, e aizza la sua ferocia; per comprendere questo modo di sentire si osservino da vicino i nostri anarchici. La volontà di eternizzare esige parimenti una doppia interpretazione. Può scaturire da gratitudine e amore: un’arte che abbia questa origine sarà sempre un’arte di apoteosi, ditirambica, forse, con Rubens; beatamente beffarda, con Hafis; piena di chiarità e d’indulgenza, con Goethe; un’arte che diffonde una omerico chiarore di luce e di gloria su tutte le cose (in questo caso di arte apollinea). Ma può anche essere quella volontà tirannica di un uomo straziato dal dolore, in lotta, martoriato, che vorrebbe imprimere in quel che è più legato alla sua persona, alla sua singolarità, in quel che è più intimo in lui, nella caratteristica idiosincrasia del suo dolore, il sigillo di una legge vincolante e di una forza coattiva, e che prende, per così dire, vendetta di tutte le cose, incidendo, incastrando a viva forza, marchiando a fuoco in esse la sua immagine, l’immagine della sua tortura. [.....] Io lo chiamo, quel pessimismo dell’avvenire - poiché è per arrivare, io lo vedo che sta arrivando! - il pessimismo dionisiaco)”(p. 248).

Ciò che Nietzsche vede arrivare è l’Avanguardia.

E ancora, sulla differenza fra i due procedimenti, scrive Berardinelli: “La stessa avanguardia storica, in quanto autoorganizzazione difensiva e autopromozione militante e di gruppo dei suoi membri, portava nella condizione moderna un dato nuovo. In molti casi la letteratura moderna era stata un’impresa solitaria e perciò tremendamente rischiosa. Novalis, Coleridge, Leopardi, Poe, Baudelaire, Mallarmé, Kierkegaard, Nietzsche, Rimbaud, Hopkins, la Dickinson sperimentavano in soitudine e sfidavano la sconfitta. Non essere compresi sembrava un destino, come avvenne a Hoelderlin. O era un punto d’onore, come dice esplicitamente Baudelaire. Dove il pubblico non capisce e dove i critici e gli studiosi restano sconcertati o scandalizzati, lì, si pensò, avviene qualcosa di reale, di nuovo, di autentico, di rivelatore. Questo tuttavia comporta per il singolo autore rischi enormi, intollerabili. Agire in gruppo all’ombra di un programma sembrò nel ‘900 una misura di comprensibile prudenza. Tendenze e gruppi partiti politici.

Ma anche nel Novecento, già in presenza di avanguardie strutturate e aggressive, le imprese solitarie non sono poche. Quasi tutti i classici della modernità novecentesca non hanno niente a che fare con le avanguardie. Lo spirito di gruppo è assente in autori sommamente sperimentali come Proust, Pirandello, Svevo, Kafka, Joyce, Veléry. Anche scrittori come Benn. Trakl, Machado, Musil, Saba, Sbarbaro, Rebora agirono in solitudine. Pound voleva essere un caposcuola. Eliot molto meno (divenne un pontefice massimo). César Vallejo e William Carlos Williams, Wallace Stevens e Kafavis vissero appartati. I loro esperimenti non avvenivano al riparo di una teoria, di un manifesto, di un gruppo. Dunque: nessuna gararanzia preliminare, nessuna ideologia che giustificasse a rigor di logica che il loro modo di scrivere fosse storicamente più avanzato più legittimo di qualsiasi altro.”21

E sull’Avanguardia Sedlmayr scrive: “L’intenzione dell’antiarte, che apparve intorno al 1910, era la negazione radicale dell’arte e l’annullamento del concetto di arte. Nei manifesti del movimento che si chiamava Dada, questa intenzione è espressa in modo inequivocabile e non si dimostra meno chiara nelle azioni. Il Dadaismo, che non venne fondato per la prima volta a Zurigo nel 1917 ma già intorno al 1910 nella Parigi di Marcel Duchamp e Picabia, era la intenzionale intrapresa di un’antiarte che non risparmiò nemmeno il Cubismo, allora modernissimo. Pare, come riferise Mme Buffet-Picabia, che dal 1910 ci sia stata una straordinaria gara tra Duchamp e Picabia di proposte distruttive e paradossali, come addirittura “Assalti della demoralizzazione dello spirito e dell’umorismo”, e il “Disfacimento del concetto di arte”. Picabia appare come “anti-artiste par excellence”. Nel 1914 Duchamp e Picabia si recarono in America, dove incontrarono il fotografo Stieglitz, di cui dissero: “Stieglitz ha lasciato dietro di sé l’arte, questa idiota parola che ha dominato tutto per secoli”. La stessa aggressione si mostra nel gruppo di Zurigo del Café Voltaire, con Huelsenbeck, Tristan Tzara ed altri. Il gruppo Dada tedesco pubblica nel 1919 con Max Ernst una serie di litografie con il sottotitolo “Pereat ars- l’arte al diavolo”. Per Van Doesburg, che dal 1920 prese parte al movimento Dada, si trattava di una oggettiva istituzione dell’antiarte”.

“Dopo la fioritura negli anni Dieci e Venti, l’antiarte è ricomparsa nuovamente al tempo degli anni Trenta ed anche Quaranta ma ha evitato, dove si mostrava timidamente, di attribuirsi la denominazione omonima di “antiarte”. Solo dopo le rivolte dei tardi anni Sessanta riappare senza maschera, soppianta nelle grandi esposizioni l’arte “astratta” che le aveva preparato perfettamente la via, e si chiama apertamente e senza pudore “antiarte”. Del resto, dalle sue prime uscite negli anni Cinquanta è molto calata. Allora la sua motivazione era il far sensazione, la sua collocazione sociale il ”quinto stato” (Dempf), la sua collocazione metafisica, l’anarchia. Oggi [1980] la sua motivazione è la pubblicità di se stessa, la sua collocazione sociale il mercato d’arte capitalistico, e quella metafisica “l’esibizione”. Il paradiso del surrealista era la bottega del rigattiere (foire de brocage), quello dell’artista pop, il supermercato.”

“Negli anni Sessanta l’antiarte venne trasformata in “arte”, divenne godibile ed ebbe un “valore” sul mercato artistico grazie a due grandi forze della propaganda, il mercato capitalistico d’arte e la stampa, grazie ad una forza minore, la “novità” (e cioè l’avidità di comprendere il nuovo). Nel Neo-dada lo scandalizzare incondizionatamente è diventato un adattamento incondizionato. ‘L’anti è diventato un cuscino su cui si appoggiano comodamente il piccolo-borghese e il collezionista’. ‘Questo Neo-dada” scriveva nel 1962 Marcel Duchamp “che ora viene chiamato neo-realismo, pop art, assemblage, ecc., è un divertimento a buon mercato e vive di ciò che Dada fece. Quando io scoprii il ready-made, pensai di scoraggiare la confusione estetica. Nel Neo-dada usano i ready-made per scoprirvi “valore estetico”! Io scagliai loro lo scolabottiglie e l’orinale per provocarli, ed ora essi lo ammirano come esteticamente bello’ ”22

Non meno puntuali, e da leggere nella loro sintesi con grande attenzione, le considerazioni di Eduard Beaucamp sul passaggio dal procedimento modernista al procedimento avanguardista nelle arti visive: “C’era una volta l’estetica con le sue idee, obiettivi e programmi. Le mettevano le ali. Motore principale di un Moderno ancora vitale erano il dissenso militante da tutte le norme artistiche e la dichiarazione di guerra all’insulsa realtà. Tutto quanto era stato veniva ricusato, tutto doveva essere rifatto da zero, e meglio. Ben presto l’aggressione si è svolta verso l’arte stessa, come se fosse un male di fondo che intralciava una vita più bella e più libera, una coscienza più corretta, una società migliore. La campagna contro l’arte, divenuta ben presto una vera anti-arte, si gonfiò fino a diventare un movimento centrale, e il giubilo per la sconfitta della realtà risuonò per il secolo intero. Negli ultimi anni le mostre, almeno quelle dei rivoluzionari russi e italiani, ci hanno fatto di nuovo vedere quanto fulmineamente questi futuristi hanno provocato l’agognata “fine dell’arte” attraverso la sua elementarizzazione, riduzione, negazione e risoluzione o la sua decomposizione in “pratica sociale”. Rodcenko è per così dire l’esempio tipico. In un battibaleno il russo inventa l’alfabeto astratto e la sintassi di una nuova arte, riduce l’immagine alla dialettica di chiaro e scuro, movimento e forma, corpo e spazio e agli elementi puri di linea, forma e colore, alla pura materialità e struttura della pittura: punto finale”. A quell’epoca anche nel magazzino di Duchamp e dei dadaisti si era già detto tutto sul tema dell’”anti-arte”, l’arte come tale era già stata portata ad absurdum. Dopo il 1945 fra le giovani avanguardie artistiche europee e americane non c’era quasi più nulla che i loro padri, in particolare i russi, non avessero già pensato, sviluppato e portato a termine con maggiore chiarezza. Nonostante ciò i loro eredi non cessavano di proclamare l’infausta fine dell’arte, ma intanto temporeggiavano, ci giocavano, la celebravano in formati giganti, in azioni spettacolari e con plateali gesti di ripulsa. Oggi, senza ombra di compiacimento maligno e reazionario, si può parlare tranquillamente di balordaggini storiche. Stiamo qui perplessi, a mani vuote: un intero secolo si è logorato lavorando alla storia e alla tradizione dell’arte, si è estenuato in questo sforzo enorme e ora, con una produzione artistica senza precedenti e un mercato dell’arte espansivo che gira a vuoto, sta lì senza futuro, senza idee né obiettivi. Il nuovo secolo potrebbe allora impegnarsi nel progetto di una anti-antiarte e forse trovarvi una scappatoia dalle tante trappole e strade senza uscita. Come potrebbero essere i nuovi spazi e le nuove licenze? Se ci si attenesse alla infantile imitazione dei modelli delle avanguardie del XX secolo che traevano la loro forza dall’opposizione all’Ottocento, si dovrebbe fare il contrario di tutto quello che il Moderno ha dettato e che ha portato l’arte quasi al punto zero. In questo senso sarebbe auspicabile una riabilitazione di tutto ciò che è regionale, narrativo, mimetico, illustrativo, decorativo e psicologico, tutto ciò che è impuro e non autonomo. Se si ha bisogno di nuovi modelli si dovrebbero dimenticare tutti gli ortodossi legislatori moderni e guardare agli outsider, ai diversi, ai non allineati, a coloro che si sono realizzati lungo percorsi propri e hanno elaborato la propria biografia attraverso l’arte. Ancora oggi il primo esempio che incarna tutto questo continua a essere, paradossalmente, l’iniziatore del Moderno: Picasso, che senza scrupoli ha vissuto la propria esistenza attraverso l’arte, nel disprezzo di qualsiasi dogma. Ma forse gli artisti non hanno più la voglia o la forza per la negazione, che logora. Forse gli incessanti giochi finali si placheranno in silenzio nell’arco di una notte. Forse in mezzo al chiassoso e lucrativo lunapark delle arti-surrogato nessuno ha finora notato che la vecchissima, inutilmente bella, ribelle e critica, amata e odiata, comunque assurda Musa nel frattempo si è addormentata.” 23

Sociologia

Il termine “avanguardia” indica un andare “più avanti” di qualcosa che rimane indietro. In ciò sono impliciti il movimento dell’andare avanti, e il concetto di massa, il qualcosa rispetto alla quale si va più avanti. L’avanguardia è possibile storicamente solo in una società di massa, perché la società di massa è il prodotto del capitalismo e della tecnocrazia, che sono a loro volta il prodotto dell’idea di progresso (dell’andare avanti).

L’avanguardia artistica, il procedimento avanguardista, è dunque l’intrusione nell’arte, che costitutivamente non ha progresso, della ideologia del progresso del pensiero razionale occidentale (v. “TempoFermo” n.1, p.28). Questa intrusione ha costretto l’operazione arte (arte come qualità di artisticità) in un processo di progresso che non le è proprio, e che ne ha prodotto lo snaturamento in una operazione di produzione di eventi e oggetti che artistici non sono, ma che sono stati istituzionalizzati nell’arte come istituzione.

L’arte come istituzione è risultato di una concezione storicistica e sociologica della realtà, egemone durante il secolo XX. Per la sociologia: “Anche quando un "oggetto" nella sostanza è sempre lo stesso (come la natura, il mangiare, l'amare, il pensare), se muta la società in cui opera, muta il suo rapporto con questa società. Così l'artisticità, che nella sostanza è sempre la stessa, perché è prodotta anzitutto per lo stesso bisogno fondamentale antropologico, è sempre stata usata nella società in rapporti mutevoli, a livelli differenti e secondo differenti funzioni (funzioni terze sociali). Ma questo non giustifica la negazione, da parte della sociologia, della funzione principale (la funzione genetica prima antropologica), negazione che porta all’errore di considerare l’arte costitutivamente in progresso. Ciò deriva dal fatto che la sociologia (e quasi tutta la filosofia24 si preoccupa esclusivamente dei rapporti e degli effetti dell’arte sulla società che muta, del momento della fruizione da parte della società, e non anche del momento della produzione da parte dell'umanità (che non muta) e quindi dell'Autore.” (“TempoFermo” n. 1, p. 28)

La storia dell’arte (che non è certo scritta dagli autori, ma da storici, filosofi, critici ecc.) afferma, dal punto di vista del fruitore, che il riconoscimento che il valore principale di un’opera d’arte stia nella sua qualità di artisticità (forma) è una conquista della Modernità, mentre nel passato il valore principale dell’opera era sempre stato riconosciuto nei contenuti (significato). Ciò non è vero: per gli autori, e per le persone a loro vicine per sensibilità, insomma per tutti coloro che le opere le hanno insieme prodotte, il valore primo di un’opera è sempre stato quello della riuscita artistica, dove la forma si impone sul significato (vedi in “TempoFermo” n.1. p. 45). Se così non fosse, non sarebbero mai state prodotte nel passato opere che mostrano a noi oggi con la massima evidenza le caratteristiche che ce le fanno definire “artistiche”. D’altra parte ancora oggi la stragrande maggioranza dei fruitori dà immensamente più valore al significato che alla forma, e non sa che nell’opera d’arte si entra dalla porta principale della forma, e solo dopo si scende nei sottosuoli dei significati.

Il giudizio di valore sulle opere è derivato nella storia dal riconoscimento della qualità di artisticità da parte di quei pochi che l’hanno prodotta insieme. Essi hanno determinato tradizioni di gusto, all’interno delle quali si sono adeguati gli apprezzamenti estetici dei molti. Queste tradizioni di gusto hanno prodotto giudizi funzionali. Non si tratta certamente di giudizi assoluti, molto improbabili nell’ambito dell’arte, ma di giudizi funzionali, cioè funzionanti all'interno di una tradizione (anche se, al di là delle differenti tradizioni culturali storiche, esiste per l'arte una unica tradizione di fondo, sempre la stessa, che è il sistema antropologico dell'arte).

Con l’avvento del progresso moderno, queste tradizioni storiche hanno accelerato i loro cicli di rinnovamento fino ad annullarsi in quella che è stata chiamata paradossalmente la "tradizione del nuovo". Già nel Rinascimento il "nuovo" aveva acquisito un certo valore, assente nelle altre tradizioni storiche. Nell'accelerazione dei tempi successivi, le tradizioni hanno perduto sempre di più la loro prerogativa di essere fondamento "di fatto" dei giudizi “di valore”, e questi si sono relativizzati, finché, nella "dialettica del nuovo" delle Avanguardie, il valore del "nuovo" ha sostituito ogni altro valore, anche quello di artisticità. Per cui l'opera tende a valere di più per la sua novità che per la sua artisticità, che ora diventa sempre meno riconoscibile e si perde, non più legittimata da tradizioni stabili. Ma ciò non ha niente a che fare con un progresso dell’arte tout court. Ha solo a che fare con il procedimento avanguardista.

Già dal secolo XIX° l'arte è stata violentata dall'idea di progresso.25 Il corpo sociale storico che muta (i rapporti economici di produzione) è considerato dalla sociologia più concreto e reale del corpo psicofisico del singolo. Per cui anche l'arte, pur strettamente legata al corpo psicofisico del singolo, è considerata non un prodotto di questo, ma solo del corpo sociale. E poiché il corpo sociale è in progresso, nella gabbia della sociologia anche l'arte è in progresso. E così l’arte come qualità di artisticità, che non muta, si riduce lentamente a arte come istituzione, che muta e può progredire.

Solo una grande presunzione del pensiero razionale può pensare di introdurre la categoria di progresso (di redenzione, di salvezza) nell’arte, un territorio dell’anima riuscito a rimanere immune per secoli da ogni escatologia delle religioni patriarcali monoteistiche e dal tempo come “Storia”.26 Una presunzione del razionalismo moderno 27, che non si è invece veramente mai chiesto perché l’uomo antichissimo abbia inventato l’operazione arte. Ci si sarebbe accorti che essa nasce proprio dalla umanissima e cosciente accettazione, da parte dell’homo sapiens sapiens, della “tragicità della vita senza progresso” e della propria costitutiva contraddizione (vita/morte; tempo/eternità; da qui la definizione dell’opera d’arte come “tempo fermo” (vedi “TF” n.1, p. 45).

L’escatologia (dal greco eschata, cose ultime) è l’idea che il mondo, o per lo meno la vita dell’uomo, possa avere un senso, un fine, un destino di salvezza. Ci sono già in embrione in questo “movimento” verso un destino i concetti di avanguardia e retroguardia.

Le radici di questa escatologia stanno nella concezione giudaico-cristiana del tempo come processo verso la salvezza. In questa concezione escatologica si innesta poi la razionalità dell’uomo umanista che pretende di gestire in proprio questo tempo come processo di salvezza, su questa terra. Egli fa così di questo tempo la Storia, che è un tempo lineare e cumulativo, che ha un senso e una direzione verso una meta (e non è più un tempo insensato come in altre culture).

“Responsabile della condizione umana in una dimensione del tutto nuova, l'umanista pensa di progettare con razionalità il proprio futuro: in questo è l'inventore della Filosofia della Storia, dell'Idea di Progresso e quindi della Modernità. Essere moderno vuol dire, in questa precisa accezione, vivere e produrre, e quindi sviluppare ogni tipo di conoscenza, per il miglioramento progressivo illimitato della propria condizione esistenziale. E anche l'arte deve collaborare a migliorare quest'uomo in progresso, quest’uomo perfettibile (vedi “TF” n. 2, p. 86).

Secondo Jung l'Idea di progresso, come distacco dalla tradizione, ha indotto allo "sradicamento" della coscienza dalle istanze più profonde della psiche, a una "perdita del mondo" delle origini, di quel mondo inconscio, atavico e immaginifico che è la garanzia costitutiva antropologica della "umanità" dell'uomo. Si produce così una prevaricazione da parte della coscienza razionale, per cui la spiegazione ultima delle cose viene ormai cercata solo nella fisicità del mondo esterno (metafisica della materia) attraverso la razionalità scientifica e il dominio tecnologico.

Questa coscienza razionale si trova allora disancorata, sradicata da quel mondo inconscio e costretta in una conoscenza razionale che diventa la sua prigione. In tal modo l'uomo moderno "entra senza accorgersene in un mondo di concetti, in cui i prodotti della sua attività cosciente sostituiscono progressivamente la vera realtà" (da “TempoFermo” n.2, p. 91-92)28 Questo progressivo essere "sradicato dal seno materno universale della primitiva incoscienza" comporta nell'uomo moderno l'indebolimento della propria identità. Questo “seno materno universale” costituisce un altro da sé transtorico e transculturale fortissimo nel conferire l’identità; ma ora esso perde forza, si frantuma in una dimensione solo storica e così si relativizza: l'identità dell'uomo (che dall'altro da sé in gran parte dipende) si fa debole e incerta. Nell’assenza di ogni stabile valore l’uomo approda al nichilismo.

Il nichilismo è l’assenza, nell’uomo, di trascendenza

“Ad un certo punto della evoluzione l’Ominide inventa la trascendenza. Il termine non ha qui alcuna connotazione sacra o metafisica. E’ trascendente quel pensiero che nella sua capacità di astrazione, riesce a concepire una entità astratta che supera (trascende) i singoli, diventando un loro denominatore comune. Questa entità che i singoli pensano in comune, e che in certe occasioni i singoli possono sentire tanto importante se non più importante di se stessi, questa trascendenza che vive e si inventa nell’individuo è, nel suo primissimo significato, la “divinità”. La “divinità” (ben precedente l’istituzione ideologizzata delle religioni) consiste in questa invenzione del pensiero dei singoli, che li accomuna in un comune pensiero, trascendendo i loro egoismi. Essi sono ora parte di una “comunità di pensiero”.

Questa divinità non è tanto una separazione di anima e corpo, quanto un denominatore comune nella mutevolezza dei corpi. E’ anzitutto esperienza della costante nel processo del divenire.

Questa costante/trascendenza/divinità è l’Altro. Un altro da sé molto più forte dell’altro da sé rappresentato solo da un altro individuo o oggetto, e quindi fonte di una fortissima identità.

L’arte, per il suo essere una fortissima costante, un fortissimo Altro, è sempre stata nell’antichità considerata “divina”.” (da “TempoFermo” n. 1, p. 22).

L’operazione arte che da 40.000 anni ci accompagna è narrazione della vita. Si può anche prescindere da questa narrazione, ed estetizzare invece la vita stessa (arte = vita del procedimento avanguardista). Ma perché si fa questo? Forse non c’è più niente da narrare, niente cioè che valga la pena di essere narrato? Nel senso che ciò che si dovrebbe narrare non è più così importante, così “trascendente”, così Altro, da indurci nell’impegno etico e forte di fare veramente arte, da concedere al nostro talento di creare vere opere d’arte?

In altre parole, forse fare arte è possibile solo se c’è l’Altro da narrare? Tutti gli artisti nella storia hanno narrato le cose del mondo e se stessi, carichi della “divinità”, della trascendenza, dell’Altro. Perché erano loro (gli uomini tutti) in comunione con la “divinità”, con gli dei, con Dio, con l’Altro. Ma se ora, come appunto dice Nietzsche, Dio è morto, cosa narrare? Se gli dei ci hanno abbandonato, forse narrare l’”uomo solo” (senza dei) non induce più il nostro talento a creare opere d’arte?

Per questo allora l’operazione arte, “senza contenuto” da narrare, si ripiega su se stessa, o magari fa di sé stessa il suo contenuto, per ancora poter essere. Questo è il procedimento modernista. In esso il contenuto da narrare è il Linguaggio stesso, l’inconscio, l’ignoto di Rimbaud: l’unico possibile Altro da narrare.

Ma possiamo rivolgerci altrove, e scegliere come Altro il progresso, l’Utopia. Ma come possiamo narrarla, se l’Utopia non ha un “vissuto”? Allora non narreremo più. Ridurremo l’operazione arte a strumento della Utopia. Ma così non faremo più arte, faremo altro. Faremo avanguardia: sperimentalismo (dalla scienza), concettualismo (dalla filosofia): l’autosuperamento dell’arte (secondo Hegel).

Infatti, man mano che l’uomo umanista si allontana dagli dei, e “in solitudine” (v. “La solitudine dell’Occidente” in “TF” n. 2, p. 89) si avventura nel suo futuro, cioè man mano che, nella Modernità, Dio, la Natura, l’Essere lasciano il palcoscenico al nuovo protagonista, l’Uomo, le opere d’arte non sono più la parola dell’Altro. Le opere d’arte ora sono solo un prodotto dell’uomo, non un “dono degli dei”. L’arte non è più il dialogo privilegiato dell’uomo con gli dei, gli artisti non sono più gli interpreti della voce degli dei. Gli dei eterni se ne sono andati, e un simulacro ha preso il loro posto: il “Nuovo”. Ora “sacro” diventa il Nuovo, perché è il salvacondotto della felicità su questa terra. La macchina per la produzione del Nuovo è la scienza moderna e i sacerdoti del Nuovo sono gli scienziati. Gli artisti, ora narratori soltanto dell’Uomo “solo”, perdono il loro prestigio, vengono detronizzati dalle sedi oracolari. E l’arte diventa sempre più solo una esclamazione di incertezza. Incertezza, perché gli artisti (e i filosofi) sanno ormai (nell’800) che la scienza non può migliorare l’anima dell’uomo, come vuole l’utopia umanista, ma solo la sua materia. Filosofi e artisti sanno che l’umanesimo ora sarà tradito, che il progresso sarà solo materiale e non integralmente umano.

Questo per quanto riguarda gli Autori del procedimento modernista. Gli Autori del procedimento avanguardista e postmodernista invece “si divertono”. Infatti, mentre Prassitele o Raffaello prendono molto sul serio il loro lavoro considerato il tramite più sublime fra l’umanità e gli dei, che attraverso l’arte parlano agli uomini, e gli Autori del Modernismo si affaticano a inventare nel Linguaggio il nuovo Altro, gli avanguardisti e postmodernisti “si divertono”, non dovendo rendere conto a nessuno se non a se stessi e ai loro amici. E tanto meno devono rendere conto all’opera. Il loro senso di responsabilità è molto limitato, tanto da riuscire a teorizzare che l’opera vale solo in quanto ci si diverte a farla (vedi: il Dilettante).

Allora quello che sta succedendo forse è semplicemente questo: l’uomo (occidentale) non ha più bisogno di arte. Non ha più niente in se stesso di “divino”, di trascendente, non sente nessun Altro dentro di sé, che possa e debba essere narrato in forma di opera d’arte. E senza questo Altro dentro di sé, non riesce neppure più a sentire l’ineffabile mirabile Altro che l’artisticità è, quando ancora essa gli si presenta. In fondo, appunto, non ne ha più bisogno, e quindi non la cerca, e non impara a sentirla, a riconoscerla.29

Scrive G. Carchia (in “Arte e bellezza”, il Mulino 1995, p. 13): “Fra i rischi degli attacchi contro l’autonomia e l’isolamento dell’opera, rinnovatisi con zelo a partire dagli anni Settanta e trapassati in alcune varianti del postmodernismo, volte a stabilire per decreto l’estetizzazione della società, c’è proprio quello dell’allentarsi di qualunque tensione nei confronti della dimensione del valore, col conseguente degrado della sfera artistica, nuovamente confusa col mondo del semplice produrre lavorativo e della tecnica. In realtà, la fondazione conferita all’etica dai teorici dell’ermeneutica trascendentale (Apel e Habermas), l’ammissione cioè che senza un ideale trascendentale della comunicazione, senza l’attribuzione di un valore in qualche modo morale all’idea di verità, si ha la distorsione strumentale dei rapporti fra gli uomini, dovrebbe valere a maggior ragione per l’arte. E’ questo il punto che non è stato compreso dai teorici dell’estetica della recezione nella loro critica dei presupposti dell’estetica idealistica. Il loro attacco contro il presunto normativismo dell’estetica filosofica tradizionale (fino ad Adorno e a Heidegger) è stato portato, non già in nome della esperienza artistica autentica, come nella fresca e appassionata rivolta della prima Kunstwissenschaft, bensì in nome di una esperienza estetica che ha il suo referente nel gusto inteso come doxa, opinione della socialità dominante. L’insistenza- contro le estetiche “negative”- sulla necessità di ricomporre la frattura fra l’arte e la storia, fra l’arte e la società (H. R. Jauss), mettendo fra parentesi la dimensione dell’origine e della creazione sulla quale avevano insistito i teorici della Kunswissenschaft, ha come risultato l’adeguazione totale all’esistente, vale a dire l’accettazione di qualunque cosa la socialità accrediti come arte. A rigore, tuttavia, un’estetica non normativa, un’estetica cioè che non abbia in qualche modo presente l’esigenza di un legame fra l’arte e la bellezza- o comunque si chiami la sua dimensione di trascendentalità- non potrebbe neppure esistere, sarebbe letteralmente senza oggetto. Ciò- è ovvio- intendendo per “norma” non la prescrizione accademica di regole ovvero una caricatura della nozione di classico, bensì l’anelito della forma alla trascendenza”.

E M. Ferraris, in “Il recupero del valore di verità nell’arte” (in Calligaro/TEST. 1, 1988): “Ma è sopratutto il fruitore di cose artistiche colui che, in questa prospettiva, affossa definitivamente qualsiasi pretesa di verità dell'arte. Il gusto estetico, ora, è una attività puramente soggettiva: dipende dalle intenzioni dell'autore, ma specialmente da quelle del fruitore, che può decidere di trovare bella qualsiasi cosa. Ma che pretesa di verità può avere un oggetto o una attività che dipende dall'atomistica decisione di un gusto individuale che non corrisponde a alcun sensus communis riconosciuto e pubblico?”

L’operazione arte è incompatibile con il nichilismo. Lo è per il semplice fatto che si fonda, non metafisicamente ma antropologicamente, su una qualità oggettiva di artisticità dell’oggetto (opera). Scrive F. Vercellone illustrando il pensiero di E. Jünger: “I territori che il nichilismo non riesce a conquistare, la terra vergine che promette di restare tale è costituita da due momenti fondamentali della vita: la morte e l’amore, e dal luogo nel quale per eccellenza l’interiorità si cristallizza: l’arte.”29a Solo all’interno di questa condizione di nichilismo può avvenire che non si prenda più in considerazione la qualità di artisticità dell’oggetto opera, ma anzi la si voglia distruggere in favore di una autoaffermazione del soggetto autore, cioè della società.

Se molti artisti denunciano dunque questo malessere nel procedimento modernista, altri pretendono invece di sfidare gli scienziati sul loro terreno, lo spericolato campo del Nuovo: “facciamo progredire la nostra arte, in modo che diventi essa stessa il vero Nuovo, lo strumento della liberazione dell’uomo”. L’arte deve risolversi nella “vita come opera d’arte”. Accanto alla rivoluzione politico sociale, l’arte sarà strumento privilegiato di questa rivoluzione.

Questa “buona intenzione”, che inaugura nell’arte una nuova funzione sociale: l’arte per il progresso (oltre alle funzioni sociali tradizionali: testimoniali, celebrative, religiose, critiche, decorative, ecc., ecc.), produce, fra le enormi conseguenze derivate appunto dalla intrusione pesante della razionalità filosofica nell’arte, la competizione dell’arte con il progresso della scienza nel procedimento avanguardista.”

Ma può l’arte competere con la Tecnica?

Certamente anche l’arte (l’artisticità) è il prodotto di una tecnica. Ma l’artista è un uomo che ha un forte rapporto con l’Altro dalla razionalità, che appunto nell’arte si manifesta. L’artista è costitutivamente non-usato dalla Tecnica, ma è invece l’emblema dell’uomo che usa la tecnica come strumento. Ma quando un Autore ha perso quel rapporto con l’Altro non riesce a produrre oggetti artistici, ma solo oggetti estetici e estetizzazione. Appunto tali oggetti sono espressione più della “volontà di potenza”, della razionalità dell’uomo nichilista, che dell’Altro. Così anche l’arte, una delle “oasi” che E. Jünger30 poneva ancora a difesa dell’uomo nel deserto del nichilismo, sembra inaridirsi.

Si sa che gli ultimi 150 anni dell’arte, disciplina, con la filosofia, più esposta e sensibile ai temporali dell’uomo, altro non sono che una lunga e ingarbugliata agonia (lotta) dell’angelo con il “marchingegno” nichilistico della Tecnica e del Capitalismo (Tecnocrazia).

Avanguardia e scienza

Dunque nel procedimento avanguardista propriamente detto l’autore, coerente con il termine che definisce avanguardia qualcosa “più avanti” di un'altra (nel progresso verso una condizione migliore), concepisce l'opera non in funzione di una sua artisticità, ma anzitutto come strumento (sempre all’avanguardia, sempre più nuovo) nel processo verso la rivoluzione sociale, unica soluzione possibile alla crisi epocale.

E' in funzione di tale processo rivoluzionario che egli produce opere "di avanguardia", cioè strumenti sempre più avanzati, sempre più "progrediti" e funzionali a quel progetto: ed è chiara allora qui la concezione tutta sociologica, non più antropologica, della operazione, dove la qualità di artisticità dell’oggetto passa in secondo piano.

Sono state le Avanguardie storiche a disancorare l'arte dalla "eternità" antropologica (propria all’homo sapiens sapiens), per gettarla e appiattirla sul piano sociologico tutto all'interno della ideologia del progresso. Su questo piano si è trasformata l'opera d'arte in mero strumento in funzione del progresso, cioè con un valore determinato solo dal suo essere "nuova" in funzione del progresso. Il giudizio sull'opera non deriva più dalla qualità di artisticità, ma solo dalla funzionalità al progetto sociopolitico.31

Tutto ciò che il procedimento avanguardista produce appartiene alla concezione sociologica del razionalismo, ed è considerato e giudicato in base a questa concezione di progresso relativista, invece che in base alla costante di artisticità. Il significato della operazione è attribuito in funzione del processo di progresso dello Storicismo razionalista. E’ pertanto più contenutistica che formalistica. L'avanguardia è a tal punto sociologicamente contenutistica da temere che il contenuto/idea rivoluzionaria venga "diminuito" dalla forma (artisticità), che è considerata allora per se stessa conservatrice.

Questa concezione sociologica progressiva dell'arte deriva dal predominio della scienza e della tecnologia. Pretendendo di essere l'esclusiva chiave della verità, la scienza ha piegato ai propri modi altre forme di conoscenza, come l'arte. L'arte deve così partecipare al modo progressivo della scienza, relegata in una dimensione sociologica di mero oggetto funzionale al progresso.

Gli avanguardisti si sono posti all’inseguimento degli scienziati, per avere anch’essi un ruolo come “salvatori” dell’uomo. Presi dal panico per la perdita della tradizione e della funzione romantica (esagerata) dell'arte (ridotta dalla borghesia capitalista ad assolvere una mera funzione edonistica e commerciale), messi in ombra ormai dalla egemonia della scienza, gli avanguardisti hanno scelto il destino degli scienziati. Sempre più spesso si sono sostituiti a quelli, in una voluta confusione fra arte e scienza, in una "ricerca" fine a se stessa (arte di ricerca e sperimentale: termini presi dalla scienza), producendo oggetti che invece di opere d’arte vogliono essere strumenti di conoscenza del linguaggio, della percezione, della psiche ecc., e quindi "giudizi assoluti di verità" sulla realtà.32

Si sa che gli scienziati sono costretti, nel progredire delle loro difficilissime teorie e ricerche, a essere sempre di più degli iniziati, sempre più lontani nelle loro esperienze dalla comune esperienza sensibile. Essi sono veramente "avanguardie" di un sapere che progredisce facendosi sempre più difficile per gli altri, e come tali sono ormai sacerdoti e unici interpreti di questo loro sapere, che per gli altri è "enigma". Anche gli "artisti" che pretendono di ridurre l'arte a oggetto funzionale al progresso per ritrovare, come Autori, la funzione sociale prestigiosa che hanno perso, pensano di essere iniziati, sacerdoti di un'"arte" per iniziati che solo loro capiscono, in quanto "vera" avanguardia del progresso. Ma si illudono e mostrano che il loro "enigma" è solo in gran parte manifestazione di potere (l'"enigma" come potere nelle Avanguardie), "rilasciando al pubblico, per così dire a priori, un brevetto di incompetenza".34 La proposizione relativistica "l'arte è ciò che gli uomini (che hanno il potere di farlo) chiamano arte" è stato lo strumento per l'esercizio del potere di questi sacerdoti (“TF” n. 1, p. 31/32).

Vale la pena citare a questo proposito alcuni testi di A. Berardinelli, da “La cultura del novecento/Letteratura”, Oscar Studio Mondadori 1981, che si riferiscono alla neoavanguardia letteraria italiana del dopoguerra, ma valgono per il procedimento avanguardista in generale: "L'ideologia letteraria, l'attivismo autopropagandistico e autopromozionale degli scrittori d'avanguardia, la loro alacrità organizzativa, la loro passione per l'autoesegesi terroristica (chi non scrive così è fuori dal corso della storia, non incarna il massimo di coscienza storico-letteraria oggi possibile e necessaria, ecc.) avevano finito per dare l'impressione, o diffondere la convinzione che, dal momento che non si trattava di scrivere opere ma anti-opere, e la qualità eversiva di queste ultime, non essendo quasi mai di per sé evidente, doveva essere preliminarmente illustrata al lettore, ciò che infine contava non erano gli scrittori ma gli ideologi: non era tanto saper scrivere quanto saper creare intorno ai propri testi l'indispensabile involucro, la necessaria confezione che garantiva della validità testuale e storico-sociale dell'oggetto". (p.422)

"Per l'autore d'avanguardia il testo letterario e il prodotto artistico devono agire. Se questo non avviene, si incaricherà l'autore in persona di agire "come un testo", assumendo su di sé il compito di propagare quella esteticità attiva che è assente o ridotta nelle cose che scrive. L'istanza critica, orientata contro la divisione borghese tra arte e vita, azione e contemplazione, teoria e prassi, si trasforma velocemente in attivismo commerciale, in conquista del mercato." (p. 427)

"Nel processo di avvicendamento delle élites, perché i vecchi gruppi siano sostituiti dai nuovi è stato spesso necessario per questi ultimi cominciare con l'accreditarsi anzitutto quali angeli della morte e agenti della fine del mondo, per sfruttare poi a proprio vantaggio il brivido o il panico che queste immagini seminavano intorno". (p. 428)

Citato da Berardinelli, ma appartenente a H. M. Enzensberger, questo altro brano: "Scrittori, pittori, compositori, come fornitori di questa industria, non sono altro che "agenti economici" di cui assumono anche tutti i tratti caratteristici: debbono "camminare coi tempi", essere sempre avanti di un pelo ai concorrenti. Non possono permettersi di "perdere la coincidenza", se vogliono rimanere in testa. Ciò spiega come mai gli scrittori ultracinquantenni amino farsi definire "giovani autori". Ovviamente una struttura economica come questa favorisce la basse manovre. Rende possibile la nascita di una avanguardia che è soltanto un bluff, una fuga in avanti, alla quale il grosso si unisce per paura di restare indietro. Entra a questo punto in scena il tipo che concorre per precorrere. Nella affannosa corsa agli sportelli del futuro, qualsiasi gonzo può considerarsi gonzo di guida. Chi si tiene "al corrente" in questo modo è sempre oggetto di un processo che egli crede di condurre come soggetto" (p. 430).

Tutto ciò è poco coerente con i progetti delle avanguardie storiche, che si proponevano una rivoluzione estetico-sociale, e pertanto un coinvolgimento, se non delle masse, di un vasto pubblico nelle loro manifestazioni, nella sintesi arte-vita. In questa contraddizione, da un lato gli autori rifiutano la comunicazione col pubblico, in quanto il gusto del pubblico è considerato borghese e conformista, dall’altro si autopromuovono pubblicamente con convegni, manifesti, riviste, spettacoli ecc. Questa contraddizione, che non investe gli scienziati, in quanto il loro essere avanguardia si risolve e concretizza nella immensa produzione di tecnologie per tutti, si risolverà nell’ambito estetico solo più tardi nel procedimento postmodernista, dove non si tratterà più di azioni esemplari di autori per il pubblico, ma di una produzione massiccia di oggetti estetici testimoniali da parte dello stesso pubblico, diventato lui stesso ora il protagonista della operazione. Ma si tratterà di una post-avanguardia, di un ulteriore passaggio (dopo quello dal protagonismo della riuscita dell’opera dei procedimenti tradizionalista e modernista) dall'Autore protagonista della modernità delle avanguardie al pubblico protagonista della postmodernità. L'oggetto estetico testimoniale sarà prodotto "democraticamente" da tutti per tutti, il pubblico sarà produttore e pubblico insieme. Ma a questo punto ormai ogni giudizio di artisticità sarà non pertinente, e la parola “arte” sarà solo un feticcio.35

L’arte come qualità di artisticità si è dissolta nell’arte come istituzione.

Ormai fallita la estetizzazione di tutti come rivoluzione sociale e superamento della produzione di oggetti del procedimento avanguardista, la estetizzazione di tutti prosegue nella produzione e uso generalizzato di oggetti estetici testimoniali del procedimento postmodernista. Ma in questo processo di estetizzazione, che è in sé un fatto positivo36, se non altro come femminilizzazione di una cultura razionale decisamente maschilista, non vanno assolutamente confusi gli oggetti artistici con gli oggetti estetici testimoniali, perché ciò porta all'inevitabile estinzione dei primi. Come nell'ambito dei giochi si può giocare a scacchi e a tennis e a pallone, nell'ambito delle cose estetiche si possono produrre oggetti artistici e artigianali e estetici testimoniali. Ma la ideologica confusione degli oggetti sotto l'unica sigla protettrice dell'arte è mistificante: è come se un giocatore di tennis si spacciasse per giocatore di pallone, solo perché il giocatore di pallone è pagato molto di più di quanto sia pagato il giocatore di tennis.

Dunque il "nuovo", se è un valore importante ma non determinante nel procedimento modernista, è invece del tutto determinante nel procedimento avanguardista .

Ma costringere l'arte nella prigione della dimensione sociologica del “nuovo” del progresso (che è la dimensione del concetto di "avanguardia") comporta una contraddizione devastante, perché l'arte non ha progresso. L'arte, come operazione per la riuscita dell’opera in qualità di artisticità, è sempre identica a se stessa, senza progresso (come già aveva detto il troppo poco ascoltato C. Fiedler, 1841/1895).

L'arte funziona in modo diverso dalla scienza. La scienza moderna è in progresso e pertanto "finisce". "...quanto più rapidamente la scienza avanza, tanto più raggiungerà i suoi limiti estremi e ineluttabili".37 La fine della scienza è nel suo successo. L'arte non ha progresso, e pertanto non può "finire", ma soltanto "morire".

Nella scienza moderna Darwin "corregge" Lamarck, e Einstein "corregge" Newton, ma nell'arte Giotto non "corregge" Prassitele, e Picasso non "corregge" Dante. Einstein è meglio (è più progredito) di Newton in quanto più nuovo nel progresso nel tempo della scienza moderna. Giotto non è meglio (non è più progredito) di Prassitele in quanto più nuovo in un progresso nel tempo dell'arte.38 Infatti il "nuovo" del Modernismo è il risultato di una ricerca di "identità" dell'autore, non di una ricerca del "meglio" di un'opera nuova rispetto al "peggio" di un'opera del passato. Picasso o Joyce non considerano le loro opere "migliori", perchè "più nuove", di quelle del passato.39

Sulla questione di un progresso dell’arte si è ampiamente trattato a p. 29 di “TempoFermo” n.1. Ma poiché il procedimento avanguardista è proprio l’oggettivazione di un simile presupposto, conviene soffermarsi ancora sul tema. Si citano qui di seguito alcune delle considerazioni di G. Steiner, dal suo libro “Grammatica della creazione” (Garzanti 2003): “La scienza e la tecnologia progrediscono senza tregua. La loro condizione d’esistenza è di avanzare attraverso il tempo misurabile. Questa banalità ci conduce a una delle maggiori sfide epistemologiche ed estetiche: è possibile applicare questo concetto primario di progresso, di avanzata, alla poiesis, alla storia delle realizzazioni, delle forme di esecuzione nelle arti, nella musica o nella letteratura?” (p. 230).

“La conoscenza scientifica e tecnologica è cumulativa. ‘Addiziona’.” (p. 232)

“Cosa costituisce, per contra, un’avanzata rispetto a Omero o a Sofocle, a Platone o a Dante? Quale opera teatrale si è spinta oltre Amleto, quale romanzo supera Madame Bovary o Moby Dick? Cisono poesie, di Rilke o di Montale, per esempio, che rappresentano un miglioramento in confronto a Saffo o a Catullo? Stravinskij è forse superiore a Monteverdi? Picasso o Bacon a Giotto? Formulare a domanda in questo modo suscita già un senso di assurdità, di domanda mal posta. E’ forte la tentazione di rispondere “no”, di situare le opere estetiche e filosofiche in una immutabilità atemporale e di risolvere così la questione (sottolineando ancora una volta l’abisso di differenza con le scienze). Ma questa problematica non si lascia liquidare così facilmente e ci costringe a un esame più attento.” (p. 232)

“Lo sviluppo del pianoforte moderno, del sintetizzatore permettono a un Debussy o a uno Stockhausen di esplorare, di esteriorizzare possibilità tonali e mondi sonori inaccessibili a Haydn e persino a Liszt. In questo senso senza dubbio importante, esiste un progresso e può esserci un arricchimento. Ma dobbiamo dedurne che una casa di Frank Lloyd Wright o il centro artistico di Jean Nouvel a Lucerna superino e rendano caduchi il Partenone o la Piazza del Campo a Siena? Le Images di Debussy sono migliori del Clavicembalo ben temperato di Bach o degli Scherzi di Chopin? Di nuoco va frenata l’impazienza che ci spinge a rispondere di no. La scultura ha approfittato dell’evoluzione della tecnologia per quanto riguarda la materie grezze e le loro elaborazioni (i “voli” possibili a Calder, non lo erano per Bernini). Ci sono persone che sostengono che, in Occidente, lo sviluppo della comprensione della prospettiva basata sulla geometria, assieme all’introduzione dei pigmenti con base oleosa hanno reso l’arte migliore, più ricca, più convincete. Nalla dialettica della musica elettronica il sintetizzatore mette sul mercato, per così dire, delle possibilità acustiche, dei raggruppamenti e dei timbri sonori che un Boulez può esplorare, incorporare o rigettare nel suo processo creativo. Ma è concepibile, in qualsiasi modo, che questa espansione renda inutili un Berlioz, per esempio, o un Sibelius? L’architetto ha oggi a portata di mano la realtà virtuale generata e reticolata dallo schermo del computer. Questo rende forse Wren obsoleto? Si può sostenere che la macchina per scrivere abbia modificato certi elementi in poesia; il futuro del romanzo verrà cambiato dal word-processor e dal computer? Ciascuna di queste domande pone problemi fecondi.” (p. 232)

“La sentinella che aspetta sul tetto all’inizio dell’Orestea usa parole, regole grammaticali e figure retoriche che sono fondamentalmente le stesse di quelle dei vagabondi che aspettano Godot circa due millenni e mezzo dopo. In quali modi la pièce di Beckett può essere considerata più progredita di quella di Eschilo, se lo è? Ha un senso questa domanda?”. (p. 233)

“...va notata l’estrema flessibilità delle utilizzazioni della durata possibli in campo estetico. Un Mann, un Joyce, un Pound o uno Stravinskij possono “inventare all’indietro”. Come innumerevoli predecessori, possono deliberatamente arcaicizzare le loro opere, a livello sia del mezzo che del contesto”.(p. 235)

“Data questa differenza essenziale, chiediamo di nuovo: nella creazione estetica, il fatto che B venga dopo A, per quanto sia un fatto importante e informativo, rende forse B migliore di A? A è forse reso obsoleto? La risposta , credo, è un categorico no.” (p. 236)

Avanguardia e Pragmatismo

Il procedimento avanguardista presenta due contraddizioni:

1. Quando è propositivo di "opere d’arte nuove", questo loro dover essere per forza, inesorabilmente “nuove”, si riduce di fatto a un loro essere "nuove" non nella sostanza, ma solo come merce per il mercato capitalistico (poiché non possono uscire da questo destino di merce se non cambiando prima la società). Non solo queste opere si sono rivelate inadeguate a produrre questo cambiamento della società, ma, come merce, rappresentano oggi nella Postmodernità solo il "nuovo per il sempreuguale" della moda e del mercato. Il risultato è: più oggetti nuovi, più mercato, più mercato, più macerie di oggetti non più nuovi, in un processo di invecchiamento e degrado della qualità che non può che portare inevitabilmente al trash ("arte spazzatura")

2. Quando è propositivo di un'"arte nuova", cioè di “opere di un’arte nuova", di un nuovo modo di concepire l’operazione arte, e si fa radicale, non può che negare l'opera d'arte stessa come operazione retrograda (perché senza effetto progressivo) e come oggetto “separato” dalla vita (come è sempre stato). La concezione di questa "nuova arte" non è che l'equazione arte/vita, cioè la vita stessa come opera d'arte, ossia l'estetizzazione della realtà (vissuta in modo nuovo) piuttosto che produzione di oggetti artistici/opere d'arte.

Se dunque da un lato l'Avanguardismo non può opporsi al trash che esso stesso produce, dall'altro si rifugia nella Utopia dell'arte/vita, al di là dell'oggetto opera d'arte.

L'equivoco che, voluto o no, ancora perdura, sta nella ostinazione a chiamare arte e opere d'arte (nell’arte come istituzione) oggetti che sono il prodotto di una "nuova arte", operazione che invece non si prefigge affatto di produrre opere d'arte (nel senso dell’arte come qualità di artisticità), ma solo oggetti che estetizzano la vita.

Se si vuole inventare nuovi modi di espressione estetica in funzione della estetizzazione della vita, non si vede la ragione di chiamarli ancora arte, quando invece pretendono di essere radicalmente nuovi, al di là dell'arte. In verità succede che nella maggior parte dei casi, non ci si vuole affatto avventurare fuori dall'abbraccio materno e protettore dell'arte storica e del suo prestigio, e per questo aspetto il procedimento avanguardista è solo frutto della cultura dominante e di fatto oggettiva conservazione (fino all’avvento del procedimento postmodernista) dell'assetto estetico e artistico esistente.

E’ solo in questo procedimento postmodernista che si dichiara apertamente (almeno negli scritti teorici, anche se non nella pratica) la non pertinenza ormai del concetto di arte.

E' infatti un controsenso produrre oggetti estetici per estetizzare la vita e comportamenti di vita estetizzata (arte=vita), e chiamarli opere d'arte, quando si sa che un'opera d'arte è interpretazione della vita (narrazione), e ha pertanto un suo rapporto costitutivo di "distanza" dalla vita, di Altro dalla vita. E' un oggetto prodotto che ha un suo valore per se stesso al di là della vita dell'autore e del suo comportamento. Fare della vita un'"opera d'arte", non è fare un'opera d'arte. La vita è un fatto estetico, non un fatto artistico.

Certamente è di tutt'altro avviso è l'Estetica della filosofia pragmatista americana, e di Dewey in particolare, la cui enorme influenza sulla cultura e l'arte americana è straripata in Europa nel dopoguerra. Spiega Givone nella sua Storia dell'estetica: "...l'arte appare non come qualcosa di diverso e di altro rispetto alla esperienza, ma come l'esperienza stessa nel suo compiersi finalistico e nel suo concentrarsi su questo compimento. E' una differenza di grado, secondo Dewey, quindi una differenza soltanto quantitativa quella che distingue ciò che è arte da ciò che arte non è. ‘Grado di compiutezza della vita nell'esperienza del fare e del percepire", lo definisce Dewey.’40

L’esperienza artistica è dunque per il Pragmatismo solo l’esperienza di qualcosa che mostra se stessa nel suo essere un processo creativo, e questa è una esperienza integrale. Ma anche una opera non compiuta (non riuscita nella sua forma compiuta immodificabile) mostra il suo processo di formazione. Un quadro brutto di Van Gogh, cioè non compiuto, non riuscito, mostra anch’esso il suo processo di formazione. Il fatto è che il senso vero della artisticità sta nella compiutezza, e non nel solo mostrare il proprio processo di formazione come esperienza integrale: deve mostrare un processo di formazione che sia compiuto, riuscito. Dunque in questo riuscito c’è qualcosa d’altro e in più che in una esperienza integrale. E’ una differenza di sostanza, non di grado (v. in “TempoFermo” n. 1, p. 45: “Il tempo fermo”).

E' chiaro che, all'interno di una tale Estetica, che non fa alcuna distinzione fra l'estetico e l'artistico, ma anzi riduce l'operazione artistica a soddisfazione estetica di un comportamento soggettivo vitale "intensificato", si giustificano tutte le prassi (produzioni di oggetti o comportamenti) che l'autore considera a sua discrezione intensificazione della propria esperienza della vita. Ma tali oggetti e prassi, anche se nulla vieta che possano a volte possedere qualità di artisticità e essere quindi opere d'arte, sono invece in gran parte solo oggetti estetizzati e oggetti estetici testimoniali, che testimoniano l'esteticità (comportamento e vita esteticamente "intensificata") dell'autore.

Sono gli oggetti del procedimento postmodernista, derivazione da quella Estetica americana, e imposto all’Europa dopo la seconda guerra mondiale dalla egemonia culturale americana. E a questo punto va fatta una digressione per introdurre le categorie del Dilettante (in opposizione alla categoria di Autore) e della “civiltà dei Dilettanti” (da “TF” n. 2 , nota 28):

“Il Dilettante è colui che produce un oggetto per il proprio diletto, l'Autore é colui che produce un oggetto per la riuscita dell’oggetto. Il Dilettante "usa" un linguaggio specifico (fare scarpe, giocare al pallone, pitturare, cantare, cucinare ecc.) per il suo diletto, per la sua gratificazione immediata, e pertanto in un modo qualsiasi, purché diletti e finché diletta (“diverte”), senza un rapporto totale e creativo con la Poiesis. L'Autore invece "viene usato", è strumento della Poiesis, che impone a lui un solo modo fra i tanti, che è quello che porta alla riuscita artistica dell'oggetto/opera.

Nell'agire del Dilettante, egli è il protagonista della operazione. Nell'agire dell'Autore è protagonista la riuscita dell'opera, nel modo che la Poiesis pretende.

E' un passaggio fondamentale: il soggetto avverte, sente quando la produzione dell'opera non avviene più a sua discrezione (di Dilettante), ma ora è l'opera stessa a pretendere di essere formata in un certo modo, verso una certa forma, che si possa definire "riuscita". E’ allora che diventa Autore.

Ci si può divertire a fare un'opera, da Dilettanti, in un modo qualsiasi, purché sia divertente e finché è divertente. La difficoltà può non divertirci e indurci a smettere. Ma si può invece cominciare a produrre un opera da Dilettanti, inseguendo una intuizione formale, magari all'inizio confusa, e poi, proseguendo, avere intuizioni che evolvono fino a far sentire, ad un certo punto, che da quel punto è l'opera a pretendere di essere formata in una certa forma per essere "riuscita", ha una sua teleologia. In questo caso nessuna difficoltà o altro induce ormai il soggetto, da Dilettante diventato Autore, a smettere il fare, perché il fare deve continuare comunque fino al risultato voluto dalla Poiesis: la "riuscita" dell'opera.

Il passaggio dal Dilettante all'Autore è fondamentale come passaggio dal mito all'arte. Prima c'è il mito: il primitivo "fanciullo", come il Dilettante, "vive" il mito (estetizzazione della vita), che poi invece l'Autore narrerà in quella narrazione speciale che è l'opera d'arte. "Lo spirito primitivo non inventa i miti: li vive. I miti sono, originariamente, rivelazioni dell'anima precosciente, involontarie testimonianze di processi psichici inconsci"(C. G. Jung/K. Kerényi, "Prolegomeni dello studio scientifico della mitologia", Boringhieri 1972, p.113) (vedi anche “Psicogenesi dell’arte” in “TF” n. 1, p. 45).

Come il Dilettante, il "fanciullo" ("primitivo" o contemporaneo) "si diverte" a vivere il mito, e poi a testimoniarlo in oggetti estetici testimoniali. Dunque il soggetto passa dal "fanciullesco" dilettantismo (i bambini non fanno arte) in cui "usa" un linguaggio specifico (vestire, mangiare, danzare, amare, parlare, fabbricare, decorare, cucinare ecc.) nella situazione di diletto del singolo, alla "autorità", in cui invece è la Poiesis che, "conducendolo per mano", pretende dal soggetto di formare l'oggetto in una forma riuscita. La Poiesis, entità che trascende il singolo, per questa sua trascendenza conferisce al soggetto l'"autorità" di Autore.

Si capisce allora lo stupore del singolo (ieri come oggi) di fronte all'opera d'arte. Lo stupore è anche dato dal sentire, in modo sorprendente, la presenza della Poiesis dell'inconscio/Linguaggio come presenza altra che lo trascende; dal percepirla (anche confusamente) come Altro (vedi indietro nel capitolo Sociologia) che gli parla e lo parla ( Questo vale per Dante: "...Allora dico che la mia lingua parlò quasi come per se stessa mossa, e disse: Donne ch'avete intelletto d'amore. Queste parole io ripuosi ne la mente con grande letizia, pensando di prenderle per mio cominciamento;..." (Dante Alighieri, "Vita nuova", Garzanti 1977, p. 29) come per Rimbaud : "E' falso dire : io penso. Si dovrebbe dire : Mi si pensa...Io è un altro" (A. Rimbaud, "Lettera a Izambard", 13 maggio 1871, in "Una stagione all'inferno", Longanesi 1951, p.107). Vedi anche Novalis: "Uno scrittore è una persona animata dal linguaggio". “Quando sono aperte tutte le valvole della composizione, quando sembrano cedere tutti gli ostacoli formali e la penna riesce a malapena a tenere il passo con l’impeto delle forme, i poeti, i romanzieri, i musicisti dicono di lavorare “sotto dettatura”. C’è una voce nella loro voce.” (G. Steiner, “Grammatiche della creazione”, Garzanti 2003, p. 220)

Fra le cause del proliferare odierno dei Dilettanti non ci sono solo benessere e consumismo e diritti ecc., ma anzitutto lo scarsissimo conto in cui viene tenuta la disciplina in questione, l'arte in generale. Infatti una disciplina ritenuta importante difficilmente viene praticata in modo dilettantesco. Le arti erano considerate nei secoli passati cosa molto importante per tutte le loro funzioni, e i Dilettanti erano pressoché ignoti. C'erano artisti mediocri, che è tutt'altra cosa. Invece oggi l'arte non è affatto una cosa importante, cioè da rispettare. Non si sa bene che funzioni sociali assolva, né a cosa serva nella sostanza. Per cui non si riconoscono alla pratica degli artisti effetti e funzioni con "autorità" (proprio come pratica di un Autore e non di un Dilettante) tale da inibirne l'uso dilettantesco (come per i medici, avvocati, imprenditori, ingegneri, grafici, economisti, banchieri, ecc. ecc.). Non c'è più un committente che sappia benissimo cosa l'arte gli serva (anche magari ad asservire i sudditi) e per il quale allora essa possa essere una cosa importante. Invece il committente è ormai il pubblico stesso, che vagamente sa che l'arte gli serve solo come intrattenimento (se non come lusso o terapia ecc.), per cui non è cosa da prendere troppo sul serio. Essa pertanto può essere fatta da tutti, cioè dal pubblico stesso committente di sé stesso, come Dilettante (procedimento postmodernista).

Il dipinto antico di una Madonna in una chiesa doveva essere riuscito non solo per assolvere le sue funzioni prima e seconda, ma anche per assolvere la terza, che è celebrazione e culto della Madonna, e quindi tramite di comunicazione fra il pubblico e la Madonna. In altre parole, l'autore doveva tendere alla riuscita del quadro anche perché se il quadro era ritenuto "brutto" (non riuscito), la comunità stessa poteva rifiutarlo. Quindi l'artista essere "punito". L'artista dunque risponde, ha responsabilità rispetto al pubblico, alla comunità.

Ma questa responsabilità esiste solo quando l'oggetto serve alla comunità, quando è giudicabile dalla comunità (ha un valore d'uso per la comunità). Ma nella impossibilità (oggi) del riconoscimento di riuscita di un oggetto da parte della comunità è implicita la sua inutilità per quella comunità. Ora, il rapporto che il Dilettante stabilisce con l'oggetto è proprio quello che prescinde dal giudizio della comunità, quindi dalla utilità sociale (se non vaghissima) dell'oggetto. Il Dilettante, facendo l'oggetto, usa, strumentalizza il linguaggio specifico a cui l'oggetto appartiene, per la sua privata utilità, non per una utilità sociale (funzione genetica terza), la quale invece pretenderebbe da lui di essere un Autore (professionista), e di rispondere responsabilmente della riuscita dell'oggetto di fronte alla comunità”.

A questo punto non si possono non riportare alcune osservazioni che A. de Tocqueville pubblicò ancora nel 1840, nel suo celebre libro "La democrazia in America" (Rizzoli 1994, p.463/465/466): "In una classe industriale di questa specie (aristocratica) ogni artigiano non soltanto deve fare la sua fortuna, ma anche conservare la considerazione di cui gode. Non il suo interesse fa la regola e neanche quello del compratore, ma quello del corpo, e l'interesse del corpo è quello per il quale ogni artigiano produce dei capolavori. Nei secoli aristocratici l'intento delle arti è dunque quello di fare il meglio possibile e non il più rapidamente possibile né a miglior mercato.

Quando, invece, ogni professione è aperta a tutti e la massa vi entra e ne esce continuamente, i suoi diversi membri divengono estranei, indifferenti e quasi invisibili gli uni agli altri a causa della loro quantità. Il legame sociale è distrutto e ogni lavoratore, ricondotto verso se stesso, non cerca che di guadagnare più denaro possibile con minor spesa ed è limitato soltanto dalla volontà del consumatore". "Ora, non vi sono che due maniere per arrivare ad abbassare il prezzo di una mercanzia. La prima è di trovare mezzi migliori, più veloci e più agevoli, di produzione. La seconda è di fabbricare in grande quantità oggetti quasi simili, ma di minore valore. Presso i popoli democratici tutte le facoltà intellettuali del produttore sono dirette verso questi due punti". "Perciò la democrazia non tende soltanto ad indirizzare lo spirito umano verso le arti utili, ma spinge gli artigiani a fare rapidamente molte cose imperfette ed il consumatore ad accontentarsene." "Gli artigiani che vivono nei secoli democratici non cercano soltanto di mettere alla portata di tutti i loro prodotti utili, ma si sforzano anche di dare a tutti i loro prodotti qualità brillanti che essi non hanno affatto; nella confusione di tutte le classi ognuno spera di poter apparire ciò che non è e fa grandi sforzi per riuscirvi". "Nelle aristocrazie si fanno pochi grandi quadri, nei paesi democratici una quantità di piccole pitture. Nei primi si innalzano statue di bronzo, nei secondi statue di gesso".

Dopo più di 150 anni, si può leggere a commento il testo pubblicato sul giornale “Il Messaggero Veneto”, in data 18/10, 2003, dal titolo “L’Arte, l’America e l’Europa”: “19 agosto 1944. I muri di Parigi occupata dai tedeschi si coprono di manifesti della Resistenza che invitano alla insurrezione. Dicono: “VIVA PARIGI INSORTA!…E’ in una Capitale già liberata dal Popolo di Parigi che devono entrare i blindati americani….” Così è stato. Ma poi gli Americani arrivano. E l’Europa entra nella Postmodernità. Da allora tutti nel mondo vivono nella Postmodernità, cioè nella egemonia culturale americana.

Parigi è stata per secoli la capitale della Modernità. Ora New York è la capitale della Postmodernità.

Nell’arte, la Postmodernità si riassume nella proposizione: “è arte ciò che gli uomini chiamano arte”. Ovvero: “è arte tutto ciò che alcuni uomini, che hanno il potere di farlo e di imporlo, decidono di chiamare arte”. Pertanto tutto può essere arte. Ma se tutto può essere arte, l’arte può anche essere niente.

A questa deriva verso il niente, l’Europa (Parigi) ha opposto lungo tutto il 900 una sotterranea estenuante resistenza. Per difendere cosa?

Per secoli, l’arte è stata una operazione che produce oggetti con la qualità di artisticità, per cui si definiscono opere d’arte. Fino nella tarda Modernità, agli europei è stato consentito di esprimere sulle opere giudizi di valore legittimati dalle tradizioni, prima che queste si dissolvessero completamente nella ricerca del “nuovo”. Infatti l’arte dei grandi Modernisti del 900 (da Joyce a Picasso, da Eliot a Montale, da Afro a Bacon, da Ravel a Schœnberg, ecc.) è tale in quanto conserva, nonostante le innovazioni del linguaggio, la sua funzione antropologica di produrre oggetti con la qualità di artisticità, rispondendo a un bisogno costitutivo dell’uomo. In ciò consiste la proposizione di Baudelaire: “La modernità è il transitorio, il fuggitivo, il contingente, la metà dell’arte, di cui l’altra metà è l’eterno e l’immutabile”.

Sono invece gli Avanguardisti che, privando l’operazione arte di ogni fondamento antropologico (cioè “l’eterno e l’immutabile” di Baudelaire), e trasferendola nella logica sociologica del progresso all’inseguimento delle fortune della scienza, ne stravolgono la funzione prima, che non è più quella di produrre oggetti con la qualità di artisticità, ma diventa quella di produrre solo strumenti con carica eversiva sempre rinnovata per la rivoluzione estetico-sociale. Questi differentissimi oggetti, estetici ed estetizzati a prescindere da ogni loro qualità, vengono inseriti nel “sistema istituzionale dell’arte”, ottenendo la dignità di opere dell’arte, sebbene Duchamp, padre geniale e indiscusso di questa “catastrofe” della Modernità, affermi che i suoi readymade (oggetti qualsiasi estetizzati dal loro essere esposti in una galleria) non sono arte, ma volutamente anti-arte. E’ l’”istituzione arte” (le gallerie, i musei, le case editrici, ecc., appunto gli “uomini che hanno il potere di chiamare arte qualsiasi cosa”) ad appropriarsene, convertendo più tardi, nell’estinguersi di ogni istanza rivoluzionaria, l’anti-arte in “arte”: mistificando l’eversività del “nuovo” dell’anti-arte nel “nuovo per il sempre uguale” del consumismo. E di questa operazione è fin dall’inizio capitale New York.

Sono gli anni, intorno alla prima guerra mondiale, quando l’America si affaccia sul mondo come potenza. Verso un’Europa che soffre il calvario del tramonto dell’Umanesimo e della Modernità, della perdita della fiducia nell’uomo su cui si sono fondati 500 anni della sua storia, l’America ostenta la forza e l’ottimismo del Pragmatismo, filosofia che solo una nazione giovane dalle infinite opportunità può permettersi il lusso di proporre, di fronte al venir meno di ogni fondamento di verità nella cultura madre europea. Una filosofia che di ogni cosa cerca di stabilire anzitutto il suo valore “pratico” (la sua funzione), ma che rischia di banalizzarsi nel relativismo radicale e ingenuo della proposizione: “è vero ciò che ha successo” (che è l’opposto della proposizione del senso comune della tradizione occidentale che dice: “ha successo (dovrebbe avere successo) ciò che è vero”).

Ma da quando nel mondo occidentale ogni verità assoluta è venuta meno, quella proposizione sembra ragionevole. Se una cosa funziona, cioè ha successo, perché non poter dir che ha “la sua qualità”, che è “vera”? Per esempio: se si produce una cosa la cui funzione è andare a 150 km. all’ora (e la si chiama “automobile”), ed essa corre veramente a 150 km. all’ora, essa assolve quella funzione, cioè funziona, ha successo, è “vera”, ha la qualità di “automobile”. Ed ecco allora si pensa di poter anche dire: se si produce una cosa la cui funzione è esibire la propria qualità di artisticità, ed essa la esibisce, essa assolve quella funzione, cioè funziona, ha successo, è “vera”: è un’opera d’arte. Ma attenzione: i 150 km all’ora (cioè il successo della prima cosa) sono un valore condiviso da tutta la comunità, addirittura dimostrabili e misurabili: hanno cioè un fondamento di verità. Invece la qualità di artisticità di un’opera non ha alcun fondamento di verità, non è né dimostrabile né misurabile.

Dunque, per poter dire che una cosa ha successo (funziona), bisogna che ci sia comunque un criterio di riferimento, che quel successo sia un valore “vero”, cioè condiviso dalla comunità. Nell’arte il valore condiviso di questo successo (=il riconoscimento unanime della riuscita artistica di un’opera) era possibile grazie alle tradizioni, ma esso si è ormai perso nella dissoluzione di queste tradizioni, ed ecco perché dell’arte si cerca oggi un fondamento antropologico, prima che il relativismo radicale postmoderno, vanificando ogni possibilità di giudizio di valore, la distrugga.

La proposizione: “è vero ciò che ha successo” presuppone dunque sempre, per essere accettabile, il valore condiviso di questo successo. L’uomo americano invece ha la propensione a illudersi di poter vivere la “libertà” del relativismo radicale, senza prima legittimare secondo regole il successo che persegue. E’ forse legittimo avere successo (per esempio: diventare ricco) rubando? Se il successo fosse in ogni caso legittimo, sarebbe certamente legittimo rubare per ottenerlo: il successo legittimerebbe qualsiasi metodo per ottenerlo. Ma se c’è invece un criterio di riferimento condiviso, per cui è proibito rubare, esso rende quel successo illegittimo, “non vero”. Per cui la proposizione: ”è vero ciò che ha successo” (=è arte ciò che alcuni uomini che hanno il potere di farlo decidono essere arte) si dimostra solo la legge del più forte.

La propensione dell’americano a vivere senza regole, nella deregulation, deriva dal privilegio di occupare un luogo dalle infinite opportunità, quello “spazio per tutti” che l’America può, nonostante le immense contraddizioni, offrire, per cui il successo è alla portata di tutti, lo stesso (economico) per tutti, facilmente recuperabile se perduto, reinventabile se consumato. Ciò sembra possibile perché l’America è tutta un “vuoto da riempire”, tutta un “uguale fare e disfare”, senza storia, senza differenze di qualità e di identità che, per sopravvivere, a quel “fare e disfare” si contrappongano (a parte gli indiani, preventivamente distrutti).

Questo relativismo radicale è il lusso di un pensiero che l’Europa sa di non potersi permettere. L’Europa non è un “vuoto da riempire” di indifferenziate banalità, è il “luogo delle differenze di qualità”. Non è la prateria del facile, ma l’orto del difficile. E’ la storia di una disperazione franata in totalitarismi e ideologie aberranti, in guerre fratricide, in sofferenze inenarrabili, che solo la dignità e la grandezza della qualità possono ora riscattare. Non tutto è accettabile, e solo la qualità può conferire ormai senso all’insensatezza esistenziale dell’oggi. La qualità è la sola verità dell’uomo senza verità. Ma la qualità è possibile solo a partire da regole condivise, da criteri di riferimento, anche se faticosamente istituiti giorno dopo giorno.

Non altrimenti, giorno dopo giorno, vanno ricercati nuovi fondamenti che possano ripristinare il giudizio sulla qualità delle opere, perché la deriva dell’arte nell’anything goes (una cosa vale l’altra) è parte della deriva di una intera cultura, che dal Pragmatismo passando per il relativismo radicale porta all’autoritarismo. E’ ciò che l’Europa non si può permettere, non solo per ovvia difesa di fronte alla superpotenza americana, ma anzitutto perché la qualità è la filosofia della sua sopravvivenza.

E’ anzitutto per questo, anche se certo non solo per questo, che Parigi (l’Europa), dopo quasi sessant’anni da quell’agosto del 1944, dice “no” all’americana guerra all’Irak senza l’approvazione dell’ONU. Senza cioè la legittimazione condivisa del “successo””.

Dalla “riuscita” dell’opera alla “riuscita” dell’Autore

Nella Estetica di Dewey ci sono dunque le premesse per quell’estremo evento rivoluzionario che è l’estetizzazione diffusa della società del procedimento postmodernista, dove l’intensità della esperienza del soggetto non è dovuta tanto alla qualità dell’oggetto, quanto alla predisposizione del soggetto stesso ad avere una esperienza intensificata comunque, a prescindere dalla qualità dell’oggetto. E’ allora il soggetto a essere il motore dell’esperienza, non l’artisticità dell’opera.

Fare infatti dell’operazione arte un mero strumento del progresso, o della rivoluzione estetico-sociale, o della estetizzazione diffusa della società, vuol dire spostare l’attenzione dalla “riuscita” artistica dell’opera (che è stata da sempre la protagonista della operazione, nonostante e al di là di tutte le funzioni secondarie magiche, religiose, celebrative, di narrazione, di critica, ecc., con cui viene usata dalla società) alla “riuscita” dell’Autore, cioè della società stessa. La riuscita della vita, nella identificazione arte=vita. La compiutezza della vita (Dewey) e non la compiutezza dell’opera separata dalla vita.

Purtroppo non sembra che le attuali condizioni della esteticità diffusa possano considerarsi un concretizzarsi positivo di qui presupposti teorici. L’estetizzazione basata sulla produzione e consumo di massa di oggetti estetici non incide sulla alienazione di “avere” piuttosto che “essere”.

Se allora da un lato non si è avverata l’identificazione arte=vita, come nelle intenzioni delle avanguardie storiche, dall’altro si è invece avverata in gran parte la distruzione dell’opera d’arte. E’ per questo che oggi siamo costretti a cercare di capire finalmente che cosa l’opera d’arte sia stata veramente per l’uomo in questi 40.000 anni.

Il procedimento avanguardista si fa risalire a Rimbaud, così come il procedimento modernista a Baudelaire.

Nella teoria del poeta come "veggente" di Rimbaud, il poeta visionario vede l'"ignoto" che gli altri non vedono. "Se ciò che lui riporta da laggiù ha forma, egli dà forma; se è informe, egli dà informe".41 Questo vuol dire che il poeta/artista è strumento di quell'"ignoto", che altro non è che il Linguaggio: egli è dunque agito, "parlato" dal Linguaggio. "Si tratta di giungere all'ignoto attraverso lo sconvolgimento di tutti i sensi. Le sofferenze sono enormi, ma bisogna essere forte, essere nato poeta, e io mi sono riconosciuto poeta. Non è in nessun modo colpa mia. E' falso dire: Io penso. Si dovrebbe dire: Mi si pensa. Scusate il gioco di parole. Io è un altro". 42

Ora, questa discesa agli inferi, questa scoperta/invenzione della identità più profonda (nell'ignoto) di tutti i possibili Io, appartiene al presente: è in funzione dell'opera, e Rimbaud fin qui appartiene al procedimento modernista ("Le scoperte dell'ignoto reclamano nuove forme").43

Ma il pensiero di Rimbaud va oltre fino all'artista missionario: per cui l'arte dovrebbe avere un ruolo sociale di emancipazione. L'irrazionalismo "di tutti i sensi" sarebbe in verità programmato da una razionalità che lo supera, per un nuovo ordine/linguaggio universale. Pertanto il poeta, con le nuove forme, provocherebbe e anticiperebbe nuovi tempi, nuove armonie sociali: “Il poeta definirebbe la quantità di ignoto che si desterebbe nell'anima universale, durante il suo tempo; darebbe più che la formula del suo pensiero, che l'annotazione della sua marcia verso il progresso!” “Enormità divenuta norma assorbita da tutti, egli sarebbe davvero un moltiplicatore di progresso.... L'arte eterna avrebbe la sua funzione, come i poeti sono cittadini. La poesia non ritmerà più l'azione; sarà più avanti”.44

Cioè non sarà solo narrazione dell'azione, ma la produrrà.

A queste enunciazioni teoriche si rifanno gli avanguardisti. Ma Rimbaud stesso fa in proposito un'autocritica, in Une saison en enfer, autoanalisi di una sconfitta, nella totale sfiducia nella Chiesa e nella politica e nella stessa scienza. Dopo aver scritto: "La scienza, la nuova nobiltà! Il Progresso. Il mondo cammina! E perché non dovrebbe girare?"45 ammette: "...la scienza è troppo lenta".46 "Bisogna essere assolutamente moderni".47 Ritornare cioè alla dimensione del presente.

Baudelaire aveva già intuito queste aporie della Avanguardia, quando ne condannava la teleologia hegeliana e il progresso dell'arte.

Ciò che, al di là delle intenzioni coscienti, è veramente in atto nel procedimento avanguardista, è il processo di esautoramento dell'oggetto da parte del soggetto (“l'essere in potere del soggetto”, “l’oblio dell’essere”, propri del nichilismo).

Il protagonista dell'operazione arte non è più la riuscita artistica dell’opera, ma il soggetto Autore. L'Autore non è più al servizio dell'opera, ma viceversa l'opera è al servizio dell'autore (che è la società) e della sua estetizzazione.49

L'identità dell'Autore non viene "reinventata", come nel Modernismo, nel rapporto con l'altro da sé opera/Linguaggio, ma pretende di sussistere per se stessa, in una prepotente autoaffermazione del soggetto (l'autore come feticcio), che finisce per distruggere l'altro da sé opera/Linguaggio.

Se il narcisismo dei modernisti poteva essere in parte giustificato dalla disperata ricerca di identità, quello degli avanguardisti è sfacciato, perché il soggetto autore vale ormai più della riuscita artistica dell’opera.50

L’“invidia” nei confronti degli scienziati, la cui disciplina progredisce, e che sono ormai i veri protagonisti della storia, è sintomo della perdita di identità di modernisti e avanguardisti. Ma qui questa identità vuole essere prepotentemente recuperata a scapito dell’opera. Ciò avviene con uno spostamento della funzione: la funzione prima della operazione non è più quella di produrre opere e comportamenti che esibiscono la propria qualità di artisticità, ma che esibiscono l’esteticità dell’Autore, cioè della società.

Ma questa autoaffermazione di identità sarebbe ovviamente illusoria (una semplice fuga da se stessi o un affascinante impulso all'autodistruzione), se non fosse sostenuta in verità da un implicito sottinteso altro da sè fortissimo: l’idea metafisica del progresso umanista. In questo rincorrere l'Utopia, l'Avanguardismo si mantiene nella dimensione della metafisica e contraddice il suo presunto e spesso dichiarato nichilismo. Tant'è che nel Postmodernismo, dove l'autoaffermazione dell'autore sussiste, ma la metafisica del progresso è negata, in un approccio veramente (quasi) nichilistico alla realtà, il grande problema irrisolto rimane il problema dell’identità del soggetto.

Autori estetizzanti, sublimi e concettuali

Partecipano al processo della “perdita dell’oggetto” tre categorie di protagonisti: gli autori estetizzanti, gli autori sublimi e gli autori concettuali.

Alla prima appartengono autori e movimenti che esplicitamente si pongono come fine il superamento dell'oggetto artistico per un' "arte come fatto estetico integrale". Gli estetizzanti non sono solo produttori di oggetti, ma anche di situazioni (es: Dada, situazionisti, alcuni surrealisti). Per essi, la estetizzazione della società implica, se rigorosa, più un comportamento soggettivo che una produzione di oggetti, sia estetici che artistici. La rivoluzione estetica antiartistica vuole l'onnipotenza del piacere estetico, nel coinvolgimento del pubblico, delle masse, aprendo quel processo che condurrà a essere protagonisti dell’operazione non più l’opera e nemmeno l’Autore, ma il pubblico stesso nel procedimento postmodernista.

Alla seconda appartengono autori che, pur accettando ancora (provvisoriamente, come tappa di quel processo di dissoluzione dell’opera d’arte nella vita) l'inevitabile separatezza fra arte e vita, e quindi la produzione di oggetti, considerano le opere all'interno della teleologia progressiva dell'arte verso una condizione utopica, e arrivano così di fatto alla condizione di fine dell’opera d'arte.

Questi Autori sublimi51 producono oggetti, ma questi oggetti, che pretendono di essere opere d'arte, portano in sè una contraddizione: essi sono destinati a "progredire" fino a pretendere di essere "arte pura" (di contro alla impurità narrativa costitutiva dell'arte), fino a realizzare (da parte dell'arte) "la propria essenza". In definitiva: il “suicidio dell’artistico”.

Scrive A. Berardinelli52: "Nel processo di avvicendamento delle élites, perché i vecchi gruppi siano sostituiti dai nuovi è stato spesso necessario per questi ultimi cominciare con l'accreditarsi anzitutto quali angeli della morte e agenti della fine del mondo, per sfruttare poi a proprio vantaggio il brivido o il panico che queste immagini seminavano intorno".

Condensare i termini Mythos e Poiesis fino allo spasimo di una impossibile essenza è un eccesso e in questo eccesso è il "sublime" (secondo Sedlmayr: l’”angelismo”).

Rimbaud: "...il disordine di tutti i sensi".

Malevic:" Nel Suprematismo non si può ormai parlare di pittura. La pittura è stata superata da tempo, e il pittore è un pregiudizio del passato". "Nei nostri studi non si dipingono più quadri, si edificano le forme della vita".53

Mondrian: "(Il cubismo) non sviluppa l'astrazione fino al suo obiettivo finale,

l'espressione della realtà pura.

El Lissitskj: "...Pertanto, gli spazi di esistenza puramente matematica non sono rappresentabili e, tanto meno, realizzabili".

Blanchot: "La letteratura va verso se stessa, verso la propria essenza che è la sparizione".54

Breton: "Surrealismo, n.M. Automatismo psichico puro col quale ci si propone di esprimere............al di fuori di ogni preoccupazione estetica o morale.55

Pollock: "Quando sono nella mia pittura, non mi rendo conto di quello che faccio".

Warhol: "Io sono quello che sembro. Dietro non c'è niente".

Rappresentare l'irrapresentabile, narrare l'inenarrabile: questa è l'utopia metafisica minimalista degli autori sublimi, che, intrapresa la navigazione modernista di produzione dell'opera, approdano sulla spiaggia avanguardista della distruzione dell'opera (in alcuni magari proprio vissuta come la fine del mondo).56

Fra le ragioni che spingono questi autori in questo processo di morte e presunta rigenerazione dell'arte in una nuova libertà, c'è l'irresistibile bisogno di essere loro, e non l'opera, il vero protagonista della creazione artistica. Rifacendosi al concetto di Sublime in Kant, scrive R. Milani57: "Il bello riguarda la finalità dell'oggetto verso il soggetto conoscente, il sublime invece la finalità del soggetto verso l'oggetto. Il secondo suscita commozione, il primo stimola. Nel bello l'oggetto si "predispone" per la conoscenza del soggetto: qui il piacere è congiunto alla rappresentazione della qualità; nel sublime c'è un trasferimento della facoltà del soggetto nell'oggetto: qui il piacere è congiunto alla quantità." Cioè, mentre il bello (artistico) dipende dalle proprietà dell'oggetto, il sublime non dipende da alcuna proprietà dell'oggetto: è il soggetto che investe di un suo sentimento, la "sublimità", l'oggetto (estetizzandolo). E Pareyson: "Il sublime non consiste tanto nel percepire, come nella contemplazione pura della bellezza libera, una predisposizione della natura verso la nostra conoscenza, quanto piuttosto nell'attribuire alla natura un significato spirituale, nel percepire la natura come figurazione della stessa nostra moralità".58

Si tratta dunque di quel processo di estetizzazione che vede lo spostamento dell'interesse dall'oggetto al soggetto autore, soggetto che, estetizzando l'oggetto anche indifferente (natura), fa di se stesso un'opera erigendosi a demiurgo.

Il "Quadrato bianco su fondo bianco" non ha una qualità di artisticità: è l'autore Malevic che gli conferisce una "sublimità" con la sua (dell'autore) proclamata, eccessiva, esasperata e mistica urgenza di una forma assoluta. Il fascino o gli stimoli che emanano da questo oggetto non sono oggettivi, dovuti all'oggetto in sé, ma alla proclamata poetica dell'autore. Non è il quadro che "vale", è l'autore che "lo fa valere e si fa valere", come opera di se stesso, all'interno di una precisa intenzionalità e contesto culturale.

Quel quadro, appunto, non è un oggetto artistico: essendovi distrutta ogni narrazione, è un oggetto artigianale (vedi “TF” n.1, p.11).

Non altrimenti sono oggetti artigianali i quadri “estremi” di Mondrian, proprio i quadri in cui, secondo E. Gilson59, l’arte contemporanea realizzerebbe “finalmente” l’emancipazione della pura forma come elemento pla